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Pro mutuo mori

Pro mutuo mori

(19 Settembre 2009) Enzo Apicella
In un attentato a Kabul, sono colpiti due blindati italiani, uccidendo 6 parà della Folgore

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Ritiro immediato delle truppe dall’iraq senza se e senza ma

un contributo per la discussione e l'iniziativa politica da qui al 20 marzo

(11 Febbraio 2004)

Le piazze di decine di città in tutto il mondo sono state riempite il 15 febbraio 2003 da milioni di manifestanti che esprimevano la loro ferma opposizione all’aggressione che il governo degli Usa preparava all’Iraq. Con consumata abilità diplomatica il New York Times gonfiò un po’ i numeri (110 milioni) e coniò la definizione adulatrice di “seconda super-potenza mondiale”.

Quella giornata unificò mille diverse anime. In piazza scesero le masse del Sud del mondo che vedevano nella bellicosità americana nient’altro che uno dei modi con i quali da secoli sono rapinate e oppresse, prima tramite il dominio coloniale, poi con i sofisticati strumenti della finanza, della diplomazia, dell’economia, ormai con l’esplicita minaccia militare e il brutale ricorso alle armi.

Le piazze si riempirono anche nell’Occidente ricco e dominatore con un movimento composito. Fianco a fianco si ritrovò chi avversa il primato dell’Occidente sul mondo in quanto causa di miseria e d’oppressione e chi quel primato difende invocando solo che venga esercitato in modo meno violento e disumano. Come si ritrovò il pacifista integrale, che s’oppone alla violenza senza chiedersi da chi è agita e perché, a fianco di chi vedeva nella guerra la prosecuzione di politiche che gli stati occidentali perseguono anche contro le proprie stesse popolazioni, deprivandole di tutele sociali, sindacali e politiche.

Chi scese in piazza non rappresentava solo sé stesso, ma raccoglieva un senso comune diffuso, variamente motivato ma profondamente unito nel negare ogni giustificazione all’aggressione.

La “seconda super-potenza mondiale” non è riuscita ad impedire alla prima di realizzare i suoi disegni. L’Iraq è stato aggredito, migliaia di morti si sono aggiunti a quelli della guerra del ’91 (con la quale l’allora segretario americano agli esteri, Baker, dichiarò di voler riportare l’Iraq al medioevo) e ai milioni sterminati dall’embargo di 12 anni decretato dall’Onu. Il paese, già duramente indebolito, è stato piegato ai voleri Usa. Saddam è stato deposto e fatto prigioniero, e i vincitori hanno assunto il governo del paese, con la protezione di 150.000 militari.

Dopo l’insuccesso nell’impedire la guerra, la “seconda super-potenza” è sembrata scomparire dalla scena. Se si eccettuano alcune significative e coraggiose manifestazioni negli Usa, la grande manifestazione di Londra in occasione della visita di Bush (che non ha esitato a definire Bush e Blair i “veri terroristi”), e la grande manifestazione di Parigi in occasione del Forum Sociale Europeo, quelle decine di milioni di individui che avevano protestato contro la guerra sembrano essere tornate nel loro tranquillo (per chi può permetterselo!) tran-tran, immemori del desiderio di pesare sulle scelte politiche, sociali e militari che governano il mondo.

Ora, il Social Forum Mondiale di Mumbay, accogliendo la proposta dei movimenti no war americani, ha convocato una nuova giornata di mobilitazione mondiale per il 20 marzo 2004 con l’obiettivo del ritiro delle truppe d’occupazione e l’autodeterminazione del popolo iracheno. Il successo di questa mobilitazione è tutto da costruire e per farlo è utile affrontare tutti i problemi che essa richiama a partire da alcune domande di fondo: è davvero scomparso quel movimento? E, se scomparso, perché?

Prima di rispondere a queste domande poniamocene un’altra, la cui risposta può aiutarci anche con le prime due: la gigantesca testimonianza d’opposizione alla guerra contro l’Iraq è rimasta senza alcuna conseguenza o ha prodotto qualcosa?

A uno sguardo superficiale sembrerebbe che non ha prodotto nulla. Guerra c’è stata e fino in fondo. Uno sguardo più attento rivela, però, alcune cose non rubricabili alla voce di semplici dettagli.

Anzitutto alcuni paesi, tra cui l’Italia, non hanno partecipato in prima fila alle operazioni d’aggressione. I servizi segreti italiani pare che abbiano dato un discreto contributo a preparare e dirigere gli attacchi dal cielo, le basi Nato in Italia sono state pienamente usate nell’aggressione, ma Berlusconi ha potuto realizzare il sogno di mandare truppe solo a guerra “conclusa” e motivandone l’invio con traballanti discorsi sulla “pace da rinforzare”. Il basso livello di partecipazione di paesi come Italia, Spagna e altri alle operazioni belliche fino al 1° maggio e quello contenuto che danno oggi in supporto agli Usa per consolidare la loro “pace” è ascrivibile tutto a merito del movimento.

Delle mobilitazioni no-war, poi, ha profittato adeguatamente il fronte Chirac-Schroeder per prendere le distanze dalla “guerra americana”. I loro obiettivi erano di ottenere una maggiore quota del bottino in concorrenza con l’asso pigliatutto americano, ma non v’è dubbio che la presenza del movimento gli ha dato forza nel sostenere le proprie ragioni contro l’avversario-alleato.

In buona sostanza il movimento non è riuscito a frantumare la “coalizione” anti-irachena, ma è riuscito a introdurre delle contraddizioni nel suo seno o a rafforzarne alcune fra quelle già esistenti.

Inoltre, se quel movimento non si fosse espresso siamo sicuri che la guerra si sarebbe svolta secondo le modalità viste? Consideriamo il dopo-guerra. La favola secondo cui gli iracheni accoglievano le truppe occidentali come “liberatori” s’è bruciata in poche ore. Dopo la dichiarazione di Bush che la guerra era finita è iniziata una persistente dimostrazione di rifiuto della presenza delle truppe straniere, che ha rivestito sia i caratteri di manifestazioni pacifiche di massa, sia quelli di una crescente guerriglia armata. Gli iracheni, insomma, non erano annichiliti. Bombardamenti più prolungati e più devastanti li avrebbero sicuramente prostrati di più. Perché non sono stati sufficientemente prolungati e devastanti, come pure Bush aveva dichiaratamente programmato? Non sarà perché bisognava tener conto del rischio che quel movimento tornasse in piazza, magari con una determinazione politica maggiore di quella mostrata nel rifiuto preventivo della guerra “preventiva”?

La stessa difficoltà è visibile anche in un altro aspetto. La cacciata di Saddam non è l’unico scopo dell’amministrazione Usa. Essa non nasconde di aspirare a un completo ri-disegno del Medio-Oriente. Le prossime mosse sono di ribaltare gli assetti politici di altri due paesi, Siria e Iran. Sarà possibile farlo promovendo rivolte “dall’interno” o ricorrendo subito ai mezzi armati? Considerato che le stesse rivolte “dall’interno” ben difficilmente possono darsi senza adeguati “aiuti” militari dall’esterno, è possibile lanciare all’immediato una nuova campagna militare contro l’uno o l’altro, se non addirittura contro entrambi? Non si correrebbe il rischio di nuove gigantesche manifestazioni se non di veri e propri tumulti in tutto il mondo?

Corre l’obbligo di una precisazione: sappiamo perfettamente che è ben misera cosa per un movimento constatare di essere riuscito soltanto a leggermente moderare o rallentare i piani dell’avversario. Ma da questa consapevolezza si possono trarre due distinte ed avverse conclusioni:

visto che incidiamo così poco, lasciamo perdere e non ci illudiamo di sconfiggere i “manovratori”;

se siamo riusciti a ottenere così poco dobbiamo impegnarci a trovare il modo per ottenere di più, fino a vincere su tutta la linea.

Parteggiamo per la seconda conclusione non perché siamo degli inguaribili ottimisti, ma perché siamo convinti che quel movimento era mosso da motivazioni profonde, divenute elementi di coscienza in via di diffusione, non perché la “gente” sia divenuta all’improvviso più o meno “intelligente”, ma perché i fatti si impongono a ogni coscienza. È sempre più evidente come il mondo venga portato sull’orlo del baratro da chi distrugge la natura e immiserisce gli uomini per il proprio profitto, da chi per imporre i suoi interessi di dominio non esita a terrorizzare e martirizzare interi popoli. Queste politiche, crediamo, non sono finite e, anzi, preparano passaggi ancora più rovinosi sotto tutti i punti di vista. Salvo che, e qui viene il punto, non compaia davvero una super-potenza mondiale che le blocchi definitivamente.

Se anche si fosse tornati a casa ci si potrà rimanere per ben poco tempo tranquilli (sempre e soltanto per i pochi che, almeno in Occidente, una relativa tranquillità possono ancora goderla!).

Il movimento no-war non è scomparso

Tornando, dunque, alle domande principali, una cosa è senza dubbio dinanzi agli occhi di tutti: chi ha manifestato contro la guerra non si è ricreduto. È un fatto, e sfidiamo chiunque a dimostrare il contrario. Ha dovuto, certo, prendere atto che per fermare la guerra non è stato sufficiente rendere evidente che la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale non la voleva; alcuni governi della “coalizione” l’hanno fatta persino in totale dispregio dell’opposizione della maggioranza dei propri cittadini. Chi si fa paladino dell’“esportazione della democrazia” è, insomma, il primo a farsi beffe delle regole della democrazia. Il senso comune dei partecipanti al movimento non trae da questa presa d’atto un giudizio negativo sulla democrazia “in sé”, tuttavia si rende conto che la semplice manifestazione delle proprie opinioni, anche se condivise dalla maggioranza dei cittadini, non conta nulla in raffronto agli interessi economici, politici, strategici, dei poteri forti. Di fronte a questi il semplice confronto, la semplice conta delle opinioni non vale un fico secco. Se si vogliono davvero bloccare certi disegni bisogna contrapporre alla forza un’altra forza politica uguale e contraria. La seconda super-potenza mondiale si è, dunque, alla prova dei fatti rivelata piuttosto effimera. Né potevano gli ammiccamenti del NYT trasformarla in forza, in potenza reale.

Come costruire una forza reale e vincente contro le forze che distruggono natura e vita umana? Il dilemma non è semplice, e se pure esistono, come esistono, le soluzioni possibili, queste non possono prescindere dai passi concreti del movimento reale. Non avrebbero alcun vigore se si ponessero soltanto come meri programmi ideali, per quanto razionali, di avanguardie più o meno sparute e generose.

A uno sguardo d’insieme si può dire che l’istanza per un “altro mondo possibile”, dopo le emozionanti giornate che hanno legato con un filo unico le aspirazioni di masse sterminate di tutto il mondo, dopo aver impattato con le dette difficoltà, stiano, ora, prendendo strade diverse. Nel terzo mondo, in particolare in Sud-America, è ripresa una spinta a ricercare un riscatto nazionale contro l’oppressione economico-politica-finanziaria che, in quelle lande, prende soprattutto il colore della bandiera a stelle e strisce. Non sono soltanto gli Chavez, Lula, Kirchner, ma è un crescere dell’opposizione popolare alle politiche di rapina del Fmi e di saccheggio programmato dagli accordi di “libero scambio” imposti dagli Usa che ha reso possibile che le maggioranze politiche si colorassero di questo tipo di nazionalismo anti-imperialista. Questo è stato anche l’humus che ha consentito il successo di Cancun contro il WTO. In Europa, invece, tra le forze politiche, informali o meno, che fanno riferimento al movimento no-global e no-war, sembra prevalere la tendenza a considerare possibile la formazione di una potenza alternativa agli Usa che vesta i panni di un’Europa unita e fondata su una politica “sociale”, e perciò in grado di instaurare col resto del mondo rapporti che non siano di rapina e oppressione.

Il debole virgulto del nazionalismo latino-americano si scontra con due terribili ostacoli. Il primo è costituito dalla necessità di superare le anguste barriere nazionali. Se ognuno dei paesi di quel continente affrontasse da solo gli Usa uscirebbe immancabilmente maciullato. Per sperare di non farsi rompere le ossa è necessario che questi paesi realizzino tra loro forme di stretta coalizione economica, sociale e politica. Il secondo è costituito dal ruolo e dalla partecipazione delle masse popolari. Solo delle politiche che rispondano davvero alle loro necessità potranno garantire la necessaria coesione sociale e politica in uno scontro che si annuncia durissimo. Le classi dominanti di quell’area si dimostrano, però, per niente disposte a rinunciare ai loro privilegi, acquisiti spesso sotto la protezione yankee, cui sono tributarie sia delle proprie fortune economiche che della difesa dalle istanze rivoluzionarie che hanno percorso ad ondate tutto il sub-continente nel secolo scorso.

Problemi rilevanti riguardano anche la petizione europeista. Solo dei pazzi possono davvero scommettere sul mantenimento del carattere “sociale” dell’Europa. Anche qui le classi dominanti stanno, da un ventennio, smantellando passo passo tutto ciò che di “sociale” era stato conquistato dalle lotte di lavoratori, giovani e donne nei decenni 1960-70. Inoltre, i governi, qui come altrove fedeli interpreti degli interessi delle classi dominanti, hanno ampiamente dimostrato, da ultimo nella guerra all’Iraq, di muoversi lungo gli stessi identici obiettivi Usa. Se Aznar e Berlusconi si sono da subito arruolati nelle armate mosse alla conquista dell’Iraq per conquistarsi un “posto al sole” sia pure come seconda linea dei capi-banda americani, Chirac e Schroeder hanno ben presto dimostrato i veri motivi della loro “opposizione” alla guerra. Con simili premesse non è un rischio aleatorio che una politica europea di contrasto agli Usa sia possibile solo con una vera e propria dichiarazione di guerra agli Usa per promuovere una diversa spartizione del potere di dominio e sfruttamento sul mondo. Un vero e proprio conflitto inter-imperialistico che abbia come oggetto e arena l’intero mondo, alla stessa stregua se non più della seconda guerra mondiale. E, in verità, non si può certo nascondere che un conflitto simile viene già maturando nelle pieghe delle guerre fatte finora per rinforzare il controllo sulle periferie del mondo. Sarebbe una difficilmente risolvibile contraddizione sostenere in nome della pace la preparazione di un conflitto ancora più distruttivo!

Il percorso per uscire da questi dilemmi ha indubbiamente bisogno ancora di un accumulo di esperienze, tanto dell’avversario quanto delle proprie forze e delle proprie possibilità. Ma chi ha a cuore che non vadano disperse le potenzialità espressesi negli anni positivamente movimentati che ci dividono da Seattle, deve necessariamente confrontarsi con i problemi che si pongono a ogni passo. Il passo attuale, che non si può by-passare, è proprio quello della guerra in Iraq. Le sorti di quel paese e dell’intero Medio-Oriente riversano un peso determinante nello sviluppo della lotta tra due poli sempre più visibili: da un lato le forze che in nome del profitto e del dominio non esitano a precipitare il mondo intero nel caos, nella miseria e nella guerra, dall’altro il composito movimento che raccoglie le esigenze di una comunità umana che aspira alla pace, a intrecciare con la natura un positivo rapporto di conservazione e scambio, a una vera giustizia sociale che avvolga come una calda coperta l’intera umanità.

Divide et impera

E, infatti, intorno all’Iraq si sta giocando una partita i cui esiti saranno rilevanti per l’evoluzione del movimento per un “altro mondo possibile”.

Questo movimento non riteneva la guerra giustificabile prima, non la giustifica a posteriori, ora. I governi che la guerra hanno promosso e mosso sono abbastanza realistici da non aspettarsi una tale conversione a 180 gradi, ed hanno, di conseguenza, iniziato nei confronti del movimento una tattica di aggiramento sofisticata. Va bene, essi dicono, voi non avete condiviso la nostra guerra, però ora dovete prendere atto che la situazione dell’Iraq è a rischio di caos, che un paese distrutto (essi dicono: distrutto da Saddam, celando le proprie responsabilità), senza una guida politica, esposto al maramaldeggiare di estremisti di ogni sorta e persino al pericolo di un regime islamista oscurantista, ha bisogno di qualcuno che lo prenda “in cura”, che imponga la “pace”. Non avete aderito alla nostra guerra, potete aderire alla nostra pace. Qui e là nel movimento c’è chi ha recepito il messaggio, ponendo come condizione che la guida delle operazioni di pacificazione e ricostruzione sia messa nelle mani dell’Onu. Questo organismo ha, in effetti, legittimato ex-post la presenza delle truppe occupanti e fornito la sua disponibilità ad assumere l’onere di ricostruire l’Iraq. Secondo quali direttrici?

Il governo americano sta già mettendo mano alla ricostruzione dell’Iraq. Ha espropriato il petrolio e persino i fondi rimanenti del programma dell’Onu “Oil for food”, indicendo appalti cui sono state ammesse solo imprese americane e dei paesi della coalizione. Ciò che preoccupa l’amministrazione americana è, come prevedibile, essenzialmente il petrolio. Il progetto è di riportare entro breve la maggiore quantità possibile di petrolio iracheno sui mercati. Gli Usa diverrebbero così l’ago della bilancia del mercato della fondamentale materia prima, con alcune succose conseguenze: un minor prezzo del petrolio potrebbe finanziare una ripresa dell’economia americana e occidentale e metterebbe fuori gioco il potere dell’Opec e della Russia nel mercato petrolifero; il dominio americano sul petrolio costituirebbe un’altra temibile arma di ricatto contro la Cina, che per la sua tumultuosa crescita è costretta a incrementare la ricerca di fonti d’energia esterne, e confermerebbe l’egemonia degli Usa nel blocco occidentale. In ultimo, non per importanza, gli Usa potrebbero affrancarsi dal petrolio venezuelano finito nelle mani, per loro infide, di Chavez.

Il progetto petrolifero statunitense era già chiaro prima della guerra ed era stato compreso, quanto meno intuito, dall’insieme del movimento no war. Per attuarlo c’era bisogno di eliminare Saddam con le sue mire dichiarate di utilizzare il petrolio per mettere l’Iraq alla guida della “nazione araba”, fornendogli anche una forza militare in funzione anti-israeliana. Detto, fatto.

L’eliminazione di Saddam è il primo passo, il secondo è che per pompare petrolio trasferendone tutti i profitti in Usa bisogna impedire che anche solo una parte della rendita petrolifera rimanga sul posto, per essere impiegata in programmi di sviluppo sociale ed economico locale. Preso, infatti, il potere l’autorità “provvisoria” nominata dai vincitori ha decretato la completa liberalizzazione dell’economia irachena, ha aperto le porte agli investitori esteri abrogando le leggi che limitavano i trasferimenti all’estero dei profitti, ha smantellato il welfare state e spalancato le porte all’importazione d’ogni merce mandando definitivamente in malora l’industria irachena (che non era poca cosa, essendo l’Iraq l’unico paese petrolifero che aveva impiegato le rendite per modernizzare l’agricoltura e costruire una dignitosa industria nazionale).

Ricacciare ulteriormente all’indietro le condizioni economiche e sociali della popolazione irachena non è una bazzecola. Questo popolo circa 40 anni fa ha fatto una vera rivoluzione per liberarsi del re-fantoccio insediato dal colonialismo inglese e nazionalizzare il petrolio. Così l’amministrazione Usa ha avviato un programma per spartire l’Iraq in tre-quattro entità politiche a base etnico-religiosa. Stefano Chiarini ha segnalato più volte su il manifesto come il vicerè Bremer stia avviando il processo, utilizzando le istanze autonomiste dei curdi, cui ha promesso Kirkuk, sede di importanti giacimenti petroliferi ma città multietnica, dando avvio, di conseguenza, all’espulsione di 2-300.000 arabi e turcomanni da sostituire con altrettanti curdi. Per lo stesso scopo è stato sciolto il partito Bath, formazione fondata su un nazionalismo inter-etnico, e ha decretato lo scioglimento dell’esercito iracheno, istituzione nella quale giovani di tutte le etnie e religioni erano chiamati a difendere la patria unitaria e avevano dato grande prova di abnegazione nella ricostruzione “miracolosa” (sei mesi) di una grande quantità di infrastrutture distrutte nel ’91.

La divisione in cantoni in perenne lotta tra loro consente di estinguere uno stato iracheno unitario e forte sufficientemente da rivendicare una propria autonoma politica, creando al suo posto delle entità deboli e perennemente dipendenti dall’aiuto dei padroni esteri. Secondo, insomma, un copione già visto nella colonizzazione francese del Libano (con la partizione confessionale del potere statale), nella politica inglese che, costretta ad abbandonare l’India, ne promosse la spaccatura in due stati confliggenti per motivi religiosi e geo-politici, e rispolverata alla grande per “pacificare” i Balcani.

Per realizzare l’obiettivo bisogna soffiare sul fuoco delle contrapposizioni, fino a crearle ad arte, e il governo Usa non esita a cavalcare persino la promozione d’una repubblica islamica pur di alimentare scontri inter-confessionali e dà l’assenso anche all’abrogazione di un diritto di famiglia che era stato una pietra miliare sulla strada dell’emancipazione delle donne irachene per sostituirlo con la legge islamica.

Per proseguire la “ricostruzione” sarà chiamato, prima o poi, l’Onu che quanto a “balcanizzazione” possiede un’esperienza validissima, perfezionata di recente al di là dell’Adriatico.

L’Onu… per continuare la guerra

Qualche sincera anima candida potrà concludere che, per lo meno, in questo modo prima o poi un po’ di pace in Iraq ci sarà e, soprattutto, quel paese non sarà più causa di nuovi conflitti che coinvolgono tutto il mondo. Purtroppo è fin troppo facile prevedere che non sarà così. Questo tipo di “stabilizzazione” non solo favorirà i progetti Usa di presa di possesso su una parte rilevante delle riserve petrolifere mondiali per gli scopi che si sono detti, ma favorirà anche la prosecuzione di tutti gli altri progetti di ri-disegno del Medio-Oriente. Ai danni dei palestinesi, tanto per cominciare, per i quali torna in auge persino la soluzione di trasferirli in massa verso qualcuna delle enclaves in cui sarà suddiviso l’Iraq. Ma ai danni anche di quel sempre meno oscuro oggetto del desiderio che è la Cina. I più influenti think tank americani non fanno più mistero di considerare questo paese come la più pericolosa delle minacce all’egemonia economica-finanziaria-politica e militare degli Usa sul mondo. Non certo perché sia “comunista” (cosa alla quale non dà peso neanche Berlusconi!, anche se alla bisogna potrà tornare sempre utile rispolverare un po’ di anti-comunismo in funzione anti-cinese), ma proprio perché è lanciato in una folgorante rincorsa economica che non si limita a mettere a disposizione la sua poco costosa manodopera per foraggiare i mercati occidentali con merci a basso prezzo che consentono di esercitare una pressione inaudita anche sui lavoratori occidentali per ridurgli salari e tutele sindacali. No, quello che della Cina fa paura è la capacità di mettere al proprio servizio questo slancio economico, cominciando con il diventare, intanto, una potenza a base regionale da cui i paesi limitrofi invece di sentirsi minacciati cominciano a sentirsi attratti e persino protetti (vedere il comportamento cinese durante la crisi del ’97: mentre il Fmi premeva con gli “aggiustamenti strutturali” per garantire il flusso di risorse finanziarie dal sud-est asiatico verso le piazze occidentali, la Cina proponeva al Giappone di costituire un fondo monetario regionale per aiutare i paesi in difficoltà –solo le pressioni del Fmi sul Giappone impedirono al piano di concretizzarsi).

Si dia uno sguardo alle tante cartine apparse sulla stampa per dar conto delle basi americane installate in Medio-Oriente e Centro-Asia a partire dalla guerra contro l’Afghanistan e si potrà visivamente cogliere la tattica di vero e proprio accerchiamento militare della Cina. Si pensi, poi, per esempio, al modo in cui si è instillata la paura della Sars (e la si confronti con l’impegno dedicato all’Aids, alla malaria, ecc.) e si potrà facilmente vedere come sia già in atto una vera e propria campagna propagandistica per preparare l’opinione pubblica occidentale ad assalti anti-Cina ben poco… propagandistici.

Per concludere, l’intervento dell’Onu avverrà senz’altro e avrà certamente la caratteristica di creare le ulteriori premesse per proseguire nella strategia della guerra infinita che, proclamata contro il terrorismo internazionale, manifesta vieppiù i suoi meno confessabili motivi. D’altronde è ben utile ricordare che la guerra del 2003 è stata preparata da 12 anni di embargo decretato proprio dall’Onu e di bombardamenti quotidiani a protezione delle “no-fly zones” disegnate dagli Usa e contro le quali l’Onu non ha mosso dito.

Ritiro delle truppe senza se e senza ma

Quale obiettivo porsi, allora, per cercare di ostacolare davvero la guerra infinita contro l’Iraq e nei suoi successivi programmati passaggi? Il FSM di Mumbay ha proposto di rivendicare il ritiro delle truppe d’occupazione e l’autodeterminazione degli iracheni. In Italia si è acceso un dibattito sulle modalità di attuare questi due obiettivi. È bene che nel movimento se ne discuta perché non tutte le proposte che emergono, a parere nostro, sono in grado di produrre l’effetto di fermare davvero la strategia della guerra infinita.

Noi crediamo che l’obiettivo adatto alla bisogna è quello di un ritiro immediato di tutte le truppe straniere, a cominciare da quelle italiane, dall’Iraq e da tutto il Medio-Oriente, senza se e senza ma.

Anzitutto, questo obiettivo è la prosecuzione logica della campagna “contro la guerra senza se e senza ma”, condivisa dalla stragrande maggioranza dell’umanità, ed è, crediamo, condiviso tuttora anche dalla grande maggioranza degli italiani persino dopo la martellante e criminalizzante offensiva patriottica a difesa dei militari italiani “esportatori di pace”.

Non è facile attaccarlo frontalmente essendo evidente a chi si è opposto alla guerra che si trattava di vera e propria aggressione a un paese già oppresso per via pacifica. Di conseguenza gli esperti della “fabbrica del consenso”, mostrando di tener conto della rivendicazione si limitano ad aggiungere una “piccola” postilla: “sei pacifista coerente, rifiuti qualsiasi violenza? Bene, chiedimi pure il ritiro delle truppe, ma condannami anche il terrorismo”.

A prima vista sembrerebbe un innocuo arricchimento della propria posizione pacifista, prima un po’ distratta e unilaterale. Ma, non è così. Come, infatti, tutti intuiscono, l’obiettivo del “rientro immediato delle truppe” si basa sul presupposto che queste truppe sono andate ad aggredire un paese senza altro motivo che quello di affermare il predominio economico/politico e militare di gran parte dell’Occidente (Usa in testa).

Negando spudoratamente al mondo intero che si trattasse di petrolio, finanza ed egemonia mondiale, Bush/Blair e Berlusconi hanno potuto utilizzare solo il pretesto del terrorismo, dopo aver perso anche quello delle armi di distruzione di massa. Se gli oppositori dell’aggressione/occupazione si battessero oggi “contro la guerra e contro il terrorismo”, dovrebbero almeno sospettare di correre il rischio di legittimare l’operazione della sunnominata Triade, per di più proprio nel momento in cui essa è incappata anche nella resistenza che smentisce clamorosamente la previsione della festosa accoglienza ai liberatori.

Cosa distingue, poi, la “guerra” dal “terrorismo”? Sganciare atomiche su città (Hiroshima e Nagasaki) abitate solo da vecchi, donne e bambini: è “guerra” o “terrorismo”? Avviluppare città come Dresda in una “tempesta di fuoco” sterminando 200.000 vecchi, donne e bambini: è “guerra” o “terrorismo”? Cospargere di napalm e agente orange migliaia di chilometri quadrati di foresta vietnamita, bruciando ogni briciolo di vita vegetale, animale e umana: è “guerra” o “terrorismo”? Attuare il “piano condor” per liberare il Sud America dai “sovversivi” facendone desaparecire decine di migliaia: è “guerra” o “terrorismo”? Bombardare da 10.000 metri di altezza, magari con proiettili all’uranio impoverito, producendo a ripetizione “effetti collaterali” di morti civili: è “guerra” o “terrorismo”? L’elenco potrebbe proseguire a lungo e dimostrerebbe che chi ci chiede di condannare “guerra e terrorismo” insieme ha le idee molto chiare: considera guerra legittima tutto ciò che serve al più forte per imporre il suo dominio, ed essendo più forte ha dalla sua anche la legge, visto che è lui a scriverla, mentre considera terrorismo tutto ciò che il più debole fa per opporsi alla dominazione. È guerra quella di Israele anche quando spiana interi quartieri con le ruspe e uccide bambini che stanno catturando uccellini; è terrorismo quello dei palestinesi le cui terre sono rosicchiate dall’espansione delle colonie israeliane, sono rinchiusi in villagi-prigione e si vedono negato il diritto a vivere come nazione. È guerra tutto ciò che è servito a “liberare” l’Europa dal nazi-fascismo e ogni parte del mondo dalla “minaccia comunista”; è terrorismo ogni forma di resistenza al dominio del più forte: barbari e terroristi erano i popoli africani che resistevano con le loro misere armi all’invasione coloniale inglese, francese e italiana; barbari e terroristi sono gli iracheni che resistono con le loro armi spaventosamente asimmetriche a petto di quelle degli occupanti.

A quale terrorismo, poi, ci si riferisce? Di Al Qaeda? Se così fosse ci sarebbe, comunque, da aprire una discussione tanto su Al Qaeda quanto sulle ragioni che presiedono all’esistenza di un certo tipo di terrorismo (è nata prima Al Qaeda o la secolare rapina dei popoli arabi da parte dell’Occidente? Il terrorismo di Al Qaeda non potrà mai liberare quei popoli da quella rapina, è vero, ma l’occupazione militare occidentale li libera o li opprime di più? Ecc.). Ma non si tratta di bin Laden, la stessa Triade fa molta fatica per dimostrare collegamenti tra questi e l’Iraq. Il terrorismo di cui si tratta è, nel caso specifico, unicamente quello che si riferisce alla guerriglia irachena contro le truppe occupanti. Dietro la questione terminologica si nasconde, dunque, un giudizio politico. Ciò che viene chiamato terrorismo è, in realtà, la resistenza anche armata che gli iracheni stanno facendo a ciò che considerano una vera e propria occupazione del proprio paese a fini di rapina e d’oppressione. Quando, dunque, ci si chiede di condannare “guerra e terrorismo” insieme, ci si chiede di prendere le distanze proprio da questa resistenza e di intrupparci in una soluzione che giustifichi la presenza occidentale, magari sotto bandiere Onu, dei cui veri scopi abbiamo discusso in precedenza. Ci si chiede di ricrederci sul fatto che lì si tratti di occupazione e di ammettere che i governi occidentali hanno inviato le proprie truppe mossi solo dal desiderio di portare un “aiuto” a un popolo martoriato da un satrapo egoista. Forse hanno esagerato -si ammetterà- nei mezzi adoperati, ma il movente era una disinteressata generosità!

Noi crediamo che sia giusto interrogarsi sui programmi e sulle forme di lotta della resistenza irachena, e più innanzi proporremo alcune riflessioni in merito, ma sia indiscutibile la sua piena legittimità di esprimersi: il paese è occupato a esclusivi fini economico-strategici, e il popolo ha tutta la legittimità di opporsi all’occupazione, di difendere le proprie risorse e di aspirare a utilizzarle per le proprie necessità, costituendo, perciò, un proprio governo autonomo da ogni intromissione imperialista.

Sarebbe bello se tutto questo potesse svolgersi senza versare una goccia di sangue di alcun essere umano, ma il problema non riguarda la volontà dei resistenti, non dipende dal loro grado di propensione alla violenza, dipende da una semplice realtà: il paese è stato conquistato con l’esclusivo uso della forza militare e la conquista è mantenuta con l’esercizio della medesima forza (qualcuno tiene il conto dei civili iracheni morti dopo la “fine” della guerra? Pare che siano tre volte i militari americani ufficialmente vittime della resistenza!).

Il ritiro delle truppe deve, perciò, essere “senza se e senza ma” e deve essere immediato, senza presunti interludi per il passaggio del potere agli iracheni, che avrebbero il solo fine di accertarsi che il potere passi agli iracheni selezionati dalle potenze occupanti, proni, cioè, ai loro disegni. Così sì si metterebbe davvero una solida zeppa nei meccanismi della guerra infinita e permanente.

Resistenza per il riscatto nazionale

Riconoscere la legittimità della resistenza irachena non vuol dire, quindi, legittimare alcuna forma di terrorismo. Ma, gli operatori della “fabbrica del consenso” hanno pronta un’altra insinuazione: voi così appoggiate il ritorno di Saddam. Cercheremo di rispondere anche a questa accusa.

In via preliminare dobbiamo dire due cose: 1. se gli iracheni ritenessero utile il ritorno di Saddam, sarebbero pienamente liberi di desiderarlo e nessun potere esterno avrebbe il diritto di impedirlo; 2. dovremmo aprire una discussione sul fatto se Saddam Hussein sia stato esattamente quel campione di mostruosità che ci viene descritto dalla propaganda ufficiale. Ovvero se sia stato un satrapo mosso unicamente dalla bramosia di potere personale e interessato ai suoi esclusivi inconfessabili piaceri o se sia, invece, stato semplicemente un leader che pensava di fare gli interessi del paese perseguendo una determinata politica. È facilmente intuibile che si tratta della seconda ipotesi. Riconoscerlo non significa condividerne la politica, né i metodi adottati per realizzarla, ma, tuttalpiù, esaminarne l’una e gli altri. Questa discussione riguarderebbe soprattutto il passato e possiamo, al momento, anche evitare di aprirla, perché qualsiasi motivazione abbia avuto il saddamismo, questo è uscito, non solo militarmente, ma anche politicamente sconfitto. Chiunque oggi in Iraq si batta per liberare il paese dagli occupanti e ricostruire uno stato in grado di gestirlo senza interferenze esterne deve prendere atto che perseguire una politica simile a quella di Saddam sarebbe dannoso, visto che ha condotto il paese a essere per nulla libero e autonomo.

Se non bastasse questo per rispondere all’accusa, si consideri anche che le stesse rare informazioni che circolano sulle forze della resistenza escludono che il movente delle loro azioni sia un “ritorno di Saddam”.

Ma quali sono queste forze? L’analisi della Triade ci propone due soggetti: residuati del vecchio regime e terroristi etero-diretti. Con il primo soggetto si vuole significare che la maggioranza degli iracheni accetta la presenza occidentale e solo una minoranza se ne vuole disfare per riconquistare gli antichi privilegi. Con il secondo soggetto si persegue un obiettivo ancor più ambizioso: stabilito che gli stati stranieri che inviano “terroristi” in Iraq sono, puta caso, Siria e Iran, si sarà pre-costituito un altro bel motivo per andare all’assalto dei “destabilizzatori”. Commentatori un po’ più imparziali ci dicono, invece, che probabilmente Saddam ha avuto un ruolo nell’organizzare dei nuclei di resistenza in previsione della sconfitta, ma che, al momento, alla resistenza partecipa una galassia di gruppi che non sono più egemonizzati da una politica saddamista, né sono più solo i gruppi pre-organizzati, ma che a questi se ne sono aggregati molti altri.

Quali sono gli obiettivi di tale resistenza? Per quel che è dato di sapere (la disinformazione dei media –fatta la lodevole eccezione de il manifesto- sull’argomento è totale) l’obiettivo che presiede all’attività di questi gruppi è la cacciata delle truppe occupanti dal paese. Per quanto riguarda i programmi politico-sociali si sa poco o nulla. Un elemento fondamentale di riferimento è, comunque, fornito, per esempio, da Limes n 5/2003 che a pag. 34 ci informa che: “Il fatto è che nel Triangolo (n. si tratta della zona dell’Iraq centrale in cui le azioni della guerriglia sono più frequenti), a differenza di altre zone dell’Iraq, c’è un fortissimo senso di nazione che trasuda dalle parole della gente di strada. In quasi tutti c’è un sentimento di onore nazionale offeso, di patria violata dall’occupazione alleata, di intrusione di stranieri che nessuno aveva invitato per svolgere alcun ruolo salvifico, come propone la versione ufficiale della coalizione. È come se costoro considerassero Saddam Hussein una pratica da regolare in casa. Tra loro. E che comunque diventa secondaria di fronte all’invasione armata della patria Iraq, alla quale bisogna reagire.”

Senso di nazione, onore nazionale offeso! Ohibò, è mai possibile che degli arabi, musulmani, tiranneggiati a lungo, abbiano sentimenti cui la cultura occidentale attribuisce un nobile grado di civiltà (quando ne parla riferendoli a sé stessa)? È mai possibile che invece di percepirsi come degli incapaci ad auto-governarsi pretendano addirittura d’essere “nazione”, utilizzino termini e adottino pratiche del tutto simili a quelli della resistenza italiana contro l’occupazione tedesca? Qualcuno dice che sono sentimenti posticci inculcati dalla propaganda saddamista in zone alle quali venivano riservati trattamenti particolarmente vantaggiosi. Si deve presumere, dunque, che altrove non alberghino. Di sicuro non dovrebbero albergare, per esempio, nelle zone meridionali a maggioranza sciita, destinatarie, si dice, di trattamenti ben altrimenti connotati da parte del regime di Saddam. Bene lo stesso numero di Limes, a pag. 47, ci fornisce una notiziola davvero “curiosa”: “curiosamente un altro punto su cui convergono i religiosi della Hawza (n. il consiglio dei religiosi più autorevoli di Naaf, città sacra, centro dell’insegnamento dottrinario del mondo sciita, sia arabo che iraniano) è il nazionalismo. Ci si appella all’unità della nazione, insieme a sunniti e arabi di altre confessioni (la posizione sul Kurdistan, in verità, è ancora poco chiara). Non avendo mai fatto propria la retorica panarabista, promossa soprattutto negli anni Settanta e Ottanta dai quadri del partito Bath, i religiosi di Naaf avvertono tuttavia l’appartenenza a qualcosa di superiore. La nazione irachena esiste. Dovrà essere regolata da precetti islamici, ma rappresenterà chiunque voglia riconoscervisi.”

Dunque, scopriamo che anche gli sciiti, sui quali si punta molto per indurli a dichiarare un’entità politica separata, anche geograficamente, dal resto dell’Iraq, sentono di appartenere alla nazione irachena.

Una prima conclusione possiamo, dunque, trarla: la resistenza armata si fonda politicamente su un programma di riscatto nazionale dall’occupazione straniera, programma che è condiviso da una parte maggioritaria del popolo iracheno che, al momento, si avverte come un popolo costituente un’unica nazione e non come popoli diversi e contrapposti. Persino sui curdi, prima di giurare sul fatto che siano tutti schierati per la costituzione di un’entità curdo-americana al Nord, si dovrebbe dare la giusta importanza alla seguente circostanza: oltre un milione di curdi si è trasferito a Baghdad perché insofferente dell’arretratezza economico-sociale in cui un certo separatismo ha sempre cercato di conservare il Kurdistan iracheno, e, attenzione!, non è tornato in Kurdistan neanche durante il periodo dell’embargo, nonostante, in quei frangenti, le condizioni in cui vivevano i curdi al Nord (“protetti” dalla no-fly zone e foraggiati con particolari riguardi sia dall’Onu che dagli Usa) erano incommensura-bilmente migliori di quelle in cui erano costretti a sopravvivere tutti i cittadini di Baghdad. Questo segnala come anche nel popolo curdo l’ipotesi di patria etnica (divisa e contrapposta al resto dell’Iraq) sia molto meno condivisa di quanto normalmente si sia portati a credere. Ciò nulla toglie al fatto che gli Usa abbiano trovato solo tra i curdi delle forze politiche, a base effettivamente popolare, disposte a fargli da “quinta colonna” per realizzare i piani di spartizione etnico-religiosa dell’Iraq. Ma, certo, conferma che anche tra molti curdi alberga quel senso di appartenenza a una nazione unitaria che si riscontra nelle altre “componenti”.

Per quanto ci riguarda nella discussione sui temi in argomento ci pare di poter concludere con sufficiente fondamento che la resistenza armata alle truppe occupanti sia dotata di almeno un punto molto chiaro di programma politico: riscattarsi in quanto nazione unitaria dal dominio e dall’oppressione imperialista. Un punto identico alle molteplici lotte anti-coloniali di cui è stato costellato il mondo negli anni 1950-70.

Ribadiamo che anche se tale punto non fosse stato presente avremmo ritenuto in ogni caso legittima la resistenza irachena all’occupazione, ma la sua esistenza toglie ogni velo alla propaganda alleata che vorrebbe ridurla ad un’accolita di ex-privilegiati, “terroristi stranieri” e criminali comuni.

E gli attentati contro i civili?

A conferma della sua tesi che si tratti di “terroristi” la Triade cita gli attentati fatti contro i civili. Si è costretti a riconoscere che le azioni contro i militari occupanti e i collaborazionisti rientrino nelle forme classiche della resistenza agli occupanti, ma come la mettiamo con gli attentati alle moschee che hanno causato alcune centinaia di morti? Non dimostrano, forse, che la strategia è semplicemente quella di creare con il terrore un indistinto caos da cui far emergere una nuova sanguinaria dittatura? Su questi attentati riprendiamo da il manifesto due interessanti notizie. La prima è apparsa il 14.1: “Di fronte ai misteriosi attentati contro religiosi sciiti o sunniti, i leader delle due comunità hanno tenuto numerosi sermoni congiunti nei quali invitavano la popolazione a non fare il gioco «degli Usa e di Israele che vogliono dividere la popolazione»”. Il 23.1 lo stesso giornale intervista Hana Ibrahim che ha rappresentato la “Conferenza per costruire un Iraq indipendente e unificato” al Forum Sociale Mondiale di Mumbay. La giornalista le chiede: chi rappresenta la resistenza armata? La signora risponde: “Non sappiamo chi mette le bombe. Posso solo dire che noi condanniamo la violenza contro i civili… Bisogna distinguere tra violenza e terrorismo. Gli attentati terroristici contro civili sono una guerra sporca che mina la credibilità delle forze anti-occupazione. Non mi stupirei che quelle bombe le mettessero il Mossad (l’intelligence israeliana) o la Cia. La conferenza per l’Iraq unificato e indipendente non ha milizie e fa appello a resistere all’occupazione con tutti i mezzi politici. È l’occupazione a fornire una ragione alla resistenza: le convenzioni di Ginevra ne riconoscono la legittimità, dove affermano che «il paese occupato ha diritto di resistere con i mezzi che ha a disposizione». Ma è necessaria la battaglia politica contro le forze d’occupazione. E agli iracheni serve tutto il sostegno internazionale”.

I primi sono rappresentanti islamici, la seconda è una laica fondatrice del “Forum culturale delle donne” irachene. Entrambi dirigono i sospetti verso gli stessi attori. Entrambi hanno ben compreso che la “pace” che gli alleati vogliono “stabilizzare” non è altro che la trasformazione della guerra “contro gli iracheni” in guerra “tra gli iracheni”.

Non abbiamo elementi che ci consentano di confermare con assoluta certezza chi sono i veri agenti di certi attentati. Non possiamo escludere che si tratti di gruppi locali che hanno già sposato la logica di contrapposizione tra entità etnico-religiose. Ma, anche in tal caso i responsabili politici della diffusione del programma spartitorio sono, in prima istanza, proprio gli alleati che hanno preso l’Iraq e cercano oggi di sollecitare la formazione di gruppi politici su base etnico-religiosa alla scopo di metterli l’uno contro l’altro, per poter dominare il paese senza esporre le proprie truppe a pericoli eccessivi.

Un Iraq islamico?

Nella risposta la signora Hana Ibrahim richiama una questione che riguarda la resistenza anti-occupazione e riguarda anche chi si oppone in Occidente alla prosecuzione della guerra infinita. Lei fa appello alla battaglia politica. Non possiamo divinare su cosa intenda per “battaglia politica”, ma possiamo dire cosa intendiamo noi: un programma politico-sociale che promuova e rafforzi una mobilitazione di massa contro l’occupazione.

Su questo piano è inevitabile riconoscere che, pur fatta la tara sulla disinformazione dei media, la resistenza non abbia finora fornito elementi di chiarezza. Che la resistenza armata goda di una diffusa simpatia tra il popolo iracheno è indubitabile, viceversa la sua stessa sopravvivenza sarebbe stata molto problematica. Al contrario non solo sopravvive, ma le truppe alleate hanno grandi difficoltà a “snidarla”, e ciò dimostra proprio come l’insieme della società irachena la difende, la senta come cosa propria. Inoltre, la difficoltà a snidare i resistenti, e la palese simpatia degli iracheni nei loro confronti induce nelle truppe alleate il riflesso condizionato di ritenere ogni iracheno un possibile resistente, con l’inevitabile conseguenza di sparare a occhi chiusi dinanzi ad ogni minimo sospetto. Ciò produce continui “incidenti” che non hanno altro effetto che accrescere la simpatia degli iracheni per i resistenti. Ulteriore simpatia è prodotta dalla brutalità quotidiana delle truppe occupanti contro chiunque. Le riprese da un elicottero americano che insegue fino ad ammazzare tre iracheni sorpresi a cercare qualcosa di utile in un blindato americano abbandonato (comuni ladri ai quali si comminerebbe al più un po’ di carcere) dimostra come gli occupanti s’arrogano libera scelta sul diritto di vita o di morte di tutti gli iracheni.

Questa sicura simpatia non si è finora tradotta in mobilitazione politica di massa. Ciò è dovuto anche alla lacunosità del programma politico della resistenza. Gli iracheni sono contro l’occupazione, ma la mobilitazione di massa avviene solo se sono chiari anche i programmi del dopo-occupazione.

È un fatto che le grandi mobilitazioni popolari si sono avute, finora, solo a seguito delle chiamate dei capi religiosi sciiti. Potrebbe, d’altronde, accadere diversamente? Quale prospettiva politica potrebbe darsi la resistenza irachena? Su di essa pesano inevitabilmente tutti i fallimenti del passato. La lotta anti-coloniale degli anni 1950-70 s’era fondata su una prospettiva “socialista”. Ciò da un lato significava avere il supporto del “campo socialista” allora esistente, dall’altro lato voleva significare una prospettiva sociale in cui non solo scomparivano gli sfruttatori stranieri, ma si realizzava anche un’uguaglianza nell’utilizzo delle risorse e nella ripartizione delle ricchezze. Per motivi che in questa sede sarebbe troppo lungo approfondire, questa prospettiva si è rivelata deludente. Nel Medio-Oriente essa s’era data nella variante del Bath, il partito del nazionalismo e del socialismo arabo, fondatamente a-religioso, che s’era sviluppato in Iraq e Siria ed aveva molti collegamenti con il nasserismo egiziano. Con la fine di Saddam Hussein (politica prima che fisica) anche questa prospettiva ha rivelato la sua inconsistenza. In questo quadro è assolutamente comprensibile che la più credibile delle prospettive sia quella dell’islamismo, per quanto anche questa abbia subito pesanti scossoni di credibilità sia a causa dell’esperienza iraniana (densa di aspettative e di correlate delusioni) sia a causa dell’emergere dell’oscura e problematica variante lottarmatista rappresentata da Al Qaeda.

Cionostante l’Islam offre tuttora un quadro di riferimento, religioso ma anche politico-sociale, che dà fondamento, per lo meno, alle ragioni dell’unità dei musulmani contrapposte alle ragioni della dominazione e dello sfruttamento imperialista delle risorse locali, anzitutto quelle petrolifere.

Il militante del movimento anti-guerra dell’Occidente si pone, perciò, la domanda: cosa succederà all’Iraq una volta scacciati gli invasori occidentali? Non finirà questo paese nelle mani di un regime islamico dai caratteri oscurantisti e oppressivi per il suo stesso popolo?

Noi pensiamo che sia giusto interrogarsi sulle prospettive del “dopo”, e siamo tra coloro che non sarebbero felici in presenza di un Iraq dominato da un regime islamico. Tuttavia ci poniamo, e poniamo, due domande:

in attesa che emerga in Iraq una prospettiva politica unificante che sia a-islamista che facciamo? Lasciamo che le sorti del paese siano in mano degli alleati o dell’Onu?

cosa concretamente possiamo fare noi, dall’Occidente, per dare agli iracheni un contributo per delineare una prospettiva diversa da quella islamica?

Alla prima domanda non esitiamo a rispondere che battersi per l’autodeterminazione di un popolo significa riconoscere il suo pieno diritto a darsi il regime politico che preferisce in completa assenza di intromissioni esterne. E aggiungiamo che l’Onu ha dato le più ampie dimostrazioni di essere un’agenzia che, in nome del bene dei popoli, agisce a comando dei vincitori della seconda guerra mondiale, in particolare della potenza che domina attualmente il mondo, assieme ai suoi alleati più o meno servili, in virtù del proprio potere economico, politico e militare. L’aspirazione a un’“Onu dei popoli” o a un’“Onu riformata” per quanto possa essere piena delle più generose intenzioni deve fare i conti con l’attuale realtà: gli Usa e la cerchia dei loro alleati dominano su tutti gli altri paesi con il diritto di veto formale e con il ricatto sostanziale del loro smisuratamente asimmetrico potere. Ammesso, e non concesso, che l’Onu possa prima o poi “riformarsi” e divenire “davvero democratica”, rimane il fatto che nel frattempo è quel che è, rimane il fatto che se prendesse in mano le sorti dell’Iraq le prenderebbe alle condizioni vigenti, allo scopo, quindi, di imporre all’Iraq una politica che favorisca gli interessi occidentali sia riguardo al petrolio che riguardo a quelli geo-politici e strategici nell’area.

Più complesso, lo ammettiamo, è rispondere alla seconda domanda. Per farlo bisognerebbe prioritariamente delineare quale sia la prospettiva che vorremmo vedere realizzata in Iraq, quale tipo di società, quali rapporti economici, sociali, politici, ecc. Il “movimento per un altro mondo possibile” è sull’argomento ancora alquanto vago. Esso ha cominciato a combattere gli effetti distruttivi che la globalizzazione capitalistica ha sul mondo, sulla natura e sugli esseri umani, ma è ancora piuttosto titubante tra lo scegliere se la soluzione sia quella di rendere più a misura d’uomo questa globalizzazione o se è necessario combattere nel suo insieme lo stesso sistema capitalista. Pur nella persistenza di questo dilemma ha, però, nel suo insieme cominciato a delineare i caratteri di ciò che non vuole. Non vuole, per esempio, che gli interessi dei popoli siano sottomessi a quelli delle multinazionali. Non vuole che la natura sia illimitatamente sfruttata ai fini del profitto. Non vuole che gli esseri umani siano privati dei loro diritti all’esistenza e all’esistenza dignitosa, compresa la giustizia sociale per i lavoratori, i giovani, le donne, gli immigrati, i bambini. Questi caratteri dovrebbero riversarsi negli assetti socio-politici di un Iraq liberato dall’occupazione. La questione dell’utilizzo della risorsa petrolifera diviene, per forza di cosa, centrale. Per succhiare dal petrolio super-profitti è inevitabile che gli iracheni debbano vivere in condizioni di perenne miseria, è inevitabile che non debbano trarre dalla vendita del petrolio risorse adeguate per un’economia agricola e industriale in grado di rendere il paese indipendente. Infatti, un paese in grado di provvedere ai propri bisogni difficilmente accetterebbe di svendere le sue risorse o di far devastare l’ambiente dall’estrazione illimitata di idrocarburi, dal loro trasporto e trasformazione. La vicenda del petrolio dimostra, nel modo più palmare, la giustezza dell’intuizione del movimento no-global quando stabilisce un nesso tra profitti delle multinazionali e miseria dei popoli. Ma un Iraq in grado di non dipendere dalla svendita del petrolio può esistere se non muta l’intero quadro dei rapporti mondiali di scambio e di produzione? Possono gli iracheni da soli mutare questo quadro nel suo insieme? Evidentemente no. E qui emerge il ruolo che il movimento internazionale può svolgere anche nei confronti dell’Iraq. A misura che questo movimento dimostra di agire concretamente per un ribaltamento dei rapporti mondiali di produzione e di scambio esso potrà indicare anche agli iracheni una prospettiva diversa da quella che oggi pare raccogliere le loro simpatie.

Le grandi manifestazioni del 15 febbraio hanno già fatto comprendere agli iracheni che l’Occidente non è un mono-blocco, che chi ufficialmente lo rappresenta (G8, Fmi, Banca Mondiale, Onu, Nato, ecc) non rappresenta la volontà e gli interessi di tutti gli occidentali, e che, anzi, molti di loro si battono ardentemente proprio contro le politiche delle istituzioni ufficiali che si traducono in oppressione, sfruttamento, dominio economico, finanziario e militare per tutti i popoli del Terzo Mondo. Se vogliamo davvero intrecciare con il popolo iracheno una discussione feconda anche sul tipo di assetti socio-politici del suo paese è, quindi, necessario separare ancora di più le nostre scelte dalle scelte di quelle istituzioni. È necessario batterci ancora più decisamente contro le loro politiche.

Una lotta per il ritiro immediato, senza se e senza ma, di tutte le truppe d’occupazione dall’Iraq può essere, dunque, una leva potente anche per intrecciare quel rapporto e per cercare di dare il nostro contributo a una soluzione che garantisca a tutti gli iracheni la libertà, la pace e la giustizia sociale. Niente di più e nulla di meno di ciò che desideriamo anche per noi. Anche per noi i temi della guerra e dei profitti delle multinazionali si intrecciano potentemente con quelli della salvaguardia della natura e della giustizia sociale. Anche qui la guerra è divenuta un formidabile grimaldello per accelerare lo smantellamento dei diritti sociali e del lavoro, per militarizzare sempre di più la società, criminalizzare e reprimere ogni dissenso, rendere precaria la condizione di lavoro e di vita di milioni di giovani e rovinare progressivamente anche quelle di milioni di lavoratori (una volta) “garantiti”.

Guerra “esterna” e guerra “interna”

La guerra che viene condotta “all’esterno” ha i caratteri di una guerra tesa a sottomettere interi popoli alla globalizzazione capitalista, ovvero a lasciar sfruttare le risorse del proprio territorio e a lasciarsi sfruttare dalle multinazionali che vanno a caccia di forza-lavoro debole e a basso costo, che non abbia nessun grado di resistenza sindacale e politica (non a caso in Iraq le truppe alleate hanno assaltato anche una sede sindacale ed arrestato otto esponenti sindacali e cercano di promuovere nel settore petrolifero “sindacati gialli”).

L’altra medaglia di questa guerra è la guerra “interna”, quella condotta sistematicamente per ridurre al minimo possibile anche il costo del lavoro occidentale, per deprivare dell’organizzazione sindacale e politica anche i lavoratori occidentali, per distruggere ciò che rimane dei loro vincoli solidaristici organizzati e trasformarli in un acceso individualismo che li sostituisca con la concorrenza e lo scontro tra lavoratori. Le due guerre si intrecciano con crescente evidenza; gli stati occidentali impegnati nelle guerre di conquista tagliano con furore tutte le “spese sociali” e gonfiano con ardore gli investimenti militari per “l’esterno” e per la “sicurezza interna”. Berlusconi rivendica a pieno titolo la primazia della flessibilità del lavoro e quella della lotta ai “lacci e lacciuoli” (sindacali, contrattuali, legislativi) che frenano il pieno dispiegarsi del libero mercato, quello che conferisce lo scettro del potere assoluto al profitto dei possessori di capitale e precipita allo stato di semi-schiavitù chiunque non ne possegga e per sopravvivere deve far conto solo sulle sue capacità lavorative (semprechè riesca a venderle a qualcuno). Ma è degnamente accompagnato dai governi, di centro-destra o centro-sinistra, di tutti i paesi capitalisticamente sviluppati, e la sua politica non sarà significativamente corretta neanche dal centro-sinistra che aspira a sostituirlo.

Così come le due guerre sono intrecciate, è necessario intrecciare la resistenza dei lavoratori occidentali alle politiche di attacco al loro salario e alla loro organizzazione collettiva con quelle contro le guerre di conquista ai danni dei popoli oppressi. È un terreno per mille motivi difficile. Le nuove generazioni di lavoratori si trovano in condizioni che non favoriscono per niente la loro organizzazione collettiva. I lavoratori ancora in possesso di un minimo di tutele sono sbandati e sfiduciati, anche a causa di politiche sindacali che li educano da decenni a conformarsi alle necessità del mercato e delle aziende. Tuttavia le fiammate di resistenza (solo per rimanere all’Italia: Termini Imerese, ferrotranvieri, vigili del fuoco, Terni, interinali della Telecom, scuola, sanità, immigrati, ecc.) segnalano che nel sottosuolo sociale si agita un bisogno di riprendere con vigore a battersi collettivamente per la difesa delle proprie condizioni. Per farlo bisogna anche dotarsi di una prospettiva politica, considerato che quella abbracciata dalla maggioranza dei lavoratori per decenni si è via via convertita alle ragioni dell’avversario. Una vera “contaminazione” tra lavoratori e movimento “per un altro mondo possibile” potrebbe aiutare anche a risolvere questo acuto problema. È possibile iniziare a realizzarla proprio a partire dal terreno della guerra. Avrebbe un duplice incontestabile vantaggio:

metterebbe la lotta contro la guerra su basi molto più solide: quale strumento migliore per bloccarla che ricorrere agli scioperi, tanto più se internazionali e memori, sul piano delle forme di lotta, delle esperienze di Scanzano, di Termini Imerese e dei ferrotranvieri?

consentirebbe di rinfocolare i vincoli di solidarietà tra lavoratori in modo da dare anche alla lotta per la difesa dei salari e contro la flessibilità quei caratteri di lotta generale senza i quali le pur generose spinte di singole categorie non possono ottenere molto.

Inserire una vera zeppa nel meccanismo della guerra infinita e permanente è, dunque, per noi come per gli iracheni una pre-condizione per andare avanti nella battaglia per un “altro mondo possibile”.

Su questi temi ti invitiamo a partecipare a un incontro pubblico che il Comitato terrà il 26 febbraio 2004 alle ore 21 nella sede di via Anzani 13, Como

L’indifferenza è complice dei potenti, la mobilitazione è l’arma dei popoli!

Comitato lavoratori contro la guerra - Como

Fonte

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