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(26 Gennaio 2005)
IL PREAMBOLO DELLA COSTITUZIONE EUROPEA
Illustri intellettuali, giuristi, raggruppamenti politici di sinistra hanno sottolineato “il valore di un documento (la Costituzione Europea) che, per il fatto stesso di collocarsi sul terreno giuridico, costituisce un elemento di contrasto verso l’egemonia della logica economica nel governo dell’Unione. C’è di più. Per la loro stessa natura di proposizioni generali, i principi giuridici recano in sé potenzialità progressive, in quanto generano contraddizioni rispetto a situazioni di privilegio o discriminazione. Così, nel caso della Carta, è vero che l’art. 45 riconosce il ‘diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri’ ai soli ‘cittadini dell’Unione; ma è altrettanto indubbio che il ‘Preambolo’ declina il principio della ‘libera circolazione delle persone’ in chiave universalistica, inserendo nel testo un contrasto suscettibile di importanti sviluppi.” (1)
Non siamo d’accordo con questo apprezzamento, sia per il riferimento apologetico al diritto, alla statualità e all’universalità in sé considerati come contraddittori con il particolarismo economico capitalistico, sia perché seleziona le parti confortanti del testo peraltro scindendole dalla costituzione materiale dell’Unione europea o mettendole in contraddizione con essa.
Invero, anche per noi il preambolo della Costituzione europea, letto nella sua interezza e dentro la trama dialettica del sistema capitalistico, è un elemento ordinatore non solo della Costituzione stessa, ma lo è anche di altre disposizioni e regolamenti in essa non contenuti e del processo materiale costituente, ancora in corso, dell’Unione europea. In tale ottica, però, il suo valore non può che essere negativo.
Tanto per cominciare, a nessuno sarà sfuggito che, per quanto l’Unione Europea, anche attraverso la lettura della sua Costituzione, venga presentata come un passo in avanti (sia pure parziale ed emendabile –si aggiunge con ipocrita prudenza) rispetto ai vecchi nazionalismi e quindi come un maggiore allargamento o una maggiore inclusione di popoli, prevede però due aspetti singolari:
1)-inasprisce le forche caudine per i migranti del Sud che così, dovendo tenere la gobba china dopo il passaggio, vengono a suddividersi in due categorie: una prima categoria ristretta, definita beffardamente “regolare”, può dimorare nel nostro territorio solo per lavorare con permesso di soggiorno temporaneo, senza godere, pur contribuendo alla produzione di ricchezza e pagando le tasse, dei diritti della cittadinanza (in particolare, non ha diritto di voto, di accesso ai documenti, di fissare liberamente la residenza); la seconda più ampia, senza permesso di soggiorno, può scegliere tra lavoro nero, spesso servile, e la manovalanza in attività illecite;
2)-considera perfino gli abitanti di alcuni paesi membri (quelli dell’Est) come semi-cittadini, alcuni da esaminare con l’aiuto del Vaticano, altri da mantenere ancora in purgatorio.
Per dirla in breve, se il capitale e le merci italiani (e gli italiani stessi!) possono circolare liberamente in Albania, in Polonia, in Tunisia, in Romania in virtù del principio del libero scambio, e così mettere a lavoro gli operai in quei paesi (con paghe mensili che raramente superano i 150 euro), questi stessi operai non possono liberamente venire a farsi neppure sfruttare in Italia (ove verrebbero a costare un “pochino” in più).
UN PASSO INDIETRO
Ora, già attraverso queste due “singolarità”, appare subito che una simile super Nazione (o, peggio, super Stato) è un passo indietro rispetto alle vecchie nazioni dell’epoca eroica della borghesia. Prendiamo l’esempio dell’Italia, che in fin dei conti non eccelse molto per l’eroismo dei suoi Cavour. Con la sua unità, costituitasi nella seconda metà dell’Ottocento, di fatto venne ad essere alimentata una forte differenza tra Nord e Sud. Ma, anche se volessimo considerare il Sud di allora una vera colonia interna dell’Italia, nondimeno nessuna legge vietava ai meridionali di circolare liberamente su tutto il territorio nazionale. Non mancavano certo le diffidenze e i pregiudizi razzisti sui meridionali che avrebbero potuto insudiciare le civili città del Nord e, peggio, avrebbero potuto introdurre brigantaggio, mafia, camorra, tuttavia il razzismo di allora, pur con i “crani” di Niceforo e di Lombroso, non arrivò al punto da impedirne la libera circolazione.
Se quanto sopra esposto è innegabile, anche a volere esprimere con sobrietà e pacatezza un primo giudizio, diventa quanto mai difficile sostenere che l’Unione europea, “per quanto insufficiente e criticabile”, sia comunque un passo avanti. Rispetto ai nazionalismi di prima, è a tutta evidenza un passo indietro. Se anzi vogliamo essere onesti fino in fondo, dovremmo dire che neppure l’Impero romano prevedeva che un ispano o un abitante della Gallia o del Nord Africa fosse un estraneo da tollerare nel centro in via provvisoria.
Ma come è possibile che un simile monstrum della modernità, per quanto sotto gli occhi di tutti, sia tollerato o accettato solo con qualche critica, per non dire approvato tranquillamente? In breve, come mai non suscita indignazione e conseguente mobilitazione? Come mai il “nostro” proclamato universalismo si coniuga con questa dinamica della differenziazione? Come mai perfino alcuni fieri paladini della lotta anti-razzista propongono cautela e saggio realismo alle tentazioni ipercritiche che, facendo –a loro dire- facili paragoni con il passato, non valuterebbero il difficile contesto della costruzione europea? Come mai anche chi deve arrendersi all’evidenza non riesce comunque a rinunciare di dialettizzarsi in positivo con una costruzione che, essendo finalmente anche politica e giuridica, perciò stesso dovrebbe affermare il primato della mediazione sociale e dell’universalismo su un economico di per sé sede del liberismo selvaggio e del privilegio?
Le ragioni di questo “ottimismo” sono molteplici, ma qui non le possiamo indagare tutte in modo soddisfacente.
Crediamo che una di esse –e molto importante- stia proprio nelle pieghe dello stesso preambolo della Costituzione, che recepisce ed esprime sentimenti e sedimentazioni culturali, oltre che interessi materiali in senso più stretto, già abbondantemente seminati nei decenni precedenti e accettati in parte anche dalla sinistra. Si chiama eurocentrismo.
EUROCENTRISMO
In esso non troviamo ovviamente né la parola “razze” né il concetto esplicito di una superiorità culturale, e neppure il riferimento alle tradizioni cristiane richiesto dal Divino Amore. E queste omissioni fanno tirare un sospiro di sollievo a progressisti e laici di ogni genere, inducendo alcune sinistre politiche e sindacali a parlare subito di “passo avanti” sia pure criticabile e insufficiente. Con il che si dimentica disinvoltamente che l’ideologia dominante (anche la più imperialista) da tempo ha opportunamente messo in ombra, pur non rinnegandolo, il concetto di “razza biologica” e che perfino l’estrema destra è arrivata a ritenere più utile il concetto di “differenze culturali”. Insomma, almeno ufficialmente, è perfino raro imbattersi in discorsi che condannano i popoli diversi da noi ad un’eterna minorità: si parla di retaggi storici, sempre provvisoriamente presenti o disgraziatamente ripescabili, di accidentali trasmissioni ataviche, rassicurando che il futuro sarà comunque luminoso…purché resti sempre futuro.
Ma, vediamo cosa recita esplicitamente il preambolo “universalista” della Costituzione?
“Consapevoli che l’Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti, giunti in ondate successive fin dagli albori (sic!) dell’umanità, vi hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell’umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione.” (2)
Come abbiamo su detto, non si parla di razza o di una sola etnia, ma, secondo le nuove linee dell’ideologia dominante con ambizioni di scienza, solo di abitanti giunti in ondate successive (quindi anche appartenenti a diverse etnie e provenienti da altri continenti). Nondimeno, qui, in Europa e solo in Europa, “spazio privilegiato” –come si specifica sempre nello stesso preambolo- non solo si dà un’identità e un destino comune, ma si danno anche i valori indicati nel testo (di cui ci si vanta con orgoglio).
Qui rispondiamo subito a due domande. A)-Se non è più la razza (magari proveniente anche da fuori) ad essere determinante, cosa ha determinato questa identità europea che il preambolo giudica progressiva con evidente allusione ad altre identità regressive? B)-E’ vero che fin dagli albori era predestinato che i popoli insediatisi in Europa arrivassero alla modernità di cui si parla ovvero, e forse ancor più significativo, che l’Europa fosse lo “spazio privilegiato” (rispetto a tutti gli altri evidentemente) per piantare e far crescere, secondo una ferrea logica di determinismo (culturale e/o ambientale), i semi del progresso e della modernità?
In risposta alla prima domanda, una volta e più o meno fino all’Ottocento si davano prevalentemente due risposte:
-l’Europa è stata creata da dio, con il suo clima a quattro stagioni e a pioggia alternata, con le valli e i fiumi, le numerose insenature sui mari, la sua fauna e la sua flora addomesticabile, per favorire chi l’abitasse perché meritevole per le diverse ragioni addotte dalle diverse dottrine religiose e relative eresie, condannando altri popoli ad abitare in ambienti ostili;
-una particolare razza, proveniente da un sito misterioso, sia pure migrando per qualche tempo, conteneva –per scelta di dio o per natura- caratteri superiori, manifestatisi subito nel dinamismo greco-classico, e quindi ha saputo modificare anche l’ambiente.
Successivamente, essendo dio e la razza messi un po’ da parte e/o utilizzabili solo nei retropensieri, si è fatto prima ricorso alla superiore cultura, ma, rinviando anche questo fattore alla superiorità razziale (vedi le aporie di Weber), ci si è concentrati sull’ambiente naturale, cioè su un fattore capace di fornire riscontri obiettivi, “materiali” e quindi verosimiglianza scientifica. L’ambiente semi-arido dell’Asia o dell’Egitto, nel quale si riversavano i primi abitanti della terra allora senza difesa nei climi freddi, rendeva necessario il controllo, con imponenti opere, delle acque su grande scala (del Nilo, del fiume Azzurro, Giallo, del Gangi) e quindi un grande apparato statale: ciò favoriva comunità di villaggi senza classi, e quindi senza dinamismo e capacità di contrasto del potere, e un accentuato dispotismo che si avvaleva di spietati burocrati o mandarini con al vertice un indiscusso imperatore o faraone. In breve, questo ambiente favoriva la stagnazione e una cultura fideistica e tradizionalistica che non dava alcun valore alla vita individuale, al miglioramento, al mutamento, al progresso, alla democrazia, alla scienza razionale. Viceversa, l’ambiente europeo (occidentale), così come sopra indicato, favoriva l’esatto contrario e quindi alla fine la sua superiorità.
Si badi bene: sia le prime che le seconde risposte incominciarono ad essere accennate a seguito della conquista dell’America del 1492 e poi sviluppate a partire dall’Illuminismo in poi. Anche prima certamente esistevano culture della superiorità. Per i greci erano barbari i persiani. Per i romani tutti quelli che vivevano fuori dell’Impero. Per i cinesi e per gli islamici eravamo noi i barbari. Ma queste precedenti culture non solo erano episodiche e non elaborate, ma, non dovendo giustificare enormi differenze tra centri e periferie, erano anche molto attenuate. A tal proposito, si ricorderanno pure gli studenti –senza essere specialisti- che poteva diventare schiavo, a causa di debiti anche un uomo libero, che lo schiavo poteva diventare libero, che i “barbari greci” furono assorbiti dai romani, che quest’ultimi si lasciarono conquistare dalla cultura dei primi, che i cinesi conquistati da vari popoli conquistavano questi alla loro cultura, che gli arabi conquistando altri popoli spostavano perfino le loro capitali fuori dalla penisola di partenza: la loro massima fioritura la mostrarono nella più lontana periferia quale era l’Andalusia. Dante Alighieri, cioè il prototipo dell’italianità, era largamente influenzato dai poeti islamici, che evidentemente non considerava incivili. Se si leggono i resoconti degli ambasciatori e dei viaggiatori dell’epoca premoderna, difficilmente si coglierà che essi, nelle descrizioni dei personaggi incontrati, mettevano in rilievo il colore della pelle: essere nero o essere bianco era altrettanto poco importante dell’essere oggi in Italia biondo o castano di capelli.
Incominciarono ad esser abbozzate dopo il 1492 e poi dilagarono in coincidenza con gli assalti coloniali all’Africa e all’Asia, perché dovevano giustificare il crescente divario che veniva a determinarsi per la prima volta nella storia tra le diverse aree e soprattutto tra le aree dei conquistatori e quelle dei conquistati. Per la prima volta, un Impero, invece di allargare e creare un diritto (lo ius gentium), una cultura e un sistema economico/sociale per tutto il territorio su cui andava ad esercitarsi, provocava sistematicamente e incessantemente la differenza., per di più accentuandola sempre di più. E se è vero che tutti i conquistatori avevano sempre operato saccheggi e distruzione a danno dei vinti, per la prima volta i conquistatori della moderna Europa innalzavano il saccheggio a metodo permanente di governo. I romani conquistavano i “barbari” che diventavano cittadini dell’Impero, gli infedeli diventavano musulmani, Cortes invece sterminava animali senza anima, poi la Chiesa legittimava il massacro di uomini posseduti dal demonio, incurante perfino delle prediche di monsignor Bartolomé de Las Casas sulla missione di rendere tutti gli esseri umani uguali…ai cristiani europei.
Infine, anche se non in ordine strettamente cronologico, si arrivò alle teorie delle determinazioni ambientali per giustificare il colonialismo di sfruttamento. Dall’Europa “spazio privilegiato”, in ragione dell’ambiente, è nato il progresso e la civiltà; nelle altre terre ci sono le materie prime e abbondanza di manodopera; dall’Europa si diffonde il progresso, gli altri continenti, in cambio ci devono cedere materie prime, prodotti agricoli e manodopera “a buon mercato”. Non c’è altro scambio, perché gli altri continenti non hanno progresso da offrirci, devono anzi ringraziarci per avere gettato il nostro solvente coloniale nelle loro acque stagnanti.
Con il progredire delle ricerche e delle conoscenze storiche, queste teorie sono incappate in parecchi problemi. Oggi tutti sanno che, stante le stesse differenze ambientali, già nel 2000 avanti Cristo, la Cina e l’India erano di gran lunga più avanzate dell’Europa e anche di quella parte ritenuta la culla del dinamismo che fu la Grecia.
Come mai il dispotismo orientale su comunità stagnanti e senza classi consentiva un maggiore sviluppo tecnologico, una raffinata elaborazione artistica, filosofica, culturale e scientifica e perfino un certo libero commercio? E come spiegare che quell’apparato istituzionale, definito dispotico ma comunque riconosciuto molto progredito e perfino capace di essere “l’imprenditore generale” nella costruzione di opere idrauliche, di canali e di una sviluppata rete stradale, si alimentava incessantemente su una società presunta più “povera” di quella europea? Di fronte a queste difficoltà, l’ideologia borghese ha dovuto di nuovo fare un passo indietro: continua a dichiarare, per non cadere in patente contraddizione con il suo scientismo e il suo laicismo, che l’ambiente naturale è determinante, ma dovendo aggiungere che lo può essere anche alla lunga distanza (all’inizio ti svantaggia, ma proprio perché ti svantaggia ti costringe ad essere più attivo e intelligente), ha dovuto ricorrentemente ripiegare implicitamente sulla specificità culturale preesistente all’ambiente o acquisita misteriosamente, come seconda natura, in un qualche precedente e mai bene identificato ambiente. In fondo, è stato sempre più difficile poter credere alla “astuzia della ragione” che avrebbe avvantaggiato inizialmente la Cina per farla poi cadere in letargo, e svantaggiato l’Europa per stimolarla al grande balzo finale, dopo aver detto l’esatto contrario.
Tanto più ha dovuto ripiegare l’ideologia borghese, quanto più è stato ampiamente dimostrato che anche in Asia e in Africa vi sono molto ambienti naturali simili a quelli europei, con alternanze o senza alternanze climatiche, con umidità e senza, con coste dentellate o meno, con o senza barriere montuose, con o senza possibilità di facili spostamenti in latitudine o longitudine. Per dirla in breve, non è vero affatto che la gran parte della Cina ha un ambiente semiarido: in Cina piove, eccome!
Gli europei dunque, se non possono vantare una natura più favorevole, avevano, pur in tutto il lunghissimo periodo del loro svantaggio tecnologico e scientifico (quando in pratica erano periferia del mondo), la cultura dinamica. Da dove deriva questa cultura, se è almeno poco probabile che derivi dall’ambiente, è di nuovo diventato un mistero laico. Giustamente la Chiesa continua a dire: te lo spiego io. E tra le pieghe lo vuole spiegare anche il razzista “biologico”. Non a caso, aggiungiamo noi, le tre correnti di pensiero finiscono per collaborare allo stesso scopo. Come si può notare con qualche attenzione, anche il laico, che non parla più di dio e di razza, non ha poi fatto quel passo avanti, sia pure insufficiente, che altri vogliono ostinatamente vedere: quando la determinazione ambientale non gli da ragione, deve ricorrere di nuovo alla determinazione dell’identità culturale.
Alla seconda domanda, rispondiamo (e in parte l’abbiamo già accennato) che non è vero che fino agli albori dell’umanità c’era in Europa una maggiore propensione al dinamismo e soprattutto non è vero che tra gli accadimenti degli albori e quelli successivi abbia funzionato il succitato determinismo culturale dentro una sequenza ascendente di stadi evolutivi. Naturalmente siamo consapevoli che è difficile fare confronti su argomenti così sfuggenti e impalpabili o con diversi significati semantici. E’ però quanto mai arduo dimostrare che la cultura confuciana o quella arabo/andalusa fosse più tradizionalista, più fideistica, più patriarcale, di quella romana o della Chiesa medievale (se si astrae ovviamente da ciò che viene enfatizzato da lavori sofisticatissimi che –anche per ragioni editoriali- devono stupire il pubblico a tutti i costi). Certo, con molta buona volontà, possiamo leggere in Sant’Agostino i primi germi dell’Illuminismo e in Cristo il primo abbozzo del marxismo scientifico, ma allora cosa dovremmo dire della tecnica bancaria indiana, della matematica degli arabi, di Averroè e di Avicenna, di Ibn Khaldun? Con molto meno volontà potremmo vedervi già Einstein: basta mobilitare le imponenti coorti di intellettuali, specializzate nell’enfasi del dettaglio, per ricostruire la ultramillenaria filogenesi di un’altra superiore identità.
Si dice anche che la manifestazione più concreta del nostro maggiore dinamismo, pur compresso per secoli, fu rappresentata dalla presenza nella nostra area dei primi liberi mercanti (fenici e greci soprattutto) e anche di forme, sia pure circoscritte, di protocapitalismo e protosalariato e poi durante il medioevo delle prime vere e proprie città che si sottraevano a qualsiasi controllo dispotico per via delle loro attività verso l’esterno, soprattutto portuali. Anche in questa direzione le cose si sono chiarite. Un quadro più completo ci ha dimostrato che i commercianti orientali erano più diffusi e più attivi di quelli occidentali; le città portuali dedite ad attività verso l’esterno punteggiavano anche l’Oriente ed erano abbastanza fiorenti: i loro navigatori non sono arrivati per primi in America, non già –come si favoleggia- per mancanza di navi adatte o per mancanza di spirito avventuroso; essi si trovavano semplicemente, nei casi migliori, più lontani, rispetto alle Canarie, dall’America di 3000 miglia, con un oceano da attraversare (il Pacifico) molto più pericoloso e imprevedibile dell’Atlantico(3).
Peraltro, come spiega Dussel, ai cinesi non interessava l’America. Non già per mancanza di iniziativa, dovuta al soffocante dispotismo, o perché le loro strutture interne non avrebbero potuto mettere a valore le sue ricchezze, ma perché essi erano il centro del mondo, insieme all’India. Spiegazione questa molto plausibile, se si parte da una certezza: come già Marco Polo, era Colombo che voleva e aveva interesse ad andare in Cina anche per scavalcare il monopolio dell’intermediazione costituito dall’Islam (4).
Quanto al determinismo culturale nella successione degli eventi: dalla Grecia a Roma, da Roma alle città medievali, dalle città medievali si scatena una grande lotta di classe con la borghesia che trionfa, etcetera.
Innanzitutto la Grecia non evolve, ma soccombe all’Impero romano. Si obietta che essa ha trasmesso la sua superiorità, è però alquanto curioso che nel corso dei secoli se ne sia privata a tal punto da essere ridotta all’area più povera dell’Europa. Se il fattore culturale fosse decisivo –come si pretende- dovrebbero i Greci moderni maledire Socrate per essere oggi relegati tra i figli dell’Europa Minore…o consolarsi per una prossima resurrezione quando l’ambiente lo ri-permetterà? L’Impero romano pure non evolve e addirittura imputridisce e (ancora ironia della Storia?) le sue acque stagnanti vengono spazzate via dai barbari. Qualcuno sostiene ostinatamente che i barbari erano comunque europei che con il loro spiccato individualismo hanno rivitalizzato la civiltà del continente. Sia pure per il “rivitalizzato”…nonostante il poco esaltante medioevo del Nord Europa a confronto con la “non disprezzabile” civiltà islamica; bisogna però ricordarsi che tra i barbari molti venivano da zone non privilegiate e prima di rivitalizzare Roma non ebbero il tempo di essere graziati dal loro magico ambiente naturale. Più che l’aratro pesante e il collare per gli animali da traino sproloquiati come esclusivo ingegno dei medievali anglossassoni da Lynn White (…ed esistenti in India già nel IV secolo a.c.), dovettero aspettare le volgari patate americane per rendere più produttivi i loro terreni (5).
In tali presupposti, prima della conquista dell’America, l’Europa era ancora una periferia o al più si trovava nelle stesse condizioni degli Imperi orientali e nordafricani. Il che non significa che non aveva in sé le potenzialità (come indicate da Marx) di balzare al modo di produzione capitalistico e alla modernità. Significa solo che queste possibilità erano presenti anche in India, in Cina e nell’Islam ovvero che non è affatto vero –come dichiarerà Marx nei suoi tardi studi sulla Russia- che le società meno individualiste erano di ostacolo al mutamento e al miglioramento (6).
Ma, allora cosa determinò il grande balzo europeo? In che consiste quel quark che comunque ha dato all’Europa la sua indiscussa superiorità? Max Weber lo individua nella sua specificità culturale (in particolare la riforma protestante ne sarebbe stata una manifestazione), ma, a parte i suoi errori storiografici, il preteso razionalismo europeo cade in una patente contraddizione: egli infatti non riesce a raccontare dove/come/quando/perché sarebbe saltata fuori questa superiore specificità culturale. Come tutti gli studiosi di questa scuola, o deve retrodatare sempre di più l’origine di questa specificità e collocarla in un luogo sempre più remoto e nebuloso o contraddittoriamente deve collocarla in una inspiegabile accelerazione dell’ultima ora, per evitare di cadere esplicitamente nella teoria del razzismo biologico. Ma anche se questa origine è collocata sul mitico Tibet in un tempo inafferrabile, non si riuscirà mai a spiegare “razionalmente” perché un particolare raggruppamento umano abbia prima raggiunto una specifica superiorità culturale in un ambiente ostile e poi l’abbia conservata attraverso lo spazio e il tempo per farla finalmente emergere con la riforma protestante.
In polemica con Weber, alcuni studiosi oppongono superiorità tecnologica o ambientale, ma, come abbiamo sopra detto, l’esame storico rende quanto meno fortemente inattendibile anche questa superiorità. Soprattutto Karl A. Wittfogel, il più decantato sostenitore della nostra superiorità climatica/ambientale, ha dato prova di pessima scienza geografica (7); né ci sembra abbia fatto meglio di lui Jahred Diamond (8), sebbene avvertito su tutte le sciocchezze del determinismo geografico/climatico.
Siamo stati invece convinti dalle argomentazioni, più empiricamente fondate, che individuano il grande balzo europeo nell’occasione –che altri non avevano- di avere più a portata di mano l’America: fermo restando lo sviluppo delle contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione in Europa. Il saccheggio di quel continente fornì ai mercanti europei sulla lunga distanza la possibilità (cioè l’oro e l’argento, per non parlare poi delle piantagioni) di diventare improvvisamente superiori a quelli orientali e nordafricani e nel contempo di vincere la loro battaglia contro le vecchie classi così trasformando le masse contadine in diseredati suscettibili di essere assorbiti come proletari. Per dirla con il compianto Johannes Agnoli, abbiamo anche in questa vicenda storica “la casualità che si inserisce sulla causalità” (9).
In altri termini, è fondato quanto sostiene Marx che il capitalismo europeo ebbe a risultare dalla combinazione del mercato mondiale e dalle dinamiche già in corso nel nostro continente prima del 1492. Marx ebbe a sottolineare in tale schema anche l’importanza del saccheggio e del lavoro schiavizzato in America (10). Oggi possiamo aggiungere con maggiori dati che quel saccheggio e quel supersfruttamento furono decisivi per il vantaggio europeo. E non fu meno saccheggio e supersfruttamento ai fini della prima accumulazione capitalistica per il fatto che a produrlo furono schiavi e servi: se vogliamo dirla tutta, è il caso di ricordare a qualche formalista che la nuova schiavitù fu costretta a lavorare nelle miniere e nelle piantagioni con le tecniche più moderne dell’epoca. In questo breve spazio, un solo esempio renderà l’idea della straordinaria importanza di quel supersfruttamento: nell’anno 1600 dal solo Brasile fu esportato una quantità di zucchero (da canna) pari ad un valore di 2 milioni di sterline; in Inghilterra (che di lì a poco sarebbe diventata la potenza egemone mondiale) il valore complessivo di tutte le esportazioni era pari a quella cifra (11).
D’altra parte, il grande balzo capitalistico non avviene neppure dove l’Europa era più all’avanguardia e dove c’erano le più belle e le più forti città (con i suoi grandi mercanti, banchieri e “moderna” imprenditoria cantieristica), cioè nell’Europa mediterranea. Palermo che era all’epoca di Federico II la più bella città, la più colta e la più organizzata d’Europa segnò via via il passo. Anche Genova e Venezia dovettero cedere il testimone ai Paesi Bassi. La prima rivoluzione borghese scoppia e vince in Inghilterra sotto l’egida non già della cultura moderna ma della religione protestante. E’ davvero strano per gli apologeti del “culturismo” e simili che il capitalismo non dilaghi prima nel sud Europa, che anzi ristagna e regredisce. Certo, lo spiegano con il fatto che i grandi traffici si erano spostati dal Mediterraneo all’Atlantico, ma aggiungono questo evento–che è gigantesco- è solo un dettaglio.
ALTALENA TRA UNIVERSALISMO ASTRATTO E RAZZISMO
A che serve l‘ideologia differenzialista, in ultima analisi sempre razzista, che comunque non può rinunciare a proclamare valori universali? Spesso, forse anche per ragioni di facile comunicazione, noi denunciamo il carattere ipocrita dei valori universali in quanto proclamati dalla borghesia. Oppure consideriamo tali valori come un cedimento (o un passo in avanti) che la borghesia è costretta a fare. In parte è anche vero che l’universalismo della borghesia è uno pseudo-universalismo, ma l’hard core della concezione borghese del mondo è composta da due valori inscindibilmente contraddittori, in sintonia con la dinamica del capitalismo reale: quello dell’universalismo convive con il particolarismo e viceversa. Marx definì astratto questo universalismo.
Se ciò è vero –come cercheremo di ri-dimostrare-, ci sembra ingenuo e/o sbagliato, se non peggio, dedurre la positività, sia pure parziale, di una Costituzione dalla immancabile dose di universalismo in essa presente.
In che cosa consiste siffatto universalismo, di cui la battaglia comunista dovrebbe appropriarsi per portarlo a tutti i suoi effetti? E’ stato spiegato che esso è il risultato di una propensione della specie umana a riunificarsi, già raccolta parzialmente dalle grandi religioni monoteistiche ed espressa con maggiore compiutezza dall’Illuminismo moderno, secondo il quale nasciamo tutti uguali, quindi abbiamo tutti uguali prerogative naturali e non privilegi meritati. Insomma, dai tempo al tempo.
E’ pure innegabile, però, che l’universalismo come dottrina politica è diventato dominante con l’affermarsi del capitalismo, per quanto ai “culturalisti” le coincidenze “materiali” non possano piacere. E’ diventato dominante con un sistema basato sull’accumulazione incessante del capitale, che deve ridurre tutto a merce e deve espandersi fino all’angolo più remoto del mondo. Cosa c’entri tutto ciò con l’universalismo lo chiarisce bene ancora una volta Wallerstein:
“Tutto ciò che impedisce ai beni, al capitale e alla forza lavoro di essere merci vendibili ne restringe il flusso. Utilizzare criteri di valutazione dei beni, del capitale e della forza lavoro diversi dal loro valore di mercato e dare priorità a queste altre valutazioni li rende non commerciabili, o perlomeno meno commerciabili. Quindi, per forza di cose, i particolarismi di qualsiasi tipo sono considerati incompatibili con la logica del sistema capitalistico, o perlomeno un ostacolo al suo funzionamento ottimale. Ne consegue che all’interno di un sistema capitalistico è un imperativo affermare e mettere in atto un’ideologia universalistica come un elemento essenziale dell’incessante ricerca di accumulazione di capitale. E’ per questo che parliamo delle relazioni sociali capitalistiche come di un ‘solvente universale’ che lavora per ridurre tutto ad una forma omogenea di merce la cui unica misura è il denaro.” (12)
Tuttavia, l’universalismo borghese ha dovuto, anche nelle sue espressioni più alte, giustificare una differenziata distribuzione di ruoli e di benessere, elaborando all’uopo ideologie meritocratiche ed efficientistiche e rappresentare il sopravvento dell’Europa sugli altri continenti come provvisorio male necessario per diffondere a tutti il più alto sviluppo conseguito.
Queste giustificazioni hanno però mostrato tutta la loro insufficienza di fronte ad una crescente polarizzazione (tra Europa e il resto del mondo) che andava di gran lunga oltre le differenze di merito e quelle dovute a semplici ritardi. Si abbandona dunque l’universalismo, visto che abissali differenze e vistosi privilegi (sociali e spaziali) lo contraddicono e lo contraddicono sempre di più? Altri sistemi hanno funzionato sui particolarismi e sui privilegi apertamente dichiarati: perché non farlo anche con il capitalismo?
Non è una strada praticabile. Anzi, più si radicalizza il razzismo, in tutte le sue variegate e flessibili forme, più si manifesta la tendenza all’universalismo, e viceversa. Paradossalmente, il razzismo, oggi nella sua veste di differenzialismo culturale, è il rimedio dell’universalismo.
La ragione –va ripetuto- può essere anche chiarita con la differenza fondamentale tra sistemi anteriori e capitalismo. Anche nei sistemi anteriori c’era la xenofobia, ma era appunto prevalentemente xenofobia (espulsiva e/o distruttiva dell’altro) e solo in parte essa assumeva connotati di superiorità razziale funzionale allo sfruttamento. Quei sistemi in gran parte rifiutavano gli “altri” e in parte li assoggettavano nella schiavitù come bottino di guerra, perché si basavano (prevalentemente) sull’autosufficienza e sul consumo come fine, non sulla incessante ed immanente produzione/espansione: quando si espandevano, ciò avveniva per l’aumento della loro popolazione e per lo scarseggiare delle risorse.
Il capitalismo in incessante espansione “richiede tutta la forza lavoro di cui può disporre, dato che è questa che produce i beni dai quali viene estratto il capitale destinato all’accumulazione. L’espulsione dal sistema è allora insensata” (13). La xenofobia è allora insensata. Gli spagnoli conquistatori non hanno paura, non odiano gli indios; Theodore Roosevelt non ha paura degli “indiani”; i Cavour non hanno paura dei calabresi. Tutti devono essere inclusi, e a volte perfino il massacro è funzionale all’inclusione. Si noterà allora che spesso l’alta borghesia e gli “industriali” chiedono l’apertura delle frontiere in polemica con i razzisti “plebei”, si battono perché anche quelli che vengono considerati barbari siano inclusi nella sfera umana. Sbaglieremmo però a prevedere che l’universalità prende il sopravvento o, il che è lo stesso, che il capitalismo assimili tutto il mondo con repliche incessanti di quanto è avvenuto in Inghilterra, eliminando per di più le frontiere, le nazioni, le “razze”, in una sorta di melting pot all’americana. Quest’ultimo fenomeno riguarda una parentesi (del capitalismo ancora in sviluppo a fine ottocento/inizio novecento) e comunque riguarda solo i migranti provenienti dall’Europa. Né ci si faccia abbagliare dal miscuglio esibito dal neo-populismo di Bush, che avviene solo ai vertici con pallidissimi simulacri (setacciati a dovere) di neri, latinos e asiatici; così come non ci abbagliò il 18 brumaio di Napoleone III che setacciò la nuova sbirraglia dai bassifondi e lusingò le plebi della campagna. Risulta invece sempre più drammaticamente evidente che, “se si vuole massimizzare l’accumulazione del capitale, è necessario contemporaneamente minimizzare i costi di produzione (di conseguenza i costi della forza lavoro) e minimizzare i costi del disordine politico (di conseguenza minimizzare –e non eliminare, perché non è possibile- le proteste della forza lavoro). Il razzismo è la formula magica che concilia questi obiettivi”. (14)
In altri termini, il razzismo moderno non è una contraddizione dell’universalismo astratto borghese, è una stampella che sopperisce alla sua fragilità. Pur servendosi del randello delle espulsioni (l’apparente xenofobia) e della soppressione fisica sotto la pressione del razzismo biologico, esso mira ad includere e a mantenere in vita l’oggetto delle sue cure. Il capitalismo reale (che non è economia pura) ha bisogno di segmenti di forza lavoro fortemente differenziati, non solo per indebolire con divisioni i suoi oppositori, ma anche per contrastare la caduta dei saggi di profitto; per lo stesso motivo ha bisogno di aree dove appropriarsi di forti quote di plusvalore attraverso l’uso di forza lavoro (anche in conto terzi) a salari irrisori e l’acquisto di materie prime a prezzi stracciati. Il Mexico, pur inserito nel mercato comune del Nord America, non è diventato il 52° stato “americano”: le sue frontiere non esistono -è vero- per quelli e per tutto ciò che viene dal Nord, continuano però pervicacemente ad esistere, rafforzate, per i suoi diseredati che vorrebbero andare a Nord..
Potremmo anche dire che è paradossalmente il razzismo a diventare universale. Stemperando in gran parte la sua base biologica, peraltro poco persuasiva in molti ambienti e soprattutto tra i critici di sinistra del capitalismo, arriva a manifestarsi anche laddove non può utilizzare le tradizionali razze (neri, gialli, rossi, olivastri). E’ evidente il limite rappresentato dalle razze biologiche, soprattutto in quelle aree del capitalismo dove siamo quasi tutti bianchi. Il razzismo, allentando i suoi legami con la xenofobia, ha così incominciato a combinare “esigenze di continuità col passato (genetico e/o sociale) con una flessibilità verso il presente. La flessibilità di un legame con le frontiere del passato, combinato con la continua revisione di queste ultime nel presente, assume la forma della creazione e continua ri-creazione di gruppi e comunità razziali e/o etno-nazional-religiosi. Sono sempre presenti e sempre ordinati gerarchicamente, ma mai esattamente gli stessi. Alcuni gruppi possono essere mobili nel sistema di stratificazione; altri possono sparire o combinarsi con altri; mentre altri ancora si dividono e ne nascono nuovi. Ma esistono sempre i ‘negri’. Se non ci sono neri o sono troppo pochi per svolgere la parte, si possono inventare i ‘negri bianchi’.” (15)
Il capitalismo, dunque, come ha ripristinato la schiavitù in America subito dopo la sua conquista, come l’ha tenuta in vita nel Sud degli Stati Uniti fino al 1866 anche per quello che fu il motore della rivoluzione industriale (industria tessile inglese), si serve ancora oggi di circa 250 milioni di lavoratori di fatto schiavizzati in aggiunta ai lavoratori “liberi” razzizzati e sottopagati. All’uopo, pur ammettendo che una parte di questi trabocchi nel Nord per essere segregata nei suoi ghetti, si serve ancora delle frontiere per un duplice ed evidentissimo scopo: la difficoltà dell’attraversamento della frontiera indebolisce a dismisura la forza di contrattazione di questi lavoratori nel Nord; la sovrabbondanza di sterminate masse di diseredati costretta a restare nel Sud determina livelli salariali al di sotto delle necessità di sussistenza. Sicché è vero che il Terzo Mondo lo troviamo nel Primo Mondo e il Primo Mondo nel Terzo Mondo, ma in proporzioni assolutamente incommensurabili. Per dirla con una battuta, neppure a Napoli abbiamo mai saputo che un “un diseredato” del rione Scampia, per non parlare di un laureato disoccupato, abbia pagato alcune migliaia di dollari per andare a cercare clandestinamente un salario ad Algeri. Non lo farebbe neppure gratis e a bordo di una confortevole nave di crociera.
Tornando ai nuovi schiavi, ai nuovi servi e quant’altro, bisogna solo fare due altre precisazioni: che non si è trattato (in America) e non si tratta di lavoratori adibiti alla produzione per il consumo, ma di produttori di plusvalore; che per quanto la loro presenza viene spesso limitata ed eliminata (sia dalla pressione competitiva di settori capitalistici, sia dalle rivolte “popolari”) non solo riemerge incessantemente, ma ha bisogno di un mondo anche segmentato spazialmente. Un mondo completamente liscio, con un’estrema mobilità della forza lavoro, non sembra corrispondere alle esigenze del capitalismo reale. In tal senso, neppure la patria dell’Illuminismo e dell’Umanesimo sembra potersi sbarazzare delle frontiere, essendole anzi più congeniale erigere un’altra grande Fortezza.
Wallerstein ha ragione di definire il razzismo moderno come una dottrina antiuniversalista. E’ però anche vero –come egli stesso constata- che si combina non solo con l’universalismo “vero” del capitale, ma trova accoglienza anche nella più diffusa coscienza dei progressisti, perfino di quelli che si ispirano al marxismo.
Intanto, la sua flessibilità e la sua mobilità danno l’impressione a quelli che l’avversano (da un punto di vista solo antiliberista) di poter essere debellato: i neri, capeggiati dai Tousaint l’Ouverture hanno conquistato prima la libertà salariale e poi i diritti civili negli Usa, gli ebrei non sono più perseguitati, i giapponesi oggi sono considerati civili come noi.
Ciò che però più conta è il dispositivo ideologico su cui si fonda l’universalismo progressista, anche non direttamente motivato dall’esigenza di mercificazione incessante del capitale, professato in buona fede perfino negli ambienti di sinistra. Il capitalismo è comunque e sempre progressivo, in sé o come inferno necessario per salire al Comunismo. Come sopra cennavamo, crede e fa credere –siffatto universalismo- alla possibilità (capitalistica) di un mondiale melting pot.
Da qui nasceva anche l’aspettativa che il capitalismo europeo sarebbe stato replicato in tutto il mondo, con la precisazione che le miserie, dovute all’arretratezza, delle aree “esotiche” altro non erano che la stessa fase sopportata dall’Europa durante il periodo dell’accumulazione primitiva e in alcuni casi della prima disumana industrializzazione. Le vicende storiche reali, oltre che “l’invettiva” leniniana, hanno smentito questa aspettativa: il capitalismo non “matura”. La miseria, anche assoluta, di gran parte del mondo, che si credeva ottimisticamente simile alla nostra accumulazione della fase mercantile/usuraia, si è rivelata sempre di più un circolo vizioso imposto dal centro capitalistico sviluppato.
Ma pur inchiodato dall’evidenza, il predetto universalismo si ricorda solo ogni tanto che l’Europa non può offrirsi (per quanto abbia da vantare alcuni progressi) come modello complessivo e completo al resto del mondo, perché intanto è stata teatro delle peggiori guerre e dei peggiori razzismi interni (non parliamo solo dell’antisemitismo nazista). Inoltre, ha massacrato e continua a massacrare nel resto del mondo non solo i reazionari, riottosi alla modernità, ma anche quelli che si azzardano a volere essere come noi…senza il nostro permesso. Gli iracheni non devono utilizzare il loro petrolio, come prima Toussaint l’Ouverture non doveva invocare per San Domingo (l’attuale Haiti) “liberté, fraternité, egualité”.
Questo universalismo ovviamente non sostiene che la discriminazione sui migranti è comprensibile; tuttavia vede come un passo avanti che il processo materiale e formale dell’Unione europea sottoscrive una parte dei suoi valori e che gli industriali del Nord chiedono più immigrati e più regolarizzazioni. Viva Montezemolo, abbasso Bossi!
A suoi sostenitori sfugge che gli imprenditori e l’intero sistema non si oppongono al razzismo, ma al fatto che un accentuato razzismo “popolare”, con le sue angosce del penultimo della classe, con la sua irrazionale radicalizzazione, faccia perdere il suo obiettivo primario, che è quello di addomesticare la forza lavoro, attraverso la sua razzizzazione, e non quello di espellerla completamente o di sopprimerla. A loro sfugge che “ci troviamo di fronte ad un sistema che opera attraverso una giusta dose di universalismo e di razzismo-sessismo. Sono costanti gli sforzi per non spingere ‘troppo lontano’ l’uno e l’altro termine di questa equazione. Ne risulta un’andatura a zig-zag che potrebbe andare avanti per sempre se non vi fosse un problema…” (16). Il problema non sono certo i nostri progressisti che cercano di bilanciare sempre uno dei due pesi con la convinzione di temperare gli eccessi del capitalismo, mentre in effetti essi stanno cercando solo di moderare una sua spinta all’autodistruzione.
Per noi invece, “non si tratta di sapere quale dei due termini dell’antinomia finirà col prevalere, dal momento che sono intimamente e concettualmente legati tra di loro. Si tratta di stabilire, piuttosto, se e come” ci batteremo per far emergere “sistemi nuovi che non utilizzeranno né l’ideologia dell’universalismo (astratto) né quella del razzismo sessismo” (17). Si tratta di far saltare l’altalena.
NOTE:
1) Alberto Burgio nella “Guerra delle razze”, che pure va apprezzato per i suoi contributi alla lotta contro il razzismo;
2) Preambolo della Costituzione europea;
3) James M. Blaut, in “1492 The Debate on Colonialism, Eurocentrism, and History“.
4) Enrique Dussel ne “il sistema mondo e l’etica della liberazione“
5) Lynn White Jr., in “Medieval Technology and Social Change”
6) Marx in risposta a Vera Zasulic
7) Karl A. Wittfogel ne “Il dispotismo orientale”
8) Jahred Diamond in “Armi, acciaio e malattie”
9) Johannes Agnoli ne “La trasformazione della democrazia”
10) Marx nel I libro del Capitale
11) James M. Blaut in The Colonizer’s model of the world
12) E. Wallerstein/E. Balibar in “Razza Nazione Classe”, cap. II “Universalismo contro razzismo e sessismo: Le tensioni ideologiche del capitalismo;
13) ibidem;
14) ibidem;
15) ibidem;
16) ibidem;
17) ibidem.
* Con questo termine va inteso oggi uno spazio più ampio e per certi versi più ristretto di quello dell’attuale Europa. Non comprende l’Europa orientale e balcanica (l’area slava) e comprende invece gli insediamenti europei negli Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, forse nel Sud Africa.
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