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Nordest, la crisi non parla cinese

(23 Giugno 2005)

Non pensano di cadere nel ridicolo, anzi fanno la voce grossa, organizzano meeting, marce di protesta fino a Bruxelles. Gli industriali dell'ex mitico Nordest, tessili, calzaturieri con Unindustria al seguito invocano "misure d'emergenza", cioè dazi e protezioni fiscali alle merci provenienti dalla Cina. Vengono compilati elenchi di settori a rischio: apparecchi radiotelevisivi: +49% l'import cinese su base annua; metallurgia +157%; meccanica +51%; cuoio e calzature + 19%; abbigliamento +16%; editoria e stampa +33%. Insomma, l'invasione è in atto e i sistemi produttivi locali della piccola e media impresa variamente associati nei distretti, nei consorzi, nella miriade di zone industriali diffuse tra la Pedecollinare lombarda e la Pedemontana veneta e friulana sono entrati in una pesante crisi.

La lista della cassa integrazione e delle imprese in sofferenza è zeppa di nomi illustri: Safilo, De Longhi e Zanussi, Bassano Grimeca nel Polesine, Pedavena, Fiamm. 15 mila, 30mila, 60mila sono le previsioni che vengono fatte, a seconda delle fonti, dei posti di lavoro in pericolo. A cascata, si ipotizza, cadranno le microimprese dei subfornitori, dei contoterzisti. Non dimentichiamoci che la media dei dipendenti per azienda non supera le 5 unità nel Veneto e le 6 in Lombardia. Il "modello" nordestino delle Pim è entrato in una crisi strutturale. Cresciuto con la velocità del fulmine sfruttando le opportunità della apertura delle frontiere ad est e della svalutazione competitiva della lira negli anni '90, rischia di precipitare altrettanto velocemente. Per ironia della sorte è proprio lo Yen deprezzato e gli investimenti occidentali (italiani compresi) a fare la fortuna del miracolo cinese, indiano, pakistano, vietnamita, indonesiano. Per dei liberisti convinti, come lo sono i signori della Confindustria, e per dei raider dei mercati, come lo sono i piccoli industriali italiani, lamentarsi oggi per la concorrenza è davvero una insopportabile indecenza.

Quando lor signori vanno a vendere telai e macchine da cucire nei "paesi emergenti", cosa credono che ci facciano, ricami e merletti? I calcoli, in altre parole, dovrebbero essere fatti con più precisione, a "partita doppia", seguendo l'intera filiera produttiva e, forse, scopriremo che i luoghi dove si aggiunge più valore alle merci sono ancora in occidente. Ad esempio, i cinesi hanno dichiarato alla Commissione europea impegnata nelle trattative sul tessile che in termini di valore le importazioni di lino e di altri tessuti dall'Italia superano il valore delle esportazioni. Ma anche questo spiega poco.

Franco Bernabé, navigato manager dell'Eni, ora consigliere di amministrazione di società partecipate cinesi, inquadra precisamente la questione: «La Cina non è il Giappone, la Germania, l'Italia che hanno avuto bisogno dei mercati esteri per crescere. Loro il mercato ce l'hanno in casa ed è enorme. Più della metà delle merci esportate dalla Cina sono fatte in outsourcing per multinazionali che si sono installate in Cina ma non sono cinesi. Alle imprese cinesi il mercato occidentale non interessa, è più costoso e più complicato, ha margini più bassi di quello domestico» (il manifesto del 10 giugno). Capito chi è che ci "attacca", ci "invade" e ci "affama", ci fa "concorrenza sleale", pratica il dumping e contraffa i gloriosi marchi della moda italiana? Le imprese occidentali stesse che, passo dopo passo, lungo la Romania, l'Ungheria, la Bielorussia… hanno fatto rotta nel Far East asiatico. Le cause principali della "crisi" dei settori della manifattura rivolta all'esportazione sono i meccanismi di mercato liberisti, voluti dai governi occidentali in seno alle organizzazioni mondiali del commercio.

E' un'operazione politica orchestrata ad arte, in atto da tempo, che ha a che fare non solo con l'economia e l'equità sociale, ma con la stessa democrazia. La campagna anticinese giustifica i raid dei vigili contro le merci contraffatte dei venditori ambulanti africani nei centri turistici, alimenta l'insofferenza contro i lavoratori migranti extracomunitari ormai "inutili" e, quindi, socialmente pericolosi, dà la stura alle ritorsioni antieuropeiste come il ripristino della lira nei mercati ambulanti di Treviso sostenuta dalla Giunta regionale del Veneto. Il percorso di mistificazione è completato; gli operai e i ceti popolari "padani" hanno un falso nemico con cui prendersela e un nemico reale (i loro padroni e padroncini) con cui allearsi. Preoccupa l'afasia della sinistra e dei sindacati stessi. Il tessuto della piccola e media impresa ha fatto emergere una nuova borghesia industriale. Molti di loro se la vedono male, ma anche se sono "oggettivamente" sulla stessa barca dei loro dipendenti, possiedono ben altri e diversi mezzi di salvataggio.

22 giugno 2005

Paolo Cacciari

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