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(14 Agosto 2012) Enzo Apicella

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Ilva di taranto espropriarla e affidarla ai lavoratori

Articolo Il Manifesto 11 Agosto 2012

(13 Agosto 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.pclavoratori.it

Colpisce non tanto il diffuso plauso che si respira a sinistra verso la sentenza sull'Ilva, ma l'atteggiamento subalterno verso la proprietà che l'intera vicenda rivela. Lo dico non dal versante di un ambientalismo ideologico indifferente al lavoro («sussidi al posto della fabbrica»). Ma proprio dal versante delle ragioni dei lavoratori. Che sono un riferimento centrale per la stessa battaglia ambientalista.

La fabbrica non chiude, ed è un bene. Ma la sentenza giudiziaria sull'Ilva non tutela né il lavoro, né la salute. Preserva fondamentalmente gli interessi della proprietà: dietro la foglia di fico di formali raccomandazioni ambientali e col patrocinio di un governo Monti infarcito di «amici» dell'azienda.

Guardiamo in faccia la realtà. Nel '95 lo Stato regala Italsider al «rottamaio» Riva a prezzi stracciati. Diciotto anni dopo lo Stato socializza i costi dei crimini del padrone, mettendo la miseria di 300 milioni di denaro pubblico (ossia dei contribuenti) nella cosiddetta «bonifica». Il padrone Riva non mette un euro in più di tasca sua. I 90 milioni di investimento «ecologico» nell'area Ilva che l'ex prefetto Ferrante sbandiera riguardano il passato. Sul futuro la proprietà si tiene le mani libere. Continua a battere cassa per ottenere altri soldi pubblici. Si riserva di scaricare sui lavoratori eventuali spese aziendali per la «messa a norma» degli impianti dichiarando in quel caso una «possibile riduzione della produzione con possibili effetti sul personale» (Ferrante su Sole 24 ore dell'8/8). Infine lo stesso Ferrante figura, in rappresentanza di Riva, come controllore della messa a norma degli impianti «sequestrati»: il padrone controlla se stesso. In conclusione: posti di lavoro e salute restano nelle mani e sotto il controllo di una proprietà che la stessa magistratura, con decenni di ritardo, ha dichiarato «criminale».

Ciò che stupisce, tuttavia, non è la brutalità del profitto e dello Stato che lo tutela. Ma la subordinazione al padrone (e allo Stato) di chi dovrebbe tutelare gli operai. In altri termini, capisco l'esultanza dell'«unità nazionale montiana» a sostegno della «soluzione» trovata, col coro immancabile di Confindustria e banchieri. Ma perchè l'esultanza di Nichi Vendola e persino di Paolo Ferrero?

C'è un punto che accomuna tutte le sinistre sindacali e politiche in questa vicenda, al di là delle loro diverse collocazioni: nessuno rivendica l'esproprio di una proprietà criminale.

Tutti sembrano considerare normale - nel nome della «difesa del lavoro» - che resti intatta una proprietà aziendale che assassina operai e loro familiari nel nome del profitto. Nel migliore dei casi le si chiede, con scarso successo e credibilità, nuovi improbabili comportamenti ecologici.

È una posizione subalterna. Il Pcl si è schierato da subito, incondizionatamente, al fianco degli operai dell'Ilva e della loro lotta per la difesa del lavoro, contro ogni posizione che in nome dell'ambiente chiede la chiusura della fabbrica. Ma la difesa del lavoro è inseparabile dalla difesa della vita del lavoratore e dei suoi figli. Un padrone che si fa scudo del diritto al lavoro per negare il diritto alla vita, dev'essere espropriato e senza alcun indennizzo. L'azienda nazionalizzata va posta sotto il controllo degli operai.

Gli enormi utili realizzati dal padrone Riva (oltre 3 miliardi di euro nei soli ultimi due anni) vanno requisiti e investiti nella riorganizzazione della produzione, nel cambiamento degli impianti, nella bonifica dei territori. Il tutto sotto il controllo vigile dei lavoratori e dei comitati di quartiere della città. Questa è l'unica vera soluzione di svolta, capace di difendere insieme lavoro e salute, produzione e ambiente.

Perché non battersi unitariamente a sinistra per questa rivendicazione elementare? Perché non raccogliere e tradurre attorno a questa rivendicazione il punto di vista di una parte importante della stessa classe operaia dell'Ilva? Perché non fare di questa rivendicazione il riferimento esemplare di una possibile egemonia operaia sulla riconversione ecologica delle produzioni, capace di unificare su basi nuove mille vertenze territoriali in tutta Italia?

Si dirà che questa soluzione è «irrealistica» perché è incompatibile col capitalismo. È una verità mal posta. È il capitalismo ad essere incompatibile col lavoro e con la vita. Conciliare lavoro e vita significa mettere in discussione i fondamenti su cui il capitalismo si regge. A partire dal «sacro» diritto di proprietà.

Il caso Ilva è solo la drammatica metafora di un bivio generale che interroga il movimento operaio: o si riconduce ogni lotta sociale e ambientale alla prospettiva anticapitalista e dunque rivoluzionaria, o ci si subordina ai miasmi velenosi di un capitalismo fallito e dei suoi odiosi ricatti. In altri termini: o un governo dei lavoratori, o il governo del capitale.

«Irrealistica», quella sì, è l'eterna pretesa della conciliazione degli opposti.

Marco Ferrando
Partito Comunista dei Lavoratori

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