">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Stato e istituzioni    (Visualizza la Mappa del sito )

Auguri

Auguri

(30 Giugno 2010) Enzo Apicella
Giorgio Napolitano compie 85 anni... e continua a firmare le leggi di Berlusconi

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Stato e istituzioni)

BICAMERALISMO E INCULTURA ISTITUZIONALE

(5 Marzo 2014)

I protagonisti dell’accordo raggiunto ieri tra PD e Forza Italia per la modifica della legge elettorale e il superamento del bicameralismo paritario hanno raggiunto il massimo possibile della pur già presente “incultura istituzionale”.
Non tanto e non solo per le questioni di carattere tecnico riguardanti l’eventualità di un’elezione politica da svolgersi con due sistemi elettorali difformi tra i due rami del parlamento (questo fatto in verità è sempre avvenuto, come si vedrà meglio più avanti) ma con modalità ben differenti – in ogni caso – da quelle che si dovrebbero realizzare nell’eventualità in questione.
Soprattutto, però, ed essenzialmente per la giustificazione addotta per questo tipo di scelta: ” intanto il Senato sarà abolito”.
In quale sede, se non quella privata di un accordo politico, è stata decisa l’abolizione del Senato quale camera elettiva?
Chi detiene la disponibilità di quest’atto se non chi siede nei due rami del Parlamento attuando le procedure dell’articolo 138 relativo alle modifiche costituzionali?
Com’è possibile varare una modifica della legge elettorale per un solo ramo del Parlamento valutando che l’altro ramo “sarà abolito”?
Già negli anni scorsi il livello di incultura istituzionale, in ispecie rispetto al tema elettorale, dei nostri legislatori era apparso macroscopico: adesso però si è passato il segno in una maniera molto più evidente rispetto a qualche mese fa, quando si fece in modo che un gruppo di elettori (meno del 10% dell’intero corpo elettorale) cadessero nella trappola di credere di votare il segretario di un partito, non pensando di votare direttamente il nuovo primo ministro (che alla fine ha raccolto circa il 4% di voti dell’intero corpo elettorale).
La democrazia italiana è malata profondamente malata e questo va segnalato senza alcun indugio.
E’ il caso, però, di cogliere l’occasione per risalire alle fonti della costruzione del bicameralismo in Italia, almeno dalla Costituzione del ’48 (in precedenza si ricorderà come il Senato fosse composto da senatori nominati dal Re all’interno di determinate categorie di cittadini).
Tanto per fornire qualche doveroso riferimento storico deve essere ricordato come, in premessa, il bicameralismo sia sorto in Inghilterra attraverso un processo di separazione dell’antico Parlamento, che secondo alcuni sarebbe già avvenuto nel 1332, secondo altri più tardi nel 1377 durante il regno di Riccardo II.
Si formarono una camera “alta”, la camera dei Lord composta di conti, vescovi, baroni e una camera “bassa”, la Camera dei Comuni, composta da rappresentanti delle città, cavalieri, piccola nobiltà.
All’origine del bicameralismo vi era quindi la differenziazione della rappresentanza di classi o ceti sociali diversi e l’idea del “mixed governament”, cioè di un governo bilanciato tra principio aristocratico e principio democratico.
Il monocameralismo in epoca moderna è concettualmente legato al radicalismo democratico della rivoluzione francese, all’idea della sovranità nazionale indivisibile la cui espressione non poteva essere affidata che a un’unica Assemblea.
L’esempio classico del monocameralismo di ispirazione giacobina è la Convenzione del 1793 (anche se è opportuno ricordare che già la costituzione del 1791 prevedeva un’unica Camera, l’Assemblea Nazionale legislativa).
Oggi i parlamenti monocamerali sono più numerosi di quelli bicamerali, che costituiscono un po’ più di un terzo del totale.
Passando all’analisi del “caso italiano” è necessario ricordare che quanto prescritto dalla nostra Costituzione in materia parlamentare rappresenta comunque un’esperienza storica originale che coniuga uno stato unitario (sia pure con un regionalismo che è stato accentuato dalla riforma del 2001), una forma di governo parlamentare (del resto “tradita” più volte negli ultimi anni, al punto che si è formato un corpus di “Costituzione materiale” opposto a quello della “Costituzione formale”) e –appunto – il cosiddetto “bicameralismo paritario”.
All’origine della formazione del bicameralismo italiano in epoca repubblicana si situa comunque il compromesso raggiunto in sede di Assemblea Costituente tra le sinistre che, seguendo la tradizione giacobina espressa da Sieyès, erano per il monocameralismo, e democristiani e partiti laici che volevano mantenere un sistema bicamerale anche se non erano riusciti a trovare un’intesa su che cosa la seconda Camera dovesse rappresentare: le categorie professionali (democristiani e liberali) o gli enti territoriali substatali (la “Camera delle Regioni”, sostenuta dagli altri partiti laici).
In questo modo si pervenne alla soluzione del bicameralismo paritario, differenziato sul piano strutturale dal diverso numero dei componenti le Assemblee, una loro diversa durata (cinque anni per la Camera, sei per il Senato: la durata in carica fu poi omologata a cinque anni con la legge costituzionale n.2/1963), un aggancio del Senati alla rappresentanza del decentramento territoriale attraverso l’elezione “su base regionale”, la previsione di diverse leggi elettorali.
La Camera, infatti, sarebbe stata eletta con sistema proporzionale (ordine del giorno Giolitti); il Senato con il sistema del collegio uninominale (ordine del giorno Nitti). In realtà poi il sistema elettorale del Senato previde un’altissima soglia (65%) per l’elezione diretta nel collegio e di conseguenza il meccanismo elettivo fu, per la stragrande maggioranza dei seggi da assegnare di tipo proporzionale, sia pure come già scritto “su base regionale”.
Il metodo proporzionale di elezione per entrambe le Camere, unito a un sistema di partiti molto connotati ideologicamente e fortemente strutturati produsse così, per una lunga fase, un risultato omogeneo nelle due assemblee, assorbendo anche gli effetti delle altre differenze strutturali.
In questo quadro il bicameralismo produsse, in sostanza, risultati omogenei sul piano legislativo e una funzione del Senato come “camera di riflessione” svolgendo così due compiti assolutamente importanti per il funzionamento dell’intero sistema: quello del completamento del ruolo del Parlamento come sede del dibattito politico di carattere generale (funzione oggi dismessa per via dell’affanno nella ricerca della governabilità comunque) e quindi delle diverse sensibilità politiche presenti nel Paese, evitando altresì gli eccessi di concentrazione del potere in un’unica assemblea (garantendo tra l’altro, attraverso l’applicazione dell’articolo 138 eccessi nei disegni di modifica costituzionale).
Il manifestarsi, fin dalla metà degli anni’80, di una forte crisi del sistema politico imperniato sui partiti produsse i primi tentativi di riforma dell’ordinamento bicamerale.
La Commissione Bozzi (1985) propose un “bicameralismo differenziato” nel senso dell’attribuire ala Camera una prevalenza nella funzione legislativa e al Senato una prevalenza nell’esercizio della funzione di controllo e riservando alle due Camere riunite in Assemblea Nazionale la concessione e la revoca della fiducia.
La Commissione D’Alema (1997: ma qui erano già cambiate le leggi elettorali e si era nella fase della ricerca di definire il sistema politico italiano in senso bipolare) elaborò una variante più complessa di “bicameralismo differenziato”: il Senato era escluso dalla concessione della fiducia al governo, riservata alla Camera, e si caratterizzava come “Camera di garanzia” con partecipazione alla funzione legislativa, dotato di altre attribuzioni proprie ed esclusive e con una funzione di raccordo con le Autonomie territoriali (era prevista , infatti, una sessione speciale del Senato integrato da consiglieri comunali, provinciali e regionali per l’esame di progetti di legge riguardanti gli Enti territoriali)
La riforma costituzionale elaborata dal centrodestra nella XV legislatura, facendosi carico delle due grandi novità intercorse nel frattempo relative all’accentuazione del regionalismo avvenuta attraverso la modifica del titolo V della Costituzione nel 2001 e il mutamento della legge elettorale in senso maggioritario, propose un “Senato federale” escluso dal rapporto fiduciario e con una specializzazione nella legislazione riguardante le competenze delle regioni e degli enti locali.
Il progetto presentava gravi incongruenze sia per quanto riguardava la disciplina della funzione legislativa e la sua ripartizione tra le due camere, sia per altri aspetti: in ogni caso il progetto fu bocciato dal referendum popolare del 25 Giugno 2006.
La situazione del bicameralismo italiano si è poi notevolmente aggravata in seguito all’approvazione della legge n.270 del 2005 che ha cambiato i sistemi elettorali di entrambe le Camere, prevedendo un premio di maggioranza nazionale per la Camera dei Deputati e distinti premi di maggioranza regionali al Senato.
Si è così rotta la simmetria delle leggi elettorali delle due assemblee e la disomogeneità nella formazione delle maggioranze tra un ramo e l’altro del Parlamento ha rappresentato un vero e proprio “tormentone” che ha attraversato la XV, la XVI e la XVII legislatura: poi com’è ben noto chi ha pensato la Corte Costituzionale, nel Dicembre 2013, a dichiarare illegittima la legge in questione.
Si è aperto da lì il varco per la discussione della modifica della legge elettorale: non certo per l’iniziativa estemporanea sfociata nell’accordo Berlusconi/Renzi che minaccia comunque di provocare notevoli disastri prima di tutto riducendo la possibilità degli elettori di esprimersi (cancellate Senato, Province, Circoscrizioni, Europee con lo sbarramento al 4%, Politiche con lo sbarramento all’8%, coalizioni forzate, cancellazione del concetto stesso di rappresentanza politica, limitazione delle possibilità di espressione democratica: tutto questo in sintesi).
Emergono per intero i temi della forma di governo e dell’insieme del sistema della rappresentanza politica che non possono essere affrontati , come sta avvenendo, in maniera pressapochistica pensando soltanto agli interessi di propaganda degli interessanti proponenti (la “Tricamerale” Renzi-Berlusconi – Alfano come ha titolato “Il Manifesto”).
Sarebbe necessario l’avvio di una profonda riflessione che prendesse le mosse da valutazioni di carattere sistemico: purtroppo questa “vorace” classe politica non appare disponibile a discorsi di questo tipo e la tendenza prevalente sembra essere proprio quella di affrontare i nodi della realtà politico – istituzionale con la scimitarra del “taglio della democrazia”.
Semplicemente: è necessario trovare la forza per opporci a questo pericoloso stato di cose.

Franco Astengo

Fonte

Condividi questo articolo su Facebook

Condividi

 

Ultime notizie del dossier «"Terza Repubblica"»

Ultime notizie dell'autore «Franco Astengo»

5216