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Obama e la Tunisia

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(16 Gennaio 2011) Enzo Apicella

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Dalla Libia al Bahrein: divampa la ribellione, trema l’Italia, tremano gli USA

(24 Febbraio 2011)

La ribellione divampa. Continua a divampare. In Nord Africa, dove la sollevazione libica ha cancellato quello “spazio di stabilità” che ancora separava la Tunisia dall’Egitto, e dove alle ricorrenti manifestazioni algerine si sono sommate le crescenti proteste in Marocco. E nel Golfo, dove, mentre lo Yemen continua a bruciare, il Bahrein è improvvisamente precipitato anch’esso nel caos, e focolai di protesta continuano a esplodere perfino in Iran, cercando di ridar vita a quel Movimento Verde che era stato represso dal regime di Teheran nel 2009.

Per decenni è sembrato che la storia si fosse fermata nel mondo arabo, pietrificata sotto le sembianze di regimi autocratici e dittatoriali insediatisi intorno alla metà del secolo scorso e apparentemente rimasti uguali a se stessi per decenni, i quali imponevano il loro dominio su società ingessate e paralizzate dal controllo capillare che veniva esercitato dagli apparati di sicurezza di tali regimi.

E per decenni è sembrato che i pilastri su cui si fondava l’influenza occidentale in Medio Oriente – quelli della presenza militare e dell’egemonia economica e commerciale – potessero durare per sempre, malgrado i ricorrenti conflitti (o forse proprio grazie ad essi) nella regione.

I paesi europei – fra cui l’Italia – avevano intrecciato rapporti con questi regimi, che garantivano l’apertura di nuovi mercati ai prodotti europei e l’afflusso di energia e di materie prime alle industrie del vecchio continente.

Gli Stati Uniti, oltre a garantirsi le forniture petrolifere, avevano stabilito un sistema di sicurezza basato su accordi con gli apparati militari e di polizia di regimi come l’Egitto, la Giordania, l’ANP, ecc., che prevedevano finanziamenti e addestramento militare, o su una presenza diretta delle forze armate americane in paesi come il Bahrein, il Qatar, il Kuwait (e in passato anche l’Arabia Saudita) e l’Iraq (in quest’ultimo caso attraverso un intervento bellico diretto).

Questo sistema funzionava (per l’Occidente), e nessuno si è posto il problema delle condizioni in cui vivevano le popolazioni sottoposte a questi regimi, dell’assenza di libertà e di democrazia, delle violazioni dei diritti umani, di quelle stesse ingiustizie e di quegli stessi soprusi che avevano suscitato sdegno e rabbia in Europa e negli Stati Uniti quando a commetterli erano stati i regimi dittatoriali dell’Europa dell’Est.

Ma questi equilibri non erano immutabili, ed hanno cominciato a cambiare, dapprima impercettibilmente negli ultimi decenni, e poi sempre più velocemente, accelerati dalla politica scellerata di Bush in Medio Oriente, dall’ascesa di nuove potenze emergenti come la Cina, bisognosa anch’essa di nuovi mercati e assetata di fonti energetiche, ed infine dalla crisi economica globale che ha indebolito ulteriormente l’America e l’Europa, ed ha portato a maturazione la crisi sociale ed economica che stava erodendo dalle fondamenta i regimi arabi.

Ora le ribellioni che stanno dilagando nel Mediterraneo e in Medio Oriente stanno facendo scricchiolare i pilastri del sistema di sicurezza americano e quelli della “sicurezza economica” europea – quantomeno dei paesi dell’Europa meridionale, come l’Italia.

Il punto essenziale sta nel fatto che è praticamente impossibile prevedere cosa accadrà. Il fatto che le ribellioni siano su così vasta scala, e coinvolgano un numero così alto di paesi in una regione di importanza strategica mondiale fa sì che l’incertezza sia enorme.

L’EUROPA E IL “FRONTE MERIDIONALE”

La prima spallata alle certezze occidentali l’ha data il fatto che il contagio si sia esteso dalla Tunisia – un importante partner commerciale dell’Europa, ed in primo luogo della Francia e dell’Italia, ma pur sempre un piccolo paese – all’Egitto, che è un paese chiave per gli equilibri politici mediorientali.

L’Egitto inoltre, pur non essendo un esportatore di petrolio, ha un’importanza enorme in quanto controlla una delle più importanti vie marittime e commerciali a livello mondiale: il Canale di Suez, attraverso il quale passa circa l’8% del commercio marittimo globale.

L’Italia è il primo partner commerciale europeo dell’Egitto, con un interscambio che già nel 2010 superava i 4 miliardi di euro. Il fatto che i militari egiziani abbiano attualmente il controllo del paese, ed abbiano ribadito di voler rispettare tutti gli accordi internazionali stipulati dal precedente regime, ha certamente tranquillizzato molti in Europa e negli Stati Uniti.

Ma la drammatica destabilizzazione della Libia, a seguito delle sommosse di questi giorni e della crudele repressione da parte del regime, ha aperto nuovi interrogativi. La Libia è il paese africano con le maggiori riserve di petrolio e, con una produzione di circa 1,6 milioni di barili di greggio al giorno, è uno dei principali produttori mondiali. Anche nel 2010 il paese è stato il maggior fornitore di greggio per l’Italia.

Insieme alla vicina Algeria (anch’essa afflitta in queste settimane da disordini e turbolenze), la quale oltre a produrre quasi 1,3 milioni di barili al giorno è uno dei principali produttori mondiali di gas naturale, la Libia è un tassello essenziale della cosiddetta “sicurezza energetica” europea. Essa ha inoltre rappresentato per l’Europa e per l’Italia la principale barriera contro l’immigrazione clandestina (sia Roma che Bruxelles non si sono preoccupate molto del rispetto dei diritti umani, in questo caso).

Questa barriera ora potrebbe crollare. I sanguinosi eventi degli ultimi giorni, che hanno visto le sommosse popolari estendersi dalla regione orientale della Cirenaica fino alla capitale Tripoli, lasciano presagire un crollo del regime o il possibile scoppio di una guerra civile.

L’Italia è esposta in Libia non soltanto sul fronte energetico, ma più in generale sul versante economico e finanziario. I colossi ENI, Finmeccanica e Impregilo hanno importanti contratti in Libia, ed i libici hanno partecipazioni azionarie in Finmeccanica e nel gruppo bancario Unicredit.

Ma l’Italia non è l’unico paese ad aver fatto affari con il regime di Gheddafi. Multinazionali petrolifere come BP, Exxon Mobil, BASF e Shell hanno importanti contratti in Libia. Il Libyan British Business Council, creato nel 2004, include alcune delle principali compagnie britanniche: oltre alle già citate BP e Shell, vi sono GlaxoSmithKline, KPMG, Standard Chartered e molte altre.

I turchi hanno progetti in Libia per ben 15 miliardi di dollari, con circa 200 imprese di costruzioni attive nel paese. Gli scambi commerciali fra Ankara e Tripoli ammontavano a circa 2,4 miliardi di dollari lo scorso anno.

La “corsa alla Libia” da parte delle compagnie occidentali ha avuto inizio nel primo decennio del nuovo secolo, dopo che era stata avviata la normalizzazione dei rapporti tra il regime di Gheddafi da un lato, e gli USA e l’Unione Europea dall’altro.

Nell’era dell’unipolarismo americano, Gheddafi si era reso conto che il suo regime non sarebbe potuto sopravvivere nel totale isolamento internazionale in cui era venuto a trovarsi fino a quel momento. La “svolta” del regime libico, cominciata nel 1999 con la consegna dei presunti responsabili dell’attentato di Lockerbie, fu accelerata dall’11 settembre e dall’invasione dell’Iraq nel 2003.

Non volendo fare “la fine dell’Iraq”, Gheddafi annunciò che la Libia rinunciava al proprio programma di armi di distruzione di massa, e pagò tre miliardi di dollari come compensazione per le vittime degli attentati ai voli Pan Am e UTA 772, di cui era stato accusato il regime libico.

Nel 2004 Bush cancellò le sanzioni nei confronti della Libia. Nel 2006 Tripoli fu cancellata dalla lista USA dei paesi sostenitori del terrorismo. Nel 2008 ebbero inizio i negoziati per la firma di un accordo quadro tra la Libia e l’UE. Nell’ottobre del 2010 l’Unione ha firmato con il regime libico un accordo di cooperazione per combattere l’immigrazione clandestina, nonostante la pessima fama del regime in fatto di rispetto dei diritti umani.

Nella “corsa alla Libia” si è inserita prepotentemente l’Italia. Il 30 agosto 2008 ebbe luogo la firma del trattato di cooperazione italo-libico tra Gheddafi e Berlusconi proprio a Bengasi, la città da cui nei giorni scorsi è partita la rivolta. In base all’accordo, l’Italia si impegnò a pagare 5 miliardi di dollari di compensazione per l’occupazione coloniale; in cambio la Libia si impegnò a combattere l’immigrazione clandestina ed a rafforzare i rapporti economici con Roma.

In conseguenza di questo accordo, l’Italia è dal 2008 il primo partner commerciale della Libia – secondo molti analisti, anche grazie a una serie di intese “personali” stipulate tra il premier Berlusconi e il leader libico.

Sono queste le ragioni per cui la drammatica crisi che sta vivendo la Libia (a cui potrebbe presto aggiungersi l’Algeria, l’altro grande partner europeo della sponda sud del Mediterraneo) rappresenta un grande grattacapo per l’Europa, e per l’Italia in primis.

Nessuna attenzione è stata prestata in questi anni al fatto che il cammino delle riforme in Libia si era completamente arenato. Il figlio “riformatore” del leader libico, Saif al-Islam, che tanto piaceva all’Occidente, recentemente era stato costretto a lasciare la guida della Fondazione Gheddafi (l’ONG che in questi anni aveva lavorato per la promozione dei diritti umani e delle riforme politiche in Libia) ed era stato emarginato dalla vecchia guardia del regime.

Gli sforzi per promuovere la libertà di associazione, la riforma del codice penale, e la libertà di stampa sono stati vani. Il progetto di promulgare una costituzione è svanito nel nulla. A differenza del fratello e rivale Muatassim, Saif non ha mai avuto una base di potere nell’esercito e nei servizi di sicurezza.

Fino alla drammatica rivolta di questi giorni, il regime era rimasto aggrappato alle sue vecchie strutture di potere, al suo sistema clientelare ed alla sua rete di corruzione.

SE SI INFIAMMA IL GOLFO PERSICO

Se gli europei hanno non pochi grattacapi in Libia e nel resto del Maghreb (dove anche il Marocco mostra segni di cedimento), gli Stati Uniti in questo momento hanno i propri in Bahrein. Il piccolo arcipelago nel Golfo Persico è stato travolto dalle proteste popolari, sebbene il sovrano Hamad Al Khalifa avesse tentato di correre ai ripari, di fronte all’ondata di ribellione che stava sommergendo l’intero Medio Oriente, elargendo generosi sussidi alla popolazione.

Le misure adottate si sono rivelate purtroppo tardive. Di fronte al dilagare della protesta, gli apparati di sicurezza (composti da forze mercenarie provenienti dalla Giordania, dalla Siria, dal Pakistan e dall’India) hanno tentato di reprimere nel sangue le manifestazioni, uccidendo diverse persone e ferendone centinaia, senza tuttavia riuscire a ristabilire la calma.

Per gli Stati Uniti l’importanza del Bahrein risiede soprattutto nel fatto che esso ospita la Quinta Flotta della marina militare americana, di importanza vitale per gli USA al fine di proiettare la propria potenza bellica contro l’Iran, e di controllare il traffico petrolifero nel Golfo.

Sebbene non sia ricco di petrolio rispetto ai suoi vicini, il Bahrein è un paese tutt’altro che povero, avendo un reddito procapite annuo pari a 28.000 dollari (secondo i dati della Banca Mondiale). Tuttavia questo reddito si concentra soprattutto nelle mani della classe sunnita al potere, mentre la maggioranza sciita del paese (oltre il 60% della popolazione) è alle prese con la povertà, la disoccupazione e la sotto-occupazione.

La protesta, che chiede maggiori diritti e dignità, pur avendo coinvolto anche le componenti più svantaggiate della comunità sunnita, è stata inevitabilmente portata avanti soprattutto dalla maggioranza sciita del paese. Fino a questo momento, tuttavia, la protesta non ha avuto una connotazione settaria, né è stata il risultato di un’ingerenza da parte iraniana negli affari interni del Bahrein – come alcuni membri della famiglia regnante hanno cercato di far credere.

La brutalità della repressione ha spinto l’amministrazione Obama, dopo molte esitazioni, ad esercitare pressioni sulla famiglia Al Khalifa affinché aprisse un dialogo con i manifestanti. Al momento nel paese regna una fragile tregua, e tuttavia la situazione rimane molto incerta.

Ma l’importanza del Bahrein per gli USA non si riduce solo alla presenza della Quinta Flotta americana nel porto della capitale Manama. Il Bahrein è l’ “anticamera” dell’Arabia Saudita. L’arcipelago è unito al regno saudita da una strada sopraelevata, costruita per 25 km attraverso il braccio di mare che separa i due paesi.

Questa strada unisce in particolare il Bahrein alla provincia orientale dell’Arabia Saudita, dove vi è un’altra minoranza sciita fortemente discriminata e dove si trovano i pozzi petroliferi più ricchi del paese. Quello che la famiglia reale degli Al Saud teme è dunque che il “contagio” della ribellione possa superare questo breve tratto di mare ed attecchire sul suolo saudita. Al di là della minoranza sciita discriminata del paese, è l’intera popolazione saudita che vive in condizioni assolutamente poco invidiabili per quello che è uno dei paesi petroliferi più ricchi del mondo.

Il 40% della popolazione, in gran parte costituita da giovani, vive sotto la soglia di povertà, senza accesso all’istruzione e senza opportunità di impiego, mentre la maggior parte della manodopera qualificata e non qualificata viene importata dall’estero.

La famiglia saudita comincia a sentirsi accerchiata, visto che al confine meridionale anche lo Yemen è in fiamme. La cacciata del presidente egiziano Mubarak – importante alleato all’interno del cosiddetto “asse dei moderati”, i paesi sunniti contrapposti all’Iran – ha rappresentato un altro duro colpo per Riyadh.

Sauditi e americani temono che un aggravarsi della crisi del Bahrein possa spingere l’Iran a giocare un ruolo a sostegno delle minoranze sciite oppresse nel Golfo. Nel frattempo, a nord, anche la vicina Giordania è scossa da aspre proteste (sebbene per il momento il re Abdullah II sia riuscito ad evitare che la situazione precipitasse).

UN FRONTE PALESTINESE?

Ed infine vi è un ultimo elemento, che in questi giorni è passato quasi inosservato, visto che l’attenzione internazionale è stata risucchiata dagli eventi del Bahrein, della Libia e del Nord Africa.

La scorsa settimana Washington ha bloccato una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, opponendo per la prima volta il veto in una questione legata al problema israelo-palestinese da quando Obama è alla presidenza.

Questa mossa da parte di Washington ha suscitato furiose reazioni in Cisgiordania e a Gaza, ed appare in netta contraddizione con i tentativi della Casa Bianca di mostrarsi favorevole alle rivendicazioni popolari di libertà e democrazia in Medio Oriente.

La posizione americana appare ancora più stridente alla luce del fatto che perfino Gran Bretagna, Francia e Germania hanno votato a favore della risoluzione. Le manifestazioni di protesta in Cisgiordania potrebbero essere il preludio all’esplosione di un fronte palestinese nell’ambito delle ribellioni che dilagano in tutta la regione?

a cura della redazione di www.medarabnews.com

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