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Elezioni d'Egitto

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(14 Giugno 2012) Enzo Apicella

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Le vie politiche per il Maghreb

(31 Gennaio 2011)

Proteste al Cairo

Nell’evoluzione delle rivolte popolari del Nord Africa maghrebino e arabo un nodo strategico è rappresentato dalla tipologia di partiti che guideranno il desiderio di riscatto e giustizia diventati bisogno irrefrenabile per milioni di cittadini scesi in piazza. E insieme ai partiti i governi che ne potranno scaturire. Naturalmente condizione primaria per una trasformazione sociale sarà il definitivo rovesciamento delle dittature “democratiche” nei Paesi in questione. E’ accaduto in Tunisia, sta accadendo in Egitto, può succedere finanche nel meno popoloso ma non meno oppresso Yemen. Però se da una parte l’esempio tunisino mostra come il camaleontismo dei vecchi regimi stia provando a conservare incarichi e leve del potere, dall’altra occorrerà vedere se Stati Uniti ed Europa, tuttora padroni della geopolitica dell’area, saranno disposti a subìre le scelte autodeterminate di popoli fin qui controllati dai regimi amici. Bisognerà capire se contro la piazza l’Occidente non rilancerà la mai archiviata strategia dei colpi di mano organizzati e pilotati. Oppure la sponsorizzazione di nuovi uomini forti che nel caos userebbero l’esercito per se stessi non per il ripristino di democrazie vere. La cronaca tunisina di queste settimane ha mostrato fiammate di ribellione spontanea con decine di migliaia di ragazzi esasperati da una disoccupazione che surclassava i loro titoli di studio. Una gioventù espropriata del lavoro intellettuale e impossibilitata pure alla manualità. Ma presto le piazze si sono riempite anche di facce adulte, di professionisti (avvocati, insegnanti, medici, giornalisti) umiliati nello stipendio e nel libero arbitrio. Mentre in quelle insanguinate del Cairo, Alessandria, Suez sono scesi operai, artigiani, mercanti le cui lire locali non bastano per vivere. Il mito dell’industria turistica, che pure rappresenta l’11% del Pil egiziano, non riesce a sfamare una famiglia nazionale di oltre 80 milioni d’individui, i cui figli migrano a frotte. Ormai vengono a fare qualunque cosa non solo cuocere pizze, vendere fiori e frutta, lavare macchine in Italia e nel resto della vecchia Europa come da vent’anni fanno fratelli e padri. Colpa di un’economia iniqua gestita dalle cricche dei Ben Alì e Mubarak (e Gheddafi, Bouteflika, Abdal Saleh) tutte benedette e foraggiate dall’Occidente. Un affarismo attuato sottobraccio al Parlamento di Bruxelles che lancia il business di Total, Benetton o Bmw ma non ha mai speso una parola sull’azzeramento d’ogni spiraglio di partecipazione e democrazia in quelle terre. Anzi quei governi erano diventati il simbolo della sicurezza contro le derive radicali di stampo islamista, dopo che erano tramontati i sogni del progressismo laico di Ben Bella o quelli plasmati in senso nazionale da Nasser. Fra le storie diverse che ciascun angolo del Nord Africa ha vissuto, pur fra la comune matrice coloniale e un attuale neo-colonialismo economico di ritorno, il futuro verso cui può indirizzarsi la protesta vedrà due strade politiche note e un percorso alternativo.

La prima è un ritorno a un laicismo democratico mai morto, almeno in Tunisia, visto che una certa rappresentanza delle proteste è presa dai sindacalisti dell’Union du Travail. Partiti come il Democratico Progressista e il Comunista dei lavoratori si propongono alternativi ai rimpasti degli eredi del Raggruppamento Costituzionale Democratico di Ben Ali. L’altra è la via islamica incarnata dal partito Nahda in Tunisia e dai Fratelli Musulmani in Egitto il cui attuale seguito non sembra però offrire loro grandi chances. Sono entrambe formazioni perseguitate dai dittatori del Maghreb e demonizzate da certi media internazionali anche se attualmente mostrano posizioni tutt’altro che radicali. Nei giorni scorsi un altro Ghannouchi, Rachid, che non è parente del primo ministro e guida Nahda, aveva fatto entrare alcuni suoi esponenti nel governo provvisorio. In Egitto i Fratelli Musulmani solo a proteste montate hanno aderito alla contestazione di Mubarak ricevendone copiosi arresti. Certo se si valuta la storia dell’ultimo trentennio, quello che ha creato le dittature “democratiche” ora in crisi, il laicismo progressista paga inesorabilmente pegno. Perché in quella parte di mondo il laicismo ha assunto il volto autoritario e corrotto dei raìs affossando ogni anelito di progresso sociale, lì l’Occidente ha garantito i suoi mercati con la summenzionata sfilza di dittatori spacciati per democratici. Non c’è stato un altro laicismo, il sogno socialista non ha avuto né uomini né gambe su cui marciare. Le istanze popolari sono rientrate nei programmi di gruppi islamici che, come per il Fis algerino, hanno fatto del consenso elettorale un trampolino per un sanguinoso Jihad. L’Islam politico - che nel grande Medio Oriente ha fatto della battaglia iraniana contro l’imperialismo statunitense un simbolo, con Al Qaeda e i Talìban ha creato un conflitto sia locale sia diffuso incerto e infinito, e nel Medio Oriente mediterraneo perpetua con Hamas ed Hezbollah l’immagine della resistenza - potrebbe rivelare una nuova anima e cercare un’alternativa proprio nel Nord Africa. Unendo il laicismo sancito dal realismo della globalizzazione economica (ben lontano dai turbanti degli ayatollah e con apparati statali non confessionali) al desiderio di rinsaldare radici culturali e religiose. Una via che negli ultimi tempi sta provando la Turchia dell’era erdoganiana. E’ un esperimento tutt’altro che consolidato, rafforzato in quel Paese dal progetto di supremazia regionale che riunisce retaggi imperiali e la voglia di archiviare un’impronta statale smaccatamente militarista. Chissà se un simile modello tutto in divenire, ma forte del dialogo coi colossi del futuro potere mondiale, resisterà e potrà essere d’esempio all’esasperato Islam mediterraneo che cerca strade e identità nuove.

29 gennaio 2011

Enrico Campofreda

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