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Fiat e produttività: il patto della vergogna

(6 Ottobre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.radiocittaperta.it

06-10-2010/10:57 --- In via di archiviazione lo strappo sulla Fiat di Pomigliano e Melfi, lunedi i padroni hanno invitato le banche e tutti i sindacati “collaborativi” a ragionare insieme per rilanciare la produttività del Paese. “Serve una grande assunzione di responsabilità per il Paese», ha detto il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, ai rappresentanti di una ventina di sigle riuniti nella sede dell'Abi a Roma per la convocazione del tavolo sulla produttività. Un tavolo che appare propedeutico ad un nuovo patto sociale neocorporativo come quelli che furono partoriti nel luglio del ’92 e del ’93 e che diedero il via alla concertazione….e alla devastazione dei diritti e delle condizioni sociali dei lavoratori.
La tabella di marcia prevede una messa a punto dell'accordo separato firmato con Cisl e Uil nel gennaio 2009 sulla riforma del modello contrattuale e un accordo comune sul problema del precariato e dell'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. In questo modo la Confindustria intenderebbe spianare la strada al “rientro della Cgil”, visto che il testo risponderebbe proprio all'esigenza di realizzare un contratto nazionale più largo e generale come richiesto a più riprese da Epifani. Il segretario uscente della Cgil, fomentato dalla possibilità di tornare al tavolo, ha auspicato che il tavolo di confronto tra imprese e sindacati per cercare posizioni condivise, deve andare avanti «speditamente», anche «al ritmo di un incontro ogni settimana», magari sempre di lunedì.
Bonanni invoca invece soluzioni immediate sul modello indicato da Marchionne: «Le parti sociali guardino al sistema Pomigliano», l'unico – secondo il capo della Cisl - in grado di attirare produttività e investimenti per i quali invoca «un kit di vantaggi dal fisco ai servizi».
Al tavolo di lunedì tra imprese e sindacati è stata raggiunta anche l'intesa per lavorare «ad una proposta condivisa per una riforma fiscale che, a invarianza della pressione (?) porti ad una ricomposizione a favore di lavoratori e imprese». Imprese e sindacati – ha affermato la Marcegaglia - considerando la necessità di non modificare l'ammontare delle entrate fiscali, «indicheranno dove aumentare la pressione per diminuirla su lavoratori e imprese», la quale ha poi spiegato che c'è accordo sull'obiettivo di lavorare insieme «sul tema della produttività, per un miglior incontro tra salario e competitività delle imprese, e sul tema degli investimenti». Insomma, esulta il giornale della Confindustria “C'è una società intermedia, fatta di associazioni d'impresa e di lavoratori, che cerca una nuova via del dialogo senza più frammentazioni o strappi. Per questo sono stati importanti i toni usati dai convenuti ieri sera, Cgil compresa” scrive il Sole 24 Ore di martedì.
Martedì intanto la Fiat ha incontrato i sindacati (Fiom inclusa) per fare il punto su Fabbrica Italia, ed ha ulteriormente ribadito che l'avvio del progetto a Pomigliano e' subordinato all'esistenza di condizioni preliminari che assicurino il quadro di certezze necessario per la sua realizzazione. Nel linguaggio di Marchionne ciò significa che “L'importanza delle scelte di destinazione dei nuovi modelli e il volume degli investimenti previsti richiedono un elevato livello di garanzia in termini di governabilita' degli stabilimenti e di utilizzo degli impianti”. Secondo Landini “la Fiat ha detto che non esclude soluzioni che potrebbero andare oltre Pomigliano e che la derogabilita' del contratto nazionale non e' sufficiente a rispondere alle sue esigenze”. Nel linguaggio comune significa che l’amministratore delegato della Fiat vuole carta bianca a tutti i livelli, esattamente come chiesto a giugno a Pomigliano e messo in pratica a Melfi o a Termoli con i licenziamenti dei delegati sindacali.
Dunque in questi giorni Marchionne, Marcegaglia, Fini, Bonanni, Epifani, si sforzano con ogni mezzo di decretare la fine del conflitto tra capitale e lavoro e rilanciano l’idea mefitica di un patto sociale neocorporativo che pieghi definitivamente i lavoratori alle esigenze dei padroni.
Ma quando costoro parlano di Patto sulla produttività, sembrano parlare della “vigna dei cojoni”, ignorando o facendo finta di ignorare che il deficit di produttività del sistema produttivo italiano non dipende dai lavoratori né dai sindacati. Al contrario, è una contraddizione tutta interna all’arretratezza e alla voracità dei gruppi capitalistici nel nostro paese.
In Italia, ad esempio, solo il 18% dei lavoratori è occupato in imprese che hanno più di 250 addetti. Il 59% lavora in micro-imprese e quasi dieci milioni di lavoratori su diciassette non usufruiscono neanche dei diritti previsti dallo Statuto dei Lavoratori.
Non solo. Il modello italiano spicca anche per la lunghezza della sua giornata lavorativa direttamente proporzionale alla scarsità di investimenti nella ricerca e sviluppo da parte delle imprese e dello Stato. Secondo i dati OCSE infatti, un lavoratore italiano nel XXI° Secolo non ha mai lavorato meno di 1.800 ore l’anno (la media è 1.824 ore annue). Un lavoratore tedesco ne lavora poco più di 1.400, un lavoratore francese 1.500, un lavoratore inglese lavora in media 1.670 ore l’anno e uno statunitense quasi 1.800 ma comunque meno di un lavoratore italiano. In questi giorni, una importante azienda del settore aerospaziale, sta chiedendo di portare per un periodo indefinito la settimana lavorativa a 60 ore! Cioè dodici ore al giorno su cinque giorni o dieci ore su sei giorni lavorativi. I padroni italiani inoltre hanno potuto contare sui salari più bassi nei paesi industrializzati. Il problema non è la produttività ma sono proprio gli imprenditori che sono andati in crisi quando l’entrata del vigore dell’Euro ha messo fine alle svalutazioni competitive sulla Lira e il patto di stabilità europeo ha imposto parametri più rigidi sulla fiscalità e le entrate nei bilanci pubblici. L’entrata in campo dei competitori a basso costo sui prodotti a scarso valore aggiunto come la Cina, ha poi rivelato tutta la debolezza del sistema produttivo italiano che era cresciuto comprimendo al massimo il fattore lavoro e senza nuovi investimenti tecnologici. I profitti ottenuti negli anni della concertazione con il sindacato sono stati investiti soprattutto nel settore finanziario e nella speculazione immobiliare. Gli investimenti tecnici delle imprese sono rimasti quasi fermi intorno ai 32 miliardi di euro dal 2001 fino all’esplosione della crisi nel 2007, mentre gli investimenti finanziari erano balzati dai 35 miliardi del 2001 ai 47 miliardi del 2007.
La situazione del lavoro in Italia viene dunque mortificata dalla voracità di un padronato straccione che autogratifica se stesso come imprenditori che “producono ricchezza e lavoro”. Verso costoro, i sindacati concertativi e la politica – centrodestra e centrosinistra in questo perfettamente convergenti- vengono oggi a chiedere nuovamente ai lavoratori un patto di fedeltà o meglio un patto della vergogna. Stavolta sarà bene che l’ombrello dell’omino di Altan lo vadano a piazzare da qualche altra parte.

Redazione Contropiano

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