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Libia, ennesimo rebus dell’immensa rivolta maghrebina

(23 Febbraio 2011)

Il disprezzo per la vita con cui il più clownesco ma non meno sanguinario dei raìs maghrebini sta seminando morte fra i concittadini-sudditi non è cosa diversa da altre sue coercizioni. Anche se usare l’aviazione da guerra per bombardare cortei pur infuriati che assaltano i simulacri d’un personalissimo onnipotente delirio durato quarant’anni offre la misura della paura e dello squilibrio di Muhammar Gheddafi. Ma pensiamo ai suoi pretoriani: 50.000 soldati di terra, 25.000 avieri, 10.000 marinai solo per le Forze Armate ufficiali. Poi circa 50.000 miliziani d’un corpo paramilitare parallelo con funzioni antisommossa e di sicurezza. Quindi l’Intelligence e il supporto dei clan tribali delle regioni tripolina, cirenaica, sahariana come quella da cui prende il nome di famiglia – Qadhdhafi –. Il 5% della società libica, che da tempo il dittatore mobilitava per se stesso non per la rivoluzione islamica, era armato e otteneva piccoli e medi privilegi economici nel vestire una divisa, imbracciare un fucile, spiare e riferire per garantire al capo il controllo sociale. Chi finiva nelle prigioni del colonnello trovava massicce dose repressive e se apparteneva a un’altra razza, specie centro-africana come narrano migranti nigeriani, keniani, congolesi passati per Tripoli, i trattamenti diventavano particolarmente crudeli. Denunce di Human Right Watch, l’abbiamo già scritto per l’Egitto, hanno rappresentato aperti atti d’accusa inascoltati dai governi occidentali impegnati nell’affarismo cieco, in Libia come sulle altre piazze delle false democrazie mediorientali. Insomma Gheddafi, prima di far mitragliare dal cielo il suo popolo, usava forza e violenza sui miseri che lì vivevano o ci finivano per proseguire fughe verso il Mediterraneo settentrionale. I traffici di uomini che continuano a proporre partenze da quelle coste erano e sono gestite da clan locali col benestare governativo.

E il presunto controllo sui viaggi della disperazione diventava merce di scambio con alcuni leader europei, su tutti Berlusconi, per ottenere nuovi investimenti, infrastrutture (i 1.700 km di autostrada costiera da cinque miliardi di euro), quote elevatissime di forniture d’idrocarburi: 32% all’Italia, 14% alla Germania, 10% alla Francia, 9% ala Spagna. Così, chiudendosi gli occhi, l’Unione Europea sosteneva l’ennesimo satrapo nordafricano. Non che i rapporti di scambio con la monarchia saudita fossero suggellati da un buongoverno però Gheddafi, scenografico raider di politica ed economia, costellava questi contatti alternando firme di trattati, quale la sbandieratissima Amicizia con l’Italia, a un continuo gioco al rialzo per ottenere quanto più possibile con la promessa di bloccare i viaggi di clandestini. Gli affamati connazionali diventavano l’arma di ricatto per incamerare ulteriori commerci e se trovavano morte in mare o nelle patrie galere, tutto ciò poco importava all’ex rivoluzionario verde. Ora nei singulti d’un regime che rantola lui può decidere di farne morire cinquanta, trecento o mille ma di fronte a una “rinsavita” Europa, agli ulema di casa e finanche alla Lega Araba che gli voltano all’unisono le spalle il colonnello è già uno zombie e dovrà esiliarsi come gli omologhi satrapi del Maghreb. Ma nella specificità d’ogni rivolta dell’Africa mediterranea resta il comune denominatore che, per i 6 milioni di libici come per i più problematici 85 milioni di egiziani, vede insolute le questioni della rappresentatività e della guida di queste masse. Giorni fa volti infreddoliti di giovanissimi e meno giovani fuggiaschi sbarcati a Lampedusa dicevano “Non possiamo vivere in Tunisia, non sta cambiando nulla. Gli uomini dei poteri forti di Ben Ali sono ai loro posti“. Esageravano per timore d’essere respinti? Seppure fosse, il tema della futura leadership resta ed è il grande rebus di quest’immensa e storica rivolta.

22 febbraio 2011

Enrico Campofreda

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