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Antimperialismo o democraticismo?

Puntualizzazioni per un chiarimento in merito alla partecipazione degli antimperialisti alla manifestazione del 18 marzo

(1 Marzo 2006)

L'evidente paralisi del confronto politico all'interno del movimento contro la guerra, confronto che almeno per quanto riguarda la guerra in Iraq risulta ridotto alla reiterazione di interpretazioni preconcette costruite su modelli ideologici, ha permesso e permette che alla campagna di disinformazione di massa si aggiungesse l'opera di mistificazione sistematica delle notizie e di manipolazione della lettura dei fatti destinata all'opinione di sinistra.

Se l'impossibilità di accedere ad informazioni dirette e non mistificate dai teatri di guerra, e da quello iracheno in primo luogo, può spiegare in parte le incertezze o le riserve con cui una parte della sinistra non istituzionale esprime un debole appoggio alla Resistenza, l'oscuramento e la negazione sistematica della concreta e reale composizione della guerriglia, del suo operare nei fatti e del suo legame con la storia e la società irachena ha lo scopo di orientare il consenso esclusivamente verso le organizzazioni della cosiddetta opposizione civile che riconoscono la legittimità o subiscono l'autorità del governo coloniale insediato dalle elezioni sotto occupazione.

La posizione di chi riconosce la legittimità della Resistenza armata rifiutandole però il riconoscimento politico, esplicita una scelta di campo a favore delle forze a vario titolo colluse, e di sostegno alle politiche di contenimento delle lotte antimperialiste nei Paesi del Terzo Mondo. Le organizzazioni e gli individui che si riconoscono nel "credo" pacifista, già responsabili del sostegno e del plauso accordato ai "democratici" provocatori Otpor e a Radio B2 nella Jugoslavia aggredita, sono in generale connessi - quando non diretti - da quelle stesse ONG cui partiti e governi affidano i compiti di mediazione tra la politica occidentale di penetrazione, violenta e non, negli affari interni degli Stati in via di ricolonizzazione e la reazione, violenta e non, delle popolazioni di questi Stati, o tra la guerra di aggressione e la distruzione del tessuto economico e sociale che questa provoca. A questa forma di "aiuto umanitario" si dedica una schiera di non-violenti nuovi missionari stipendiati, altrimenti definibili, secondo i casi, personale coloniale. Loro compito è prevenire o disinnescare le tensioni, contenere la reazione anticoloniale, suscettibile di trasformarsi in lotta antimperialista, entro i limiti della protesta. E aprire le piste per una sana penetrazione economica dell'imprenditoria capitalista. È naturale che i loro interlocutori nei teatri di guerra non siano le forze resistenti armate ma gli operatori della cosiddetta "società civile" fiancheggiatori di manovre politiche compatibili, spesso - lo sappiano o meno i "nonviolenti" - collusi con le agenzie e l'intelligence dei governi occidentali. Ferma restando la buonafede di molti.

La diffamazione della Resistenza irachena (che sarebbe opera di gruppi confessionali, residui del vecchio regime, infiltrati terroristi e, comunque, priva delle connotazioni progressiste richieste dalla nostra sinistra imperialista) divulgata da queste organizzazioni nasce forse da ignoranza, ma non per questo è meno falsa e insidiosa o più giustificabile. Dalla divulgazione di notizie e interpretazioni elaborate da agenzie dei servizi americani (come l'Institute for War and Peace Reporting) alla promozione di ONG "irachene" per la difesa dei diritti umani (ONG indistinguibili dalle molte istituite dagli americani in tutti i Paesi che hanno goduto del loro intervento umanitario), la diffusione di stereotipi indirizza la solidarietà (quando c'è) verso organismi il cui obiettivo è entrare nella gestione pubblica di un futuro Stato iracheno addomesticato dalle regole della democrazia mercantile. Così è anche per quanto riguarda i dirigenti del General Union of Oil Employees in perenne tournee europea finalizzata ad ottenere il riconoscimento dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, dirigenti che affermano candidamente che uno degli impegni del sindacato è quello di impedire le azioni di sabotaggio agli oleodotti, cioè di spuntare una delle migliori armi della guerriglia! Certo, bisogna tenere presente che questa dichiarazione non figura, chissà perché, nei documenti votati dai lavoratori.

Di diverso genere, ma altrettanto incline ad avallare il "processo di democratizzazione" in Iraq e ad occultare la natura politica e la valenza nazionale e anti-settaria della Resistenza, è la promozione di fazioni confessionali e di oppositori fuoriusciti presentati quali autentici resistenti.

Il Movimento Sadr è una fazione che ha le sue radici nella più oscurantista tra le organizzazioni che fino dall'inizio hanno combattuto la Rivoluzione irachena e che ha per obiettivo l'imposizione della repubblica islamica e a questo fine opera una sanguinaria e quotidiana aggressione contro la componente laica della popolazione: accreditare questa fazione come parte della Resistenza, dimenticando che l'islam politico opera esercitando un potere secolare del tutto integrato nel sistema del capitalismo avanzato, significa offrire solidarietà ad un nemico dichiarato della vera Resistenza nazionale. Un nemico che esercita un suo potere, "tollerato" e affiancato agli occupanti, con il controllo violento e la repressione brutale sulla società irachena, con la pratica della guerra sporca e di una implacabile "pulizia politica e confessionale", imboccando la strada del genocidio ai danni della popolazione sunnita e di quella palestinese (come dimostrano gli avvenimenti degli ultimi giorni a Baghdad).

Allo stesso modo tributare un vasto riconoscimento, come è stato fatto su sollecitazione del Campo Antimperialista, a organismi non combattenti quali l'Alleanza Patriottica Irachena, che, pur spendendosi per la difesa del proprio Paese, vogliono costruire la propria "legittimità" in quanto rappresentanti politici non sull'effettivo consenso da parte degli iracheni presso i quali non hanno base reale, ma da parte di ambienti politici occidentali, europei in particolare, nel tentativo di accreditarsi presso una classe politica ostile alla reale indipendenza dell'Iraq e impegnata a gestire il trasferimento delle ricchezze naturali e dei profitti prodotti nel Paese alle casse delle proprie lobby finanziarie e industriali, implica assumere di fatto un ruolo di supporto alla disinformazione strategica e di fiancheggiamento della controrivoluzione.

Si finisce necessariamente per appoggiare quell'arcipelago di aggregati e formazioni politiche che si candidano a ricoprire cariche istituzionali - in posizione egemone o gregaria - in un Iraq "democratico" del "dopoguerra", in cui alle forze che animano la Resistenza non venga riconosciuto il ruolo di forza rivoluzionaria oggettivamente antimperialista, ma di semplice rappresentanza di organizzazioni politiche al pari di tutte le altre. È un progetto congeniale ai partiti riformisti occidentali, ai quali preme l'esportazione con mezzi "pacifici" della democrazia piuttosto che la nascita di un polo antimperialista nel Terzo mondo, e gradito alle diplomazie dell'imperialismo europeo di secondo piano che ravvisano in questa prospettiva la via per rimettere saldamente i piedi in Medioriente. È un progetto caldeggiato anche dai governi arabi subalterni all'imperialismo impegnati, con la Conferenza di Riconciliazione del Cairo, ad allestire il proprio banchetto di affari a spese della popolazione irachena.

Tanto nell'area pacifista quanto in quella più vicina a posizioni antimperialiste si elude il compito di esprimere una valutazione politica del programma della Resistenza armata limitandosi ad una solidarietà di principio, o, peggio, tacendo la diversa natura della Resistenza irachena rispetto al progetto di istituzione di un regime "democratico" (nel senso occidentale e capitalistico del termine) propugnato dalle forze della opposizione sedicente resistente o meno, si fa una scelta di parte senza esplicitarla. È questo un modo per congelare il confronto interno al movimento contro la guerra ed impedirne l'evoluzione possibile verso una critica effettiva, e quindi pratica, del progetto coloniale che accomuna - anche se secondo linee prospettiche e modalità di intervento diverse - tutte le forze politiche istituzionali e del patto sociale che lo supporta all'interno del nostro Paese.

L' estromissione della stampa indipendente dall'Iraq, attuata non solo attraverso intimidazioni e minacce ma per mezzo di assassinii mirati di giornalisti non allineati (37 solo nell'ultimo anno), unita alla proliferazione di organizzazioni pseudo-resistenti cadute nella rete di infiltrazione diretta dai servizi delle centrali imperialiste o sponsorizzate dalle agenzie ad esse connesse, ha generato un globale disorientamento anche tra quella parte della sinistra antimperialista che ha scelto di schierarsi a favore della Resistenza irachena.

Nel tentativo di rispondere a tutte le sollecitazioni rincorrendo il corso degli avvenimenti contingenti, si è persa, a nostro avviso, la bussola dell'analisi storica e la chiarezza di quella teorica. Si è finito, cioè, per accreditare la confusione tra il "soggetto storico della Resistenza" (la forza o le forze che l'hanno preparata e la praticano all'interno del Paese con l'appoggio della popolazione) e le fazioni che approfittano della tragica contingenza della guerra intervenendovi allo scopo di conquistare una posizione di potere, grande o piccolo che sia. Non si distingue, di conseguenza, tra la scelta di sostenere un movimento di liberazione nazionale che combatte contro l'aggressione imperialista e quella di fornire un palcoscenico ad aggregazioni politiche settarie o faziose, siano queste quelle che esercitano dall'estero una "opposizione" all'occupazione militare con l'intenzione di inserirsi in un futuro processo di fondazione di un nuovo Stato, come molti esponenti della cosiddetta "opposizione patriottica irachena", o quelle che praticano una politica opportunista coniugando anti-americanicanismo e guerra antipopolare per l'imposizione della propria egemonia come il movimento legato a Muqtada al-Sadr.

Si è mancato, a nostro avviso, di mettere in luce la differenza tra l'obiettivo, primario ma tattico, di ottenere l'evacuazione delle truppe occupanti dal Paese e quello strategico della Resistenza, quello cioè di ripristinare la reale sovranità irachena sulle risorse, petrolifere innanzitutto, e la reale indipendenza del modello di organizzazione sociale, indipendenza che include tanto l'emancipazione dall'ingerenza coloniale quanto il rifiuto della soggezione ai potentati confessionali.

Il riflesso di questa visione ambigua sul fronte interno della lotta politica ha portato a promuovere una battaglia democraticista (quella ad esempio per la concessione dei visti ad esponenti della cosiddetta "opposizione irachena") piuttosto che a rafforzare l'impegno contro le servitù militari che fanno del nostro Paese un avamposto indispensabile alla continuazione della guerra in Medioriente. O si è preferito privilegiare una battaglia tutta interna al quadro istituzionale proponendosi come mediatori tra l'aspirazione condivisa da larga parte dei movimenti di base a sviluppare azioni di concreta solidarietà con la popolazione irachena e gli apparati che si candidano a dirigere una politica estera "alternativa" a quella guerrafondaia delle destre con manovre di accordi inter-imperialisti, operazioni di gestione condizionata del credito (altrimenti dette aiuti umanitari) e di persuasione occulta affidata alle ONG presso gruppi di pressione (la società civile) nei Paesi in via di ricolonizzazione.

Se l'impegno contro le politiche belliche e per il ritiro incondizionato delle truppe italiane resta la base condivisa di un vasto movimento contro la guerra, gli antimperialisti dovrebbero proporsi anche di dare voce e sostegno agli effettivi protagonisti della Resistenza armata il cui progetto politico è in contraddizione con le necessità di espansione dell'economia capitalista.

Si tratta in primo luogo di restituire alla Resistenza il suo vero volto attraverso un'analisi non preconcetta. Si tratta di aprire un confronto leale tra gli antimperialisti prima di tutto, e conseguentemente all'interno del movimento contro la guerra, mettendo in discussione il potere taumaturgico della democrazia dei bianchi sull'inguaribile malattia della spinta all'emancipazione antioccidentale dei popoli oppressi. Di verificare il significato e l'importanza dell'alleanza internazionalista tra proletari e popoli oppressi nella prospettiva della guerra globale. E di rimettere all'ordine del giorno tanto l'indispensabile battaglia nel nostro Paese contro l'economia di guerra, per la chiusura delle basi USA e NATO, per la de-militarizzazione del territorio nazionale, per il ritiro incondizionato dell'esercito italiano da tutte le missioni all'estero, quanto la possibilità di attuare forme di lotta capaci di danneggiare la spirale guerra-sfruttamento-repressione.

Proponiamo queste note alla discussione tra i compagni in vista della manifestazione nazionale del 18 marzo e chiediamo di esprimere una disponibilità per un incontro a breve scadenza.

26 febbraio 2006

COMITATI CONTRO LA GUERRA - MILANO

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