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Paura di democrazia

Paura di democrazia

(1 Febbraio 2011) Enzo Apicella
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25.1.2011 - Rivolta nel Mediterraneo

(25 Gennaio 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.rete28aprile.it

di Giuliano Garavini - Per quanto cruciale per il destini del Medioriente, l’attenzione prevalentemente rivolta al conflitto fra palestinesi ed israeliani ha messo a lungo in ombra fenomeni in atto sulle sponde del Mediterraneo di grande peso e dalle ricadute forse ancor più pesanti. (...)

Il Mediterraneo e le sue potenzialità anche come elemento costitutivo dell’identità europea è stato rilanciato nella seconda metà degli anni Sessanta in coincidenza con la pubblicazione della seconda edizione de Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand Braudel. Nella sua opera, Braudel narrava la storia di una grande comunità intorno alla quale si sono certo scontrati condottieri e grandi civiltà ma si sono anche incontrati abitudini, stili di vita, merci e paesaggi. In un decennio in cui si cercava di costruire attorno all’Atlantico e la guida statunitense il mito fondante della modernità, Braudel tornava nuovamente a porre l’accento su l’Europa e il Mediterraneo.

All’indomani della prima crisi petrolifera del 1973 molti dei leader europei dell’epoca, fra i quali Aldo Moro ma anche Willy Brandt, ritenevano indispensabile il rilancio del dialogo nella regione mediterranea come modo per discutere di petrolio ma come strumento per individuare la via di un’autonoma politica estera europea.

Non sarebbe troppo sbagliato sostenere che il processo di Barcellona, avviato nel 1995, sia nato proprio dal fallimento del primo dialogo euro-mediterraneo e su premesse del tutto differenti. Fra il 1995 e il 2008, nell’ambito di questo schema chiamato Partenariato euro-mediterraneo (Pen), sono stati firmati 7 accordi di associazione tra l’Unione europea e Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Tunisia. L’attenzione di questi accordi bilaterali è stata tutta rivolta alla necessità di promuovere il libero commercio fra le due sponde e di garantire la stabilità politica della regione, fondamentale per non mettere a repentaglio gli interessi economici europei e contenere il radicalismo islamico. Dal 2008 è partito poi un nuovo progetto, quello dell’Unione per il Mediterraneo (Upm) pensata dal marketing di Sarkozy, che non è mai decollato a causa della crisi tra Israele e i suoi vicini e dell’impossibilità di dialogo fra i leader della regione.

Il Partenariato euro-mediterraneo e i successori sono stati fino ad oggi uno strumento, non tanto di riforma della società e dell’economia dei paesi delle varie sponde del Mediterraneo, in altri termini di progresso, ma uno strumento di conservazione delle strutture sociali esistenti nel Maghreb e nei vicini paesi arabi. Leadership non prive di meriti storici ma oramai incancrenite e corrotte, da Ben Ali in Tunisia, all’FLN di Bouteflika in Algeria, a Gheddafi in Libia e Mubarak in Egitto, sono stati trasformati in interlocutori necessari e indispensabili a garantire la fornitura di energia, il controllo poliziesco sui movimenti islamici, nonché partner ideali per il dialogo sulla difesa de la Fortezza Europa dall’immigrazione incontrollata. Fino al giorno prima delle rivolte tunisine Ben Ali era per tutti i governi dell’Unione europea, e specialmente per Francia ed Italia suoi maggiori partner commerciali, uno dei fari della regione, esempio luminoso da seguire per il governo dell’economia e per il rispetto dei diritti umani; Gheddafi veniva e viene ricevuto con inconsueti onori e ancora oggi la finanza libica dai lui controllata entra con quote importanti in banche italiane e aziende strategiche come Finmeccanica.

Questo atteggiamento sostanzialmente conservatore verso i vicini della sponda meridionale del Mediterraneo dei governi dell’Unione europea dagli anni ’90 ad oggi, fossero essi di centro-destra o di centro-sinistra, non era che la proiezione esterna di tendenze politiche e sociali interne: con prevalere delle politiche di “liberalizzazione” e di privatizzazione dei beni comuni, la flessibilizzazione del mercato del lavoro, la richiesta sempre più insistita di manodopera a basso costo e senza diritti, la progressiva mutazione dei sistemi educativi in meccanismi di corto respiro al servizio del mercato del lavoro.
Oggi, con le rivolte in Tunisia, con quelle per il pane e i suicidi simbolici in Algeria, con la diffusione di movimenti islamici che reclamano dai propri governi maggiore attenzione agli strati disagiati della popolazione, così come con le rivolte in Albania, i nodi vengono al pettine.

Si dimostra miope l’idea dell’Unione europea come strumento di promozione dell’espansione della finanza e delle merci europee dietro la propaganda della protezione dei diritti dell’uomo, nonché come strumento di difesa dall’immigrazione. Si dimostra miope non solo perché questo genere di politiche hanno generato in molti dei nostri vicini risentimento nei confronti della Fortezza Europa, ma si dimostra ancora più fallimentare perché tutti quegli assetti politici e sociali che si volevano relegare alla sponda meridionale del Mediterraneo oggi coinvolgono direttamente i cittadini di tutta l’Europa meridionale dalla Grecia, alla Spagna, al Portogallo, all’Italia e fino alla Francia.

La crescita scarsa (e concentrata nei settori privilegiati della popolazione che si arricchiscono sempre di più) e la disoccupazione giovanile nordafricana è la stessa di tutti i Paesi della sponda meridionale dell’Unione europea. I processi di privatizzazione o di disinvestimento nei beni pubblici, dall’acqua alle scuole e università, sono gli stessi in Algeria così come in Italia, Grecia, e fino alla Gran Bretagna. Il trattamento dei lavoratori immigrati, senza diritti e con salari da fame, si diffonde inesorabilmente anche ai lavoratori più garantiti in Italia con la possibile estensione del “modello Marchionne” ma anche in Spagna e in Grecia con le nuove normative sul lavoro. L’Unione europea come fortezza mercantilista che tesse solidi legami politici e economici con sistemi autoritari vede minate le sue stesse strutture democratiche con il peso crescente di apparati politici sempre meno partecipati, gestiti da leader carismatici come accade in Italia, ma anche in Francia.

Non tutto questo processo è inevitabile e i segnali che ci vengono dalle manifestazioni dei movimenti studenteschi a quelli dei lavoratori nei paesi dell’Europa meridionale, così come dalle rivolte nel Maghreb, sono incoraggianti e incitano ad invocare un cambio di rotta sia nella politiche economiche e sociali interne all’Unione europea, mettendo al centro la difesa dei beni pubblici e di rapporti di lavori dignitosi, sia nel modo in cui ci rapportiamo ai nostri vicini.

La speranza è che le rivolte nel Mediterraneo contribuiscano a mandare in soffitta i progetti rapaci del capitalismo e della finanza europea di imporre liberalizzazioni e determinati assetti economici ai vicini della sponda Sud, che si passi dagli accordi bilaterali a politiche comuni europee e alla luce del sole anche nel settore energetico, che si applichino misure di cooperazione che contribuiscano a far crescere autonomamente le economie del Mediterraneo meridionale, che consentano di gestire nel modo più aperto possibile i fenomeni migratori, che si sviluppino infrastrutture sia di tipo culturale che di mobilità di persone utili allo sviluppo delle comunicazioni nella regione. La speranza è che si riprenda il filo spezzato dei progetti di dialogo a tutto campo i cui semi erano stati gettati negli anni Settanta in un decennio di espansione della democrazia in tutti i paesi che affacciavano sul Mediterraneo.

Giuliano Garavini

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