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Bentornata età della pietra

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(27 Gennaio 2011) Enzo Apicella
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Gheddafi, rivoluzione tradita o mai pensata?

(5 Marzo 2011)

Gheddafi

Nel discutere sulle giornate libiche e commentarle tramite le vivaci voci del web e quel che apprendiamo dalle news internazionali (la tivù italiana nonostante il coraggio e l’abnegazione di vari inviati è spesso retrovia) risentiamo dei limiti di un’informazione di seconda e terza mano. In questa fase non siamo nella condizione di vedere direttamente e narrare anche una parziale realtà, e questo è un oggettivo limite per il lavoro giornalistico. Siamo, ma è magra consolazione, in ampia e compagnìa perché le colonne online di Contropiano e Il pane e le rose - frequentate per sintonia ideale e stima coi militanti dell’informazione che le animano - pubblicano opinioni strutturate in base alle stesse notizie che riprendiamo da quei network usati da testate nazionali piccole e medie che non possono permettersi cronisti in loco. Giocoforza si nuota nel medesimo bacino di riporto seppure valutazioni e senso critico ci pongono fuori da cori di Stato. Ora nel confronto di pareri sui fatti di Libia la spaccatura di quel Paese fra una parte di popolo fedele e una infedele al colonnello verde delinea un incontrovertibile conflitto (e dunque guerra civile) che può diventare più cruento di quanto finora s’è visto. Anche perché s’allontana l’ipotesi di interventi esterni: No fly zone e ogni altra militarineria che l’Occidentale può organizzare per piegare rapidamente Gheddafi. Il contrasto militante e progressivamente militare fra i partigiani anti e pro raìs è in corso e può durare se, come sembra, il leader rinuncia all’uscita di scena tramite l’esilio pilotato confezionatogli dalle “colombe” statunitensi contro i falchi dell’interventismo della “democrazia”. Quest’ultimi stanno mostrando approcci meno smargiassi cui sicuramente ha contribuito l’ultimo biennio della defatigante missione afghana che non si ripeterà tanto facilmente. Oggi una finestra gliela apre Hugo Chavez. Vedremo se sarà una bolla di sapone.

La spaccatura della Libia fra Cirenica ribelle e Tripolitania lealista può durare e lo scenario potrebbe sì balcanizzarsi, ha ragione Sergio Cararo che correttamente ha compiuto il distinguo fra questa contestazione del potere e le sommosse tunisina ed egiziana. Il malcontento palese contro l’autoritarismo dei raìs è, anche in Libia, un comune denominatore di strade che possono assumere sbocchi differenti nella laica e, solo teoricamente, più garantita Tunisia rispetto al popoloso Egitto dove l’islamismo politico può riaffacciarsi pur nell’attuale moderazione dei Fratelli Musulmani. Ci siamo già chiesti quale futuro si prospetta per i lavoratori maghrebini, oltre la già praticata via della migrazione o della fuga disperata tornata in questi giorni emergenza per l’altra fuga, quella d’investimenti e commerci. Chi sarà in grado di guidare la voglia di cambiamento se gli interessi economici dei mercati, sempre timorosi delle novità, spingeranno solo verso trapassi di garanzia come appare la leadership di Al-Sebsi insediata a Tunisi. Alcuni commentatori sedicenti anti-ideologici gongolano nel sottolineare come siano i giovani a muoversi. Bella scoperta, il mondo invecchia ma per fortuna ormoni ed energia conservano quel valore che ha sempre visto le file ribelli zeppe d’una maggioranza giovanile e d’inossidabili minoranze d’altra età. Gli anti-ideologici sperano che gli strumenti della tecnologia di cui i ragazzi si servono al Cairo o Bengasi (cellulari, pc, videocamere) diventino l’amalgama d’un futuro ceto che insegue l’ennesima società ipnotizzata dai totem della tecnocrazia. Ci sembra che i giovani nordafricani, con o senza videotelefonino, agognino una differente organizzazione sociale che distribuisca i beni secondo i bisogni, che non permetta l’accumulo privatistico di ricchezze alla stregua di Mubarak e dello stesso Gheddafi o come Ben Alì, che coi suoi 7 miliardi di dollari sembra povero rispetto agli altri mentre nasconde tesori sui conti dei Trabalsi, familiari della consorte.

Anche dove finora non si sono avuti tumulti, dove l’Intelligence di Abdallah regna assieme al sovrano o nella flessibile monarchia di Mohammed VI, il controllo dell’economia è in mano ai pochi arricchiti dei clan vicini ai palazzi del potere. Per numerose masse arabe tutto questo ha segnato il suo tempo. L’alternativa è difficile a farsi perché ha troppi nemici e risuonerebbe alternativa al sistema socio-economico. In Nord Africa (Marocco, Algeria, Tunisia, buona parte Egitto) persiste un colonialismo di ritorno incentivato da quel capitalismo globale che alla fine del secondo millennio ha trionfato, pur non risolvendo le sue contraddizioni. E’ lui che incentiva le satrapie di comodo contro cui esplode la rabbia popolare. Il panarabismo, che tante speranze aveva riposto nel disegno postcoloniale, è finito disperso e tradito dai successori dei leader che credevano all’impulso terzomondista, i Nasser, i Ben Bella. Sadat e poi Mubarak, Bouteflika e prima di lui il militarista Boumédienne, pur iniziale sostenitore del sogno socialisteggiante di Ben Bella, hanno vestito panni trasformisti e autoritari anteponendo potere, fortune e averi personali alla sorte dei concittadini. Muhammar Gheddafi, a mio avviso, appartiene alla schiera dei trasformisti che hanno cavalcato l’onda dell’orgoglio nazionale contro i profitti dell’imperialismo di mercato e dell’aziendalismo di Stato - come i nostri Eni, Iri - che agiva con fini commerciali. Se ha agitato la bandiera della grande nazione araba, della fede musulmana, dell’antimperialismo Gheddafi l’ha fatto per promozione personale. Non è durato a lungo, ad esempio, il sostegno alla madre di tutte le battaglie politiche mediorientali che è la causa palestinese, chiusa coi finanziamenti ad Arafat di fine anni Settanta. Certo sul tema tanti governi arabi hanno avuto comportamenti peggiori, ma la presunta spinta rivoluzionaria del colonnello è stata poca cosa al di fuori d’una oratoria pirotecnica che fa tuttora impallidire Ahmadinejad.

Solo chiacchiere e propaganda, totalmente antiamericane, ma tanto bastava per creare una nazione cosciente alternativa all’imperialismo? Il raìs non ci ha mai pensato, ha battagliato con gli Usa sposando in un periodo cause para-terroriste più per visibilità mediatica che per convinzione. Ha rischiato di finire sotto le bombe di Regan, le amicizie diplomatiche l’hanno salvato ma è anche tornato a Canossa diventando per i mercati mondiali guardiano del suo popolo più che capopopolo. Mentre accontentava i capi clan dell’apparato tribale accresceva la sua tribù, osannante verso un culto della personalità che l’avvicina anche per apparato scenico a taluni dittatori e non ai veri anticolonialisti che sono stati i Lumumba e i Sankara. Se davvero Gheddafi avesse voluto consegnare ai libici dignità e riscatto non avrebbe dopo quarant’anni figli cui far ereditare governo e affari soggettivi definiti Libyan Investiment o Libyan Development. Non avrebbe lo stuolo di sudditi, miliziani, militari e mercenari che in queste ore lo difendono per difendere la propria casta. Non direbbe, come ha detto, che la Libia è lui stesso. Piccolo Roi Soleil d’un regno, comunque vada, destinato al tramonto.

4 marzo 2011

Enrico Campofreda

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