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(5 Gennaio 2021)
Judith Butler
Gli storici americani, europei, sud-asiatici e giapponesi che studiano la Cina debbono confrontarsi oggi con un vero e proprio muro che ci separa dai nostri colleghi cinesi. È l’insistere del governo della Repubblica Popolare Cinese, dal 1949 (e tra i seguaci di Mao, dagli anni Trenta), che l’unico obiettivo legittimo di studio storico sia didattico e ideologico: debba servire cioè alla glorificazione nazionalistica o non ha senso. Le narrazioni che non sostengono la visione ufficiale della storia cinese come benevola e altruista sono condannate dagli storici di Stato cinesi come «nichiliste» o «imperialistiche». Nella lunga vicenda storiografica della Cina, che ha raggiunto risultati straordinari, tutto ciò costituisce una novità, che richiede tuttavia, al di fuori della Cina, delle risposte argomentate da parte degli storici. Se le pratiche e i paradigmi usati dagli studiosi non cinesi non sono davvero nichilisti e imperialistici, che cosa sono? Qui troviamo un punto di contatto fondamentale con le questioni poste dal professor Ruta.
Quando ero una studentessa universitaria alla fine degli anni ‘70, gli storici erano ancora convinti che la loro disciplina potesse essere «scientifica» e «oggettiva». E Karl Popper era una preoccupazione centrale. Di tanto in tanto qualche professore sollevava con sicurezza «Il rasoio di Occam», asserendo che la spiegazione di un fenomeno è meglio fondata se vengono introdotte e privilegiate le ipotesi più semplici. In quel momento ho trovato la cosa divertente. Il rasoio di Occam è una tecnica delle scienze di laboratorio, in cui i fenomeni possono essere isolati e un processo eseguito più e più volte fino a quando non viene associato a un evento prevedibile. Ma questo non ha assolutamente nulla a che vedere con lo studio della storia, e suggerirei anzi che la sociologia sia nata proprio dall’incapacità di fare della storia un’impresa rilevante per l’Occam. Non solo non possiamo mai fare in modo che la storia si ripeta, anche una sola volta, ma, quel che è più importante, non possiamo né ora né mai definire un «evento». Punteggiamo artificialmente le nostre percezioni dei fenomeni sequenziali con inizi e fini immaginari, con strutture interne di «primo», «medio» e «tardo», per creare poi tra di loro relazioni immaginarie. Negli ultimi stadi di questa patologia, tentiamo di imporre tali strutture immaginarie ad altri «eventi» inventati, dai quali traiamo generalizzazioni immaginarie e, se l’infermità è molto grave, previsioni.
Molto prima che entrassi alla scuola di specializzazione, questa cultura professionale, o culto, fu messa in discussione dagli studiosi «critici» della «decostruzione» che – con Judith Butler in modo particolarmente efficace – sono stati capaci di suggerire che non esiste vera obiettività, neanche nella «scienza». Metodo, osservazione, interpretazione non li vedevano basati su pratiche imparziali. L’obiettività era vista invece, di per sé, come una proiezione risultante da una complessa interazione di pregiudizi che si irradiavano dalle prospettive di classe, genere, razziale e imperialista, come le fenomenologie del pregiudizio di cui parla il professor Ruta. Le radici di questa tradizione critica in età moderna erano in realtà profonde, risalenti a Marx e a Foucault, e le sue metafore si basavano sempre più sulle terminologie della meccanica quantistica (suggerendo in modo inappropriato che la realtà quantistica fosse essenzialmente qualcosa di soggettivo).
Come l’ideologia oggettivista dei primi tempi, l’ideologia decostruttivista alla fine è diventata tuttavia un nuovo tipo di prigione. Tutto può essere decostruito, come in un un gioco da ragazzi. Ma decostruire tutto a quale fine? e che ne è allora della missione storiografica?
Una preoccupazione centrale degli storici è ora la causalità: c’è o non c’è una causalità? Se gli studiosi critici hanno ragione, la causa di tutto è data dalle fenomenologie del pregiudizio che producono il motivo per identificare una causa. Per loro, l’unico modo per la storia di trovare un significato e uno scopo è di concentrarsi sull’esperienza umana come soggettiva, emotiva, aspirazionale. Ma alcuni storici sono tornati alle vecchie ideologie dell’oggettività scientifica, dando priorità ai metodi e alle scoperte della storia economica, della storia neurologica, della storia genetica e demografica umana, della scienza della terra e del clima, e così via. A mio avviso, l’incapacità di superare i limiti della percezione umana per identificare in modo credibile un evento, da un lato, e il profondo bisogno umano di un arco narrativo persuasivo, dall’altro, manterrà la storia sospesa in un ciclo produttivo di costruzione e decostruzione interpretativa: la dove probabilmente dovrebbe stare.
Il riferimento del professor Ruta all’archeologia processuale è particolarmente utile. Alla base del lavoro archeologico c’è l’antropologia, o l’assunzione di un arco narrativo a lungo termine per l’umanità. Ma alla fine si pongono domande fondamentali sulla realtà dell’«evidenza»: il suo contesto, la sua stratigrafia, la sua trasferibilità, conservabilità, interpretabilità. Attraverso questo obiettivo minimo, la storiografia affronta alcune delle questioni più profonde del mondo contemporaneo e scopre nuovi scopi possibili. Gli interpreti della storia, i costruttori di paradigmi, i teorici della causalità hanno tutti lavorato con l’amabile presupposto che vi sia effettivamente un nucleo vitale di «prove» storiche. C’è realmente? La maggior parte di ciò che è accaduto agli esseri umani, intesi come singoli o associati, non è mai stata documentata, e anche oggi può essere sfuggente. L’intuizione e la deduzione razionale rimarranno sempre risorse storiche. Ma oggi, ancora più impellente, si avverte il bisogno di nuove messe in discussione della realtà, necessita la costruzione di nuovi criteri di contesto, credibilità e significato della «conoscenza». Per gli storici, che si assumono come primo compito la certezza delle prove, tali attività esplorative non sono solo fondamentali per perseguire i loro scopi, ma possono essere la chiave per individuare il loro possibile contributo alla vita del ventunesimo secolo. Questo è, in fondo, il primo compito assegnatoci da Erodoto e il significato stesso della «storia»: non la formica dell’interpretazione ma l’arte dell’indagine, in cui sono racchiusi interi mondi di epistemologia e fenomenologia.
Pamela Kyle Crossley, storica statunitense, è docente di storia al Dartmouth College. È specialista dell’impero Qing e di storia della Cina moderna. Si occupa della storia dell’Asia e di storia dell’equitazione in Eurasia prima dell’età moderna. Figura tra gli studiosi più importanti negli orizzonti della «Storia globale», entro cui ha prodotto tesi e progetti innovativi. È autrice di opere di forte risonanza internazionale come Orphan Warriors: Three Manchu Generations and the End of the Qing World (Princeton University Press 1990), The Manchus (Blackwells Publishers 1997), A Translucent Mirror: History and Identity in Qing Imperial Ideology (University of California Press, 1999). Alla storia globale ha dedicato nel 2008 un ponderoso saggio espositivo e analitico, What is Global History?, tradotto anche in Cina. Ha firmato libri di rilevanza paradigmatica, come The Wobbling Pivot: China since 1800 (2010) e Hammer and Anvil: Nomad Rulers at the Forge of the Modern World (2019). Per i suoi studi è stata insignita di numerose onorificenze. Ha scritto e scrive per London Review of Books, Wall Street Journal, The New York Times Literary Supplement, The New Republic, Royal Academy Magazine, Far Eastern Economic Review, Calliope. È presente, con opere e progetti storici, negli spazi editoriali online della BBC.
Pamela Kyle Crossley
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