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Gli ex alunni della scuola Diaz

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(15 Novembre 2012) Enzo Apicella
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Il caso Papini - Processo o teorema?

Un anno dopo l'arresto la storia continua.

(6 Novembre 2010)

Comunicato stampa in vista della importante udienza dell'8 novembre

Massimo Papini è un attrezzista del cinema, conosciuto e apprezzato nell'ambiente per professionalità e zelo. Ha 35 anni, è vegetariano, appassionato di moto e immersioni. Ha una famiglia, una compagna e tanti amici.
Massimo Papini è anche un amico di vecchia data di Diana Blefari Melazzi, arrestata nel dicembre 2003 e condannata all'ergastolo per associazione sovversiva Brigate Rosse e con l’accusa di aver partecipato all’azione Biagi (senza che ne sia mai stata dimostrata la presenza al momento dell’uccisione del giuslavorista).
Massimo Papini è stato arrestato il 1º ottobre 2009 a Castellabate, Salerno con l’accusa di partecipazione ad associazione sovversiva costituita in banda armata. I poliziotti della Digos di Roma e Bologna, coadiuvati da quelli della Digos di Salerno, hanno eseguito l'arresto sul posto di lavoro, un set cinematografico su cui Papini stava lavorando.

Massimo e Diana si conoscevano dai tempi dell'università ed erano sempre rimasti legati da profondo affetto. Abbastanza da spingere Massimo a starle vicino, in ogni modo consentito, anche durante la difficile detenzione. Perizie psichiatriche denunciano infatti per Diana un grave rischio suicidario, incompatibile col regime carcerario. Ma in questo legame, gli inquirenti vedono altro: dal 2004 Massimo viene interrogato più volte, subisce perquisizioni e sequestri. Senza alcun riscontro. A Bologna era stata chiesta la carcerazione preventiva, ma il G.I.P. l’aveva rigettata. Infatti verrà sentito solo come teste dell'accusa al processo di Bologna. Eppure i sospetti portano il caso da Bologna a Roma dove viene stata chiesta la custodia cautelare. Per il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma Maurizio Caivano ce n’è abbastanza per metterlo in carcere. L'ordinanza è del 18 settembre 2010, sette anni dopo l'arresto di Diana Blefari Melazzi.

Il 22 febbraio 2010, è iniziato il processo. Un processo difficile, estenuante, ripetitivo. Basato esclusivamente su indizi. Per buona parte basato su perizie telefoniche lacunose e univocamente interpretate. Fondato, ovviamente, soprattutto sull'evidente rapporto con la Blefari Melazzi. Teoremi e inesattezze, interpretazioni più o meno logiche che non prendono nemmeno in considerazione il valore di eventuali riscontri fattuali. E non è questa una lettura partigiana dell'impianto accusatorio dei PM, è quanto lo stesso pubblico ministero Erminio Amelio ha in fondo riconosciuto in una delle prime udienze, sottolineando che gli elementi forniti contro Massimo Papini "presi singolarmente possono sembrare incoerenti ed estranei, ma inseriti in un contesto ed assommati a testimonianze, possono diventare anelli di congiunzione di tutto il filo logico dell'inchiesta".


Quasi un mese dopo l'arresto di Massimo Papini, la sera del 31 ottobre, Diana Blefari Melazzi si è suicidata nella sua cella. Poco prima del suicidio anche i medici di Rebibbia avevano chiesto ufficialmente, alla Corte che si occupava del suo appello, il suo "indispensabile" ricovero "immediato" in una struttura sanitaria idonea. Ed è solo l'ultimo dei vani, disperati, necessari tentativi per tentare di riconoscere dignità ad una detenuta che prima di tutto avrebbe dovuto essere considerata come una persona. Scrivono gli amici: "Forse qualcuno aveva bisogno di crearsi una carriera sulla sua pelle. Inquisitori assolutamente noncuranti della sua totale incompatibilità, certificata dai medici, col carcere "duro" e con l'isolamento. Forse volevano farsi dire cose che lei mai avrebbe detto o che forse non conosceva neppure. Forse volevano ricattare i suoi sentimenti incarcerando il suo amico, Massimo Papini che con ridicole ipotesi indiziarie e senza condanna, è stato sbattuto da più di un anno in prigione in un isolamento di fatto."

A tutt'oggi sono molti i nodi irrisolti sul suicidio, oppure, il più probabile,induzione al suicidio con relativa condanna a morte di Diana Blefari Melazzi. Uno su tutti: nessuna "commissione" accerterà le circostanze della sua morte in carcere. Una detenuta che oltre ai problemi conclamati andava sorvegliata a vista, la cui condizione presentava una serie di "anomalie" a cui nessuno aveva dato un peso determinante per gestire diversamente la detenzione.

Accadeva poco più di un anno fa. E proprio in questo periodo in cui il processo Papini è entrato in una nuova fase gli amici di Diana (e di Massimo) hanno deciso di ricordarla.
Conclusa la fase dell'accusa, adesso il processo entra in un nuovo stadio con la convocazione dei teste della difesa.
Per la difesa, l'accusa ha scambiato il rapporto sentimentale e poi amicale con un diretto coinvolgimento di Massimo Papini nell'organizzazione delle nuove BR, un atto d'amore trasformatosi in una colpa. Massimo Papini ha perso la libertà per essere rimasto, ostinatamente, accanto ad una persona che soffriva e a cui voleva bene.

Il 4 marzo 2010 la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla difesa sulla custodia in carcere. Il 21 giugno il Tribunale della Libertà è stato chiamato ad esprimersi su Massimo Papini, per dare all'imputato la possibilità di affrontare il processo da uomo libero.
Il Tribunale della Libertà ha negato questa possibilità, in linea di continuità con le scelte del G. I. P.

L'andamento del processo è stato finora uniforme, a tratti noioso e non solo per il pubblico ma financo per la corte che più volte ha sottolineato la ridondanza di alcune testimonianze e di alcune analisi. Si sono succeduti periti informatici, polizia postale, agenti della Digos di roma e di Bologna. Le udienze sono state dominate dai tabulati telefonici che finora sono stati letti, interpretati e ripetutamente ripresi da teste di una sola delle due parti.
Fino al 15 luglio, quando è stata chiamata dall'accusa anche la pentita delle nuove BR, Cinzia Banelli. Sentita in videoconferenza per oltre 6 ore e mezza, intervallate da più pause, ha ricostruito il modello organizzativo delle nuove BR fino ai minimi dettagli richiesti. Ma alla domanda "lei ha mai sentito parlare di Massimo Papini?" (nella versione migliorata: "ha mai sentito un nome di battaglia che poi ha ricollegato a Massimo Papini?") la risposta della Banelli è stata: "ho sentito il suo nome solo quando ho letto della morte di Diana Blefari".

Ora il processo Papini si appresta ad attraversare un passaggio di fondamentale importanza. Lunedì 8 novembre ore 9:30
1º aula 1A (Palazzina A) - Tribunale di Roma, Piazzale Clodio inizieranno le deposizioni dei teste convocati dalla difesa. si inizierà con gli amici di Massimo. Persone a cui probabilmente sarà chiesto di chiarire, spiegare i termini del rapporto tra Diana e Massimo. E inizieranno a essere nuovamente le persone al centro di questa vicenda che finora ha dialogato con tabulati, celle, utenze, corrispondenze temporali.

A fare da spartiacque, non solo temporale ma soprattutto sostanziale, tra le due fasi del processo è stato l'interrogatorio di Massimo Papini che il 4 ottobre scorso ha accettato di presentarsi davanti alla Corte, interrogato dai PM Tescaroli e Amelio. Non si è mai sottratto alle domande per quanto a volte l'interrogatorio fosse caratterizzato dall'assoluta incomunicabilità di un uomo del tutto estraneo a una determinata sintassi al cospetto di due PM di lungo corso come Erminio Amelio e Luca Tescaroli.

E adesso il processo continua. E continua anche la detenzione di Massimo Papini. Da più di 13 mesi tra Catanzaro e Roma (qui avendo deciso di assistere al processo), tra le mille difficoltà che vive oggi in Italia qualsiasi detenuto in strutture inadeguate. Problemi riscontrati dai deputati che lo hanno visitato, denunciati da chi segue le troppe vicende carcerarie indegne di un Paese in cui il carcere è troppo spesso un luogo di mortificazione e di morte.
In particolare quello di Rebibbia, nella capitale, è un penitenziario dove i detenuti politici non possono godere di momenti di socialità né di attività sussidiarie, in cui ci sono volute le visite istituzionali per far entrare un fornello da camera e alcuni libri. Un penitenziario in cui anche dopo la decorrenza dei termini per la censura alla corrispondenza si è continuato a controllare le lettere in entrata e in uscita dal carcere. E sempre nella capitale, in Tribunale stavolta, si è provveduto in maniera del tutto arbitraria e immotivata (come riconosciuto anche dal giudice in seguito) all'identificazione dei presenti all'udienza del 22 marzo (le udienze sono state tutte pubbliche, lo ricordiamo).

Comitato Massimo Papini Libero!

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