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Eric Hobsbawm

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(2 Ottobre 2012) Enzo Apicella
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LA SCONFITTA DEL PROLETARIATO TEDESCO E LA SUA CONDIZIONE ALLO SCOPPIO DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

(25 Ottobre 2023)

Bagliori nella notte

Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.

VI

La prima frase della nostra prima cartolina sarà: «Madre! Il Führer mi ha assassinato mio figlio…» E di nuovo Anna rabbrividì. C’era qualcosa di così fatale, di così tetro, di così risoluto nelle parole pronunciate da Otto! In un lampo capì che con quella prima frase dichiarava la guerra per oggi e per sempre, e sentì anche oscuramente che cosa ciò volesse significare: guerra fra loro due da una parte, poveri, piccoli, insignificanti operai che per una parola potevano essere annientati per sempre, e dall’altra parte il Führer, il partito, quell’immenso apparato con tutta la sua potenza e tutto il suo splendore, e dietro di esso tre quarti, no, quattro quinti del popolo tedesco. E loro due qui, soli, nella piccola stanza della Jablonskistrasse! Hans Fallada, Ognuno muore solo, 1947

Tratto comune alle varie minoranze internazionaliste europee durante la Seconda guerra mondiale, per lo meno a partire dalla fine del 1942, fu la sopravvalutazione delle possibilità dello scoppio di una rivoluzione proletaria in Germania in seguito alla sconfitta militare del nazismo. Certamente nel senso di tale sopravvalutazione giocarono un ruolo importante alcuni dati di fatto concreti: la constatazione della rilevanza numerica della classe operaia all’interno della Wehrmacht e il ricordo della tradizione di quello che era stato il movimento operaio più forte dell’Europa occidentale, almeno fino all’avvento del nazismo.

Questa valutazione, se da un lato esprimeva la fedeltà ai princìpi dell’internazionalismo proletario, non decampando mai da una imprescindibile distinzione tra la borghesia tedesca e il proletariato tedesco, non teneva tuttavia in sufficiente considerazione il declino del movimento operaio tedesco, iniziato nei primi anni Venti e culminato nella sconfitta del 1933, né tutta la serie di efficaci contromisure politico-economico-militari dettate alla classe dominante dall’esperienza maturata nel corso della guerra e della prima ondata rivoluzionaria del 1917-1923.

Possiamo affermare che, alla conclusione della Prima guerra imperialista mondiale, la borghesia tedesca resse il colpo del vasto movimento rivoluzionario che travolse la Germania tra il 1918 e il 1920. Dal punto di vista dei rapporti di forza, in quel periodo la classe operaia tedesca non andò sostanzialmente oltre un dualismo di poteri che vide l’emergere dei consigli degli operai, dei marinai e dei soldati, e una serie di insurrezioni armate, anche di un certo rilievo, tutte sconfitte.

Fatto inedito, ma conseguenza di tutta la storia evolutiva dell’opportunismo socialimperialista fino al ruolo che assunse nella guerra, fu che il decisivo baluardo della conservazione sociale al quale si affidarono le principali frazioni della borghesia tedesca era un partito operaio: il Partito socialdemocratico di Germania (SPD). Fu la socialdemocrazia ad incaricarsi di schiacciare la rivoluzione proletaria tedesca; a neutralizzare i consigli operai – nei quali era in maggioranza – e a scioglierli non appena varata la nuova Costituzione borghese di Weimar; a reprimere con l’ausilio della ferocia dei Freikorps i tentativi insurrezionali operai; a decapitare il movimento rivoluzionario facendo assassinare i suoi dirigenti riconosciuti; a restituire una certa stabilità al dominio borghese. Una volta assolto al proprio compito emergenziale, la borghesia tedesca relegherà la socialdemocrazia ad un ruolo secondario, affidandosi nuovamente ai suoi partiti tradizionali. Tuttavia, per oltre un decennio la socialdemocrazia continuerà a proporsi alla classe dominante come valida alternativa di governo grazie al suo controllo di vasti strati della classe operaia, grazie al suo peso elettorale, alla forza dei suoi sindacati, e alla gestione di istituzioni come gli uffici di disoccupazione, la polizia di Berlino o amministrazioni locali, Land e importanti municipalità. Un prezioso servizio, fatto anche di dettagliati archivi di polizia con liste di aderenti ai vari partiti sovversivi, passate interamente nelle mani della Gestapo nel 1933.

Nel pieno della tempesta rivoluzionaria, la borghesia tedesca, ben altrimenti strutturata di quella russa, era riuscita a contrastare l’ascesa proletaria “sperimentando” politicamente nel corso degli eventi stessi e utilizzando mezzi inusitati. Nonostante il disprezzo che provava per la socialdemocrazia, essa seppe correttamente valutarne l’utilità nel corso della guerra; seppe addossare sulle sue spalle il peso della sconfitta militare e l’umiliazione della firma del Trattato di Versailles; seppe affidarsi alla sua sapiente gestione della controrivoluzione a guerra conclusa; seppe varare una Costituzione “democratica” che le avrebbe fornito tutti gli strumenti per affidarsi ad un “governo forte” in caso di necessità; seppe sconfiggere le insurrezioni operaie ricostruendo un esercito con poche centinaia di migliaia di effettivi su base volontaria e professionale, in pratica un esercito di ufficiali altamente preparati pronto a gestire organizzativamente, tecnicamente e politicamente, quando fosse venuto il momento – ovvero una volta raggiunta la forza di stracciare il Trattato –, vaste masse di coscritti.

La classe dominante tedesca e il suo partito operaio borghese non furono soli nella loro opera di indebolimento del proletariato. In loro ausilio venne lo stalinismo. Una volta sconfitta la rivoluzione mondiale, le esigenze del falso socialismo «in un solo paese» e dell’autentica controrivoluzione «in tutti i paesi», ovvero gli interessi dello Stato russo nel concerto internazionale delle potenze capitalistiche, si imposero internamente ed esternamente. In Russia con la trasformazione del partito rivoluzionario in organo politico-statale del capitale di Stato, nel mondo con la trasformazione dell’Internazionale comunista e dei suoi partiti aderenti in uffici della diplomazia russa, in filiali del Ministero degli esteri russo.

In Germania, la cosiddetta “bolscevizzazione” dei partiti comunisti ebbe conseguenze drammatiche sul più forte movimento operaio europeo, legandolo alle svolte della politica estera russa e riducendolo a mera massa di manovra per esercitare pressioni sulla borghesia tedesca. Non hanno altra spiegazione la rapida degenerazione della discutibile tattica del Fronte Unico e del Governo Operaio, quella del Socialfascismo – seguita da brevi e localizzati flirt con il Partito nazista –, quella dei Fronti Popolari. In ogni caso, queste politiche di avvicinamento o di allontanamento dalla socialdemocrazia da parte del Partito comunista tedesco “bolscevizzato” – che da solo sarebbe rimasto comunque minoritario nella classe – riflettevano il pericolo di un allontanamento della borghesia tedesca da una Russia isolata dal consesso internazionale e il suo avvicinamento alle potenze di Versailles.

In parte sballottato a destra e sinistra da politiche staliniste che nulla avevano a che fare con le prospettive di una rivoluzione tedesca e internazionale, ma che comunque mettevano in agitazione la classe dominante, aggiogato al carro del capitalismo di casa propria dalla socialdemocrazia, il proletariato tedesco non ebbe chances di fronte alla scelta del capitale tedesco di optare per un regime autoritario come il nazismo. La sconfitta della pur coraggiosa ed energica classe operaia tedesca fu preparata dal disorientamento e dalla devastazione ideologica indotta dalle direzioni socialdemocratica e stalinista, due tumori del movimento operaio che non avrebbero mai potuto condurre la classe operaia tedesca a riunificarsi nella lotta contro il nazismo. Non potevano farlo per il semplice motivo che l’unico modo di combatterlo era per mezzo di una rivoluzione socialista che abbattesse le radici capitalistiche del fenomeno, cosa che nessuna delle due organizzazioni – fedeli alle rispettive subalternità – aveva alcun interesse a promuovere.

Ad ogni modo, e senza alcun dubbio, quello tedesco fu il primo reparto della classe operaia europea a combattere contro il nazismo e, dopo la tragica sconfitta, a subirne letteralmente la politica di occupante imperialista.

Le elezioni tenutesi fino al 1933 in Germania dimostrano ampiamente che il proletariato tedesco fu lo strato sociale che meno di ogni altro si lasciò adescare dal nazismo. Nel marzo del 1933, dopo che Hitler era già stato nominato Cancelliere del Reich, la popolazione tedesca ammontava a circa 65 milioni di abitanti, di questi 65 milioni 17.277.180 votarono per il Partito nazionalsocialista e 12.324.301 per i partiti legati al movimento operaio. Tutto ciò in un già operante clima di terrore e di intimidazione e tenendo conto che la classe operaia, considerato il peso elettorale della piccola borghesia, dei vasti strati intermedi e dei contadini, non rappresentava la maggioranza della popolazione tedesca. Dal 1933 al 1938 circa 345.000 tedeschi furono condannati come oppositori politici e dal 1938 al 1945 ne furono “ufficialmente” giustiziati 32.500. Tra il gennaio 1933 e l’aprile 1945 circa un milione di tedeschi transitò nei campi di concentramento, e nelle prigioni naziste. Le cifre, le testimonianze, sono da lungo tempo disponibili; il corredo di atrocità naziste gravò, in primo luogo, sulle avanguardie di classe del proletariato tedesco; una generazione di militanti venne sterminata o costretta all’esilio e il resto della classe fu ridotto al silenzio pressoché totale da un ferreo controllo poliziesco. Eppure, l’identificazione del tedesco con il nazista – che poi è esattamente l’immagine che della Germania intendeva dare il nazismo – perdura anche oggi.

Come illustra abbondantemente lo storico Detlev Peukert[1], una volta salito al potere il nazismo, la distruzione di qualsiasi forma associativa non approvata dal regime, i rastrellamenti e le razzie sistematiche nei quartieri operai (che fino ad allora avevano rappresentato delle roccaforti in cui la classe operaia poteva continuare a percepirsi come comunità) diffondendo un senso di insicurezza e di impotenza, spezzarono nel proletariato persino la fiducia nel proprio ambiente sociale. Il Terzo Reich seppe costruire sia un vasto consenso che un clima di intimidazione di massa, un clima di terrore nel quale anche un commento, una parola o persino un silenzio o uno sguardo, conducevano a delazioni e arresti, a detenzioni e torture, protratte magari per anni prima di finire sotto la scure del boia. In simili condizioni, non tanto lo stampare, ma anche soltanto l’accettare un volantino sovversivo poteva significare morte atroce, per sé e per la propria famiglia. Nondimeno, almeno nei primissimi anni del regime, tentativi di opposizione illegale di massa furono esperiti e più o meno rapidamente schiacciati dalla Gestapo; da allora, l’opposizione organizzata fu esclusivamente questione di piccolissime minoranze.

La classe operaia tedesca, nel suo complesso, pur ritirandosi nella sfera privata, espresse la propria opposizione in forme peculiari, conservando una solidarietà apolitica, fatta di piccoli gesti quotidiani nei confronti dei membri della propria classe, con una altrettanto apolitica diffidenza verso il potere nazista e facendo valere i propri interessi immediati negli spazi concessi da un regime che aveva disciolto o inquadrato tutte le sue organizzazioni di difesa economiche.

La classe operaia, obbligata ad entrare nel Fronte tedesco del Lavoro (DAF), dal 1934 fu sottoposta ad una «Disciplina nazionale del lavoro» che attribuiva agli imprenditori e ai direttori supremo arbitrio sugli operai in fabbrica e che trasformava gli accordi aziendali in norme di legge la cui vigilanza era affidata a “fiduciari” nazisti nominati direttamente dagli imprenditori. Le proteste o le astensioni dal lavoro costituivano altrettanti reati perseguibili dalla Gestapo.

Dopo una prima fase di compressione salariale, la politica di riarmo e il raggiungimento della piena occupazione, insieme a tutta una serie di misure di welfare, generarono una fase di relativo benessere nella classe operaia tedesca, già provata dagli anni della crisi del ’29. Dal 1936-’37, tuttavia, la stessa piena occupazione, eliminando o quasi la possibilità di una flessione dei salari verso il basso, nell’assenza della pressione di un esercito industriale di riserva, conferì ai lavoratori una posizione di vantaggio. In questa fase, l’ineliminabile conflitto di classe si manifestò nella maggior parte dei casi con rallentamenti individuali nel ritmo lavorativo, con la trascuratezza e la pignoleria nello svolgimento delle proprie mansioni, con l’assenteismo per malattia, con frequenti cambi di lavoro e, in casi estremi, persino con piccoli scioperi. Le industrie belliche, obbligate a rispettare i piani produttivi prefissati dal governo, furono costrette a concedere salari più alti e indennità, inducendo gli altri settori produttivi a misure analoghe per non perdere la propria manodopera.

Questo specifico ciclo di lotte, pur essendo conseguenza necessaria della condizione operaia, che nessuna propaganda nazionalsocialista sulla «fine della lotta di classe» e sulla «comunità di terra e di sangue» poteva eliminare, si manifestò in forme prevalentemente atomizzate, individuali, che nell’immediato in una certa misura indebolirono nella coscienza dell’operaio tedesco la percezione della necessità della “coalizione”, della solidarietà operaia nella lotta contro il capitalista. A questo processo si unì, ovviamente, la deliberata politica nazionalsocialista di divisione sezionale della classe operaia in Germania, con una diversa scala di trattamento e di privilegi. Tutto ciò non fu purtroppo senza effetto nel determinare il comportamento del proletariato tedesco nel corso della guerra che sarebbe scoppiata di lì a poco.

Secondo Elisabeth Behrens[2] la pianificazione e la conduzione della guerra lampo da parte della borghesia tedesca, nell’ottica del progetto di un’area economica continentale, ebbe importanti conseguenze nella tenuta sociale della Germania nel corso del conflitto. In pratica la guerra consentì al capitalismo tedesco di trasferire all’esterno della Germania le contraddizioni sociali interne.

Mentre milioni di operai tedeschi vennero arruolati nella Wehrmacht, quelli rimasti attivi erano mobilitati sul «fronte interno» della produzione di guerra, nel quale ogni protesta o lassismo erano trattati alla stregua di una diserzione e puniti con l’invio sul fronte militare in compagnie di disciplina. Dal maggio 1939 al maggio 1940 la manodopera maschile tedesca attiva si ridusse di 4,1 milioni, passando da 24,5 a 20,4 milioni. Al tempo stesso, l’occupazione femminile non aumentò in maniera corrispondente, grazie all’impiego di sussidi statali per le famiglie dei soldati, provvedimento preso con il chiaro intento politico di mantenere la stabilità sociale delle retrovie ed evitare disordini. Una serie concessioni economiche mirate e le rapide e complete vittorie militari nei primi due anni di guerra ebbero indubbiamente degli effetti sulla conflittualità operaia sia dal punto di vista della propaganda nazionalista, sia da quello degli effettivi benefici materiali sui quali questa propaganda poteva poggiare. In questi due anni, infatti, grazie alla sistematica rapina condotta nei paesi occupati, grazie alla mobilitazione forzata e allo sfruttamento del proletariato europeo e alla sua deportazione nelle fabbriche-galere tedesche, la Germania non dovette subire che in misura del tutto trascurabile gli effetti di un’economia di guerra. Evidente era il timore della riproposizione di un «fronte interno» rivoluzionario come quello del 1917-’18.

NOTE

[1] Cfr. D. Peukert, Storia sociale del Terzo Reich, Sansoni, Firenze, 1992 e, sempre D. Peukert, La resistenza operaia. Problemi e prospettive, in La resistenza tedesca 1933-1945, Franco Angeli, Milano, 1989.

[2] Cfr. E. Behrens, Lotta operaia e contrattacco capitalistico sotto il Nazionalsocialismo, in K.H. Roth, L’altro movimento operaio, Storia della repressione capitalistica in Germania dal 1880 a oggi, Feltrinelli, Milano, 1976.

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