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Hammami “La sinistra tunisina può essere l’amalgama della rivoluzione”

Intervista al leader del Partito comunista degli operai di Tunisia

(16 Marzo 2011)

Ben Alì in fuga

Hamma Hammami, 59 anni, è portavoce del Partito comunista degli operai di Tunisia. Condannato nel 1972 e 1995 per reati d’opinione considerati attentati alla sicurezza dello Stato, entrò in clandestinità nel 1998. L’anno seguente fu condannato a nove anni di reclusione per ribellione alle leggi repressive di Ben Alì. Nel 2002, opponendosi alle accuse, tornò in patria e venne arrestato.

Signor Hammami, qual è oggi la situazione socio-politica in Tunisia?
In Tunisia è in atto una vera rivoluzione e questa può dilagare nell’intero Maghreb. Ribadisco: il mio Paese attraversa una profonda fase d’innovazione che è giusto chiamare con quel nome. Il regime di Ben Alì era dittatoriale e poliziesco, chi vuol proseguire su quella strada se ne rende corresponsabile perché ripropone interessi privati di pochi a discapito della collettività.

Allora cosa accadrà?
Ho parlato di fase rivoluzionaria, naturalmente nulla è scontato. Siamo all’esordio, i prossimi mesi risulteranno fondamentali. In tutto il Maghreb il neocolonialismo economico europeo e gli interessi strategico-militari statunitensi possono influenzare gli sviluppi di questo desiderio di libertà, giustizia, eguaglianza espresse da una popolazione oppressa da decenni. Le banche internazionali, le 3000 aziende che sfruttano le materie prime del nostro sottosuolo (1250 sono solo francesi, ma quelle italiane sono in seconda posizione, ndr) hanno diretta responsabilità sugli arricchimenti della casta locale. In 23 anni il debito pubblico è aumentato di sette volte, la gente ha subìto un’oppressione inumana, 40.000 attivisti dell’opposizione sono stati incarcerati e torturati. La paura e la disgregazione sociale hanno portato tanti giovani verso lo stordimento di alcolismo e droga. Anche la prostituzione è in aumento.

Dunque la rivoluzione deve incidere nella ricerca di nuovi valori
La via strutturale e quella sovrastrutturale non sono separate, la crisi economica mondiale è anche una crisi di valori con cui fa i conti il capitalismo globale che alla fine dello scorso Millennio credeva d’aver chiuso a suo favore la partita. Certo la rivolta dei tunisini nasce da bisogni economici perché da noi c’è il 23% di disoccupazione, i giovani pur diplomati o laureati non hanno opportunità e lavoro dignitosi, la corruzione favorisce clientele. Per molti ragazzi le uniche strade sono state la migrazione, che tuttora preoccupa l’Ue, o la scelta terrorista.

Invece quale strada cercate?
Una strada rivoluzionaria. La situazione attuale è a metà percorso, finché le classi popolari non raggiungono le leve di comando avranno poche chances. Anche perché è in atto un falso cambiamento che preserva il sistema lobbistico dei clan avviato da Ben Alì, quello che garantisce il neocolonialismo occidentale. Bisogna che il fronte d’opposizione - noi comunisti, i laici, gli islamici e gli stessi nazionalisti - faccia cadere i prosecutori del vecchio sistema. Due obiettivi primari che lanciavamo: sciogliere il partito di Ben Alì e il corpo della polizia politica sono stati recentemente annunciati dal governo Essebsi, dobbiamo vigilare che siano resi esecutivi. Dobbiamo poi mutare i rapporti di forza nell’amministrazione statale perché i centri di potere statunitense e dell’Ue sperano che tutto si risolva in un cambiamento di leadership. Centrale sarà il processo di ricostruzione economica tramite la nazionalizzazione dei grandi settori. All’esordio della rivolta non c’è stata un’ampia partecipazione operaia, ma noi cerchiamo d’unire in un fronte esteso gli esponenti delle varie attività del Paese dagli agricoltori, al terziario di piccoli commercianti e professionisti. Avete visto quanto senso di dignità e riscatto manifestano insegnanti, medici, avvocati e tanti professionisti umiliati dalla dittatura. L’unità del popolo è fondamentale per la riuscita del progetto.

Ma se non saranno i ceti operai a guidare questo rinnovamento non temete che la borghesia diventerà padrona del nuovo modello tunisino?
Gli attori di questa rivoluzione sono comunque i lavoratori, compresi quelli intellettuali come i professori, oppure artigiani e agricoltori. Coi sindacati ora si muovono anche gli operai. Io vedo diverse figure sociali unite contro una componente che ha fatto i propri interessi di casta e favorito il capitale straniero comportatosi da predatore. Prendiamo i piccoli dettaglianti anche dei generi alimentari, hanno avuto un tracollo con gli enormi favori commerciali che la politica di Ben Alì offriva a Carrefour o Auchan. I rapporti economici con l’Europa restano vitali ma dovranno essere impostati secondo nuove regole. La nostra strategia è trovare un equilibrio che avvantaggi lo Stato tunisino finora piegato e sacrificato al capitale straniero. I veri segnali di cambiamento nella nazione si vedranno quando saranno toccati i capisaldi di questo potere.

E l’organizzazione politica dell’Islam non vi preoccupa, come vi ponete di fronte al suo carisma?
L’islamismo in Tunisia è particolare, c’è una situazione che non ha eguali in altri Paesi arabi. Dal 2005 esiste un collettivo che riunisce militanti del nostro partito, islamisti, riformisti, sindacalisti, donne, attivisti umanitari che discutono e cercano una convergenza di linea. Finora l’abbiamo trovata su punti importanti: i diritti di fatto, gli islamisti del gruppo Nadha riconoscono alle donne ogni forma di partecipazione pubblica. E sulla libertà di coscienza anche in ambito religioso. E ancora sulla natura del sistema democratico che dev’essere un’organismo civile, di popolo, garante di libertà individuale e di diritti umani. Insieme a queste componenti abbiamo stilato un documento che rappresenta la base di un percorso comune. La Sinistra tunisina può essere l’amalgama di un programma davvero innovativo che supera le contrapposizione fra laicismo e Islam. Perciò sono fiducioso nelle prospettive di quella che definisco rivoluzione.

16 marzo 2011

Enrico Campofreda

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