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Il dilemma dei generali

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(23 Giugno 2012) Enzo Apicella

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Egitto, se la diplomazia mondiale non ascolta la piazza

(1 Febbraio 2011)

Egitto

Fa un certo effetto sentire Clinton e Obama parlare di diritti umani violati nello stato dell’amico Hosni fino a ieri indicato quale esempio di democrazia e progresso. Hillary e Barack fanno con cura il loro mestiere e applicano quell’ipocrisia che già molti inciampi ha prodotto alla politica estera della Casa Bianca. Dopo un assordante silenzio di giorni i due hanno invitato una leadership in disfacimento a garantire libertà d’espressione nelle piazze arabe e maghrebine. L’affermano mentre l’amico Mubarak scatena i gendarmi sulla folla facendo un sei giorni centocinquanta morti, e forse più, vittime che si sommano alle ottanta fra Tunisi e Algeri delle settimane precedenti. La grande incognita del mondo arabo in rivolta tiene in apprensione i controllori del Mediterraneo e del vicino Medio Oriente, dopo che quello lontano ne ha già messo a dura prova capacità politiche e militari. Eppure all’invito americano di rispondere al drammatico bisogno di riforme politiche e sociali che tracima dalle piazze Mubarak ha risposto con l’ottusità del satrapo che non riesce più a leggere la realtà. Ha predisposto la fuga di familiari e capitali personalizzati (si vocifera di 25 miliardi di dollari trasferiti a Londra), ha nominato come suo vice la spia Suleiman e rilanciato un nuovo esecutivo zeppo di generali (Wagdi agli interni ha sostituito il sanguinario El Adli). Nella tragicità del momento questa scelta è un passo di bieca chiusura, non di distensione. Washington non ha eccepito nulla e mostra un’imbarazzante impasse. La mossa del vecchio raìs è una forzatura insostenibile perché Suleiman è un militare compromesso con la cricca presidenziale da risultare indigesto a qualsiasi egiziano che, scrollatasi di dosso la paura, punta a vivere una storica svolta per il proprio futuro.

Verso queste scelte la diplomazia statunitense sembra mostrare la stessa subalternità con cui nei mesi scorsi ha subìto ogni capriccio sabotatore di Netanyahu nel tentativo, perorato da lei stessa, di ristabilire uno straccio di colloqui di pace fra israeliani e palestinesi. L’Egitto non è un paese qualsiasi, per i trascorsi nel conflitto mediorientale e le tensioni regionali ai suoi confini ha rappresentato il pilastro su cui Stati Uniti e Israele hanno costruito la propria strategia nell’area. Lì gli Usa si giocano non solo una faccia, da tempo perduta nel dar credito alla presunta democraticità del regime di Mubarak, ma gli effetti pratici di un disegno geopolitico al quale la Storia sta dando l’ultimatum. Comprenderne gli espliciti messaggi vuol dire non trovarsi in perenne ritardo sugli eventi. Un assist, che sembra già lasciato cadere, è quello di sostenere leadership veramente democratiche slegate da interessi di parte. L’ipotesi di El Baradei può essere una cui solo organizzazioni progressiste possono offrire ulteriore forza. L’altra è il nuovo volto d’un Islam in divenire alla ricerca di ulteriori identità che lo emancipino dalla radicalità jihadista ma non lo releghino al ruolo di alleato servo ed esecutore dei voleri occidentali, come sono finora stati molti regimi arabi. E’ l’identità partecipativa dei ceti sociali che brillano delle proprie attività ed intelligenze senza essere ridotti a masse inermi di raìs ed emiri addomesticati dai dollari. Nel Nord Africa la Storia sta scrivendo nuove pagine. Alla politica internazionale, di cui gli statunitensi sono tuttora prim’attori, la responsabilità di leggerle o cestinarle e riportare indietro il cammino che può diventare una dannazione anche per il proprio futuro.

31 gennaio 2011

Enrico Campofreda

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