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(4 Aprile 2018)
I protagonisti e signori della geopolitica mediorientale s’incontrano ad Ankara per discutere di presente e futuro, della Siria e non solo. Il passato siriano col mezzo milione di vittime, i tredici milioni di sfollati in gran parte civili, non sembra sfiorare i presidenti Putin, Erdogan, Rohani. I triunviri che decidono cosa fare d’una nazione che l’iniziale conflitto fra ribelli e Asad, e l’ingresso in forze dell’Isis ha trasformato in una carneficina. Come in tutte le guerre. E più di tante guerre non c’è stato finora nessun sentimento d’umanità, di solidarietà non tanto col nemico, ma verso chi restava e resta schiacciato fra le decine di forze che si scontrano su fronti flessibili, con alleanze volubili che hanno visto riunirsi anche chi si collocava su versanti opposti. Oggi una Russia in piena volontà di potenza nel Medio Oriente, dove la politica statunitense degli ultimi anni oggettivamente ambigua, vile e in vari casi autolesionista ha incrementato le già cospicue contraddizioni decennali, è il perno che attrae due contendenti regionali diventati alleati. L’aggressiva Turchia e il vigilante Iran si stringono la mano, perché un laico in odore di islamizzazione interna e internazionale e un chierico, per giunta sciita, dai modi compassati e secolari si ritrovano faccia a faccia a decidere cosa fare di un’antichissima terra. La Siria, nazione moderna nata sulle mappe coloniali di Sykes e Picôt e gestita in chiave teoricamente socialisteggiante da una delle meteore del terzomondismo, trasformatasi in clan, prima dispotico poi assassino di una parte del suo popolo, è da anni un alleato strategico dell’Iran. Dei suoi piani di sostegno alla componente sciita che vive nel sud del Libano.
La conservazione del Paese e di quel sistema di governo interessa soprattutto a Teheran, oltre che a Mosca che già in epoca sovietica aveva nella famiglia Asad un alleato fedele che consentiva alla flotta russa di stazionare nel porto di Tartus, dunque nel Mediterraneo. Una spina nel fianco nel sistema Nato. Congelare la Siria al suo passato, con tutte le contraddizioni politiche interne, non appassionava invece Erdogan, che infatti dal 2013 ha offerto frontiere e aiuti bellici a jihadisti di passaggio e di casa che s’infilavano in Siria per ampliare quel Daesh previsto e inseguito in terra irachena. Da mesi, però, il sultano ha sorpreso tutti. Ha mollato gli islamisti alla propria sorte unendosi con russi e iraniani che, oltre a impiegare uomini e mezzi di terra e aria a difesa dell’integrità siriana, difendono le sorti del presidente. Con loro, grazie a loro Asad potrà continuare a guidare quel che resta del Paese. La Turchia, alleata di punta della Nato nel Mediterraneo orientale, s’è avvicinata a questo fronte, chiedendo e ottenendo via libera contro le enclavi kurde. Così è iniziato il declino d’un pezzo del Rojava; non è detto che la furia azzeratrice di Erdogan si fermi ad Afrin e non venga richiesta anche l’occupazione degli altri cantoni gestiti dal Partito dell’unione democratica che Ankara considera una costola del Pkk. Costola da frantumare. Per consentire l’operazione ‘Ramoscello d’ulivo’ Putin ha rimosso le sue truppe di terra e aperto lo spazio aereo ai jet turchi, Rohani ha guardato altrove, gli Stati Uniti che a lungo si son serviti del sacrificio umano e spesso femminile delle Unità di protezione del popolo nella guerra all’Isis si ritirano, come sostiene Trump, dall’intero impegno nella regione.
Asad, per parte sua, il Rojava l’ha sempre al più sopportato, non certo amato. Dunque ad Ankara si perfeziona quanto già discusso a Sochi: mantenimento del regime di Asad nella Siria legittima, se possibile riconquista di territori ancora in mano ai ribelli, cancellazione dei territori autogestiti dai kurdo-siriani abbandonati da tutti. Chi sta guadagnando maggiormente in tale patteggiamento è proprio il presidente turco che riceverà fra un anno anche la prima batteria missilistica di S-400 russi. Fattore che allarma il Pentagono perché i codici segreti dell’alleato turco dovrebbero interagire, dunque essere svelati, ai militari russi. Da quest’apertura la Turchia riceverà pure benefici di tecnologia energetica. Nei patti con Putin c’è il via libera alla costruzione della prima centrale nucleare ad Akkuyu sulla costa mediterranea, a neppure 200 km dalla base Nato di Incirlik. Il progetto (20 miliardi di dollari e realizzazione da parte della società russa Rosatom, che però cerca un partner locale cui affidare il 49% delle azioni) era predisposto dal 2010. Rientrava nella pianificazione modernizzante varata da Erdogan per la grande Turchia del centenario nel 2013, momento topico che lui vuole presenziare per oscurare Atatürk ed entrare nella leggenda. La contrarietà d’una componente verde, giovanile e dell’opposizione politica - i ragazzi di Gezi park per intenderci, totalmente azzerata o azzoppata dal clima di repressione e intimidazione - cade nel vuoto e la politica internazionale, come spesso accade, va a consolidare gli interessi e le opportunità della politica nelle singole nazioni. Ciascuno dei triumviri guadagna qualcosa, nessuno ha interesse a proseguire la guerra, ma non è detto che questa sia chiusa. Finora perde il sogno del Rojava.
4 aprile 2018
articolo pubblicato su enricocampofreda.blogspot.com
Enrico Campofreda
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