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Tony Cliff – L’INTERNAZIONALISMO RIVOLUZIONARIO IN PALESTINA 1937-1946

Prima parte

(1 Novembre 2023)

Chanie Rosenberg e Tony Cliff

Chanie Rosenberg e Tony Cliff negli anni ’40

Tony Cliff, A World to Win. Life of a Revolutionary, Bookmark, London, 2000. Chapter I, Palestine. Traduzione dall’inglese di Rostrum. Il titolo è redazionale.

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Il conflitto militare tra lo Stato israeliano e le milizie guidate da Hamas – responsabili delle feroci operazioni dello scorso 7 ottobre – è entrato ormai nella sua quarta settimana. Da pochi giorni i primi carri armati di Israele hanno fatto il loro ingresso in una Striscia di Gaza priva di elettricità, di carburante, di acqua, dilaniata e devastata da bombardamenti che hanno già mietuto più di 7000 vittime civili, per metà bambini.

Poche centinaia di cittadini ebrei israeliani si oppongono alle operazioni militari del proprio Governo – perlopiù in un’ottica pacifista, collaborando con altre poche centinaia di arabi israeliani nel cercare di mitigare le terribili conseguenze della guerra e delle violenze [a]– mentre la gran parte del proletariato ebraico sostiene l’unità nazionale in un momento che il Governo, le istituzioni e l’intellettualità borghesi presentano come gravido di minacce per la “sopravvivenza della patria”. Si registrano violenze e uccisioni che assumono la tragica e paradossale connotazione di veri e propri pogrom nei confronti della popolazione arabo-israeliana e della Cisgiordania, ad opera di coloni e di estremisti della destra sionista [b], mentre il governo di Tel Aviv ha di fatto sospeso molte libertà civili, armato civili estremisti e arrestato preventivamente più di 5000 tra arabi israeliani e palestinesi – in pratica sulla base di sospette simpatie per Hamas o anche soltanto per aver manifestato solidarietà con i gazawi bombardati indiscriminatamente – detenuti in condizioni in cui i maltrattamenti sembrano rasentare la tortura [c]. A Gaza, nei giorni scorsi, si sono manifestate le prime crepe sull’intonaco nazionalista della tregua sociale: migliaia di proletari gazawi hanno manifestato contro il governo di Hamas, ritenuto corresponsabile delle attuali drammatiche condizioni della popolazione della Striscia e contro l’imposizione di una nuova tassa sugli aiuti umanitari percepiti dalle fasce più povere di una popolazione già allo stremo.

In un passato quasi secolare di conflitti, mai come oggi è possibile affermare che in terra di Palestina l’internazionalismo, come movimento politico organizzato della classe operaia, è ai suoi minimi termini storici. Eppure, per quanto minoritario e con pochissima influenza sul proletariato ebraico e palestinese, il comunismo internazionalista in Palestina ha una sua storia, persino eroica.

Nonostante tutti gli elementi che possono distinguerci dal percorso politico di Tony Cliff e nonostante la distanza politica che ci separa dalle filiazioni organizzative del suo lavoro teorico e militante, abbiamo ritenuto utile tradurre e presentare alcune significative parti del primo capitolo dell’autobiografia del rivoluzionario ebreo palestinese che documentano vividamente questa storia.

Leggendo le pagine che seguono, non abbiamo potuto evitare di soffermarci sulle motivazioni che spinsero un giovane ragazzo, sionista e figlio di sionisti, ad avvicinarsi al marxismo. Motivazioni che, come avviene per ogni autentico rivoluzionario, e come ci ricorda lo stesso Cliff, attengono alla sfera dell’indignazione, della ribellione contro l’“ingiustizia” dello stato di cose esistente, della passione suscitata dagli innumerevoli e diversi modi in cui le contraddizioni del capitalismo sollecitano le corde più profonde dell’individuo e che nel marxismo trovano un indispensabile strumento teorico di lotta. Per Ygal Gluckstein – il vero nome di Cliff – il casus fu constatare l’assenza di bambini palestinesi nelle scuole che frequentava, e la loro mancanza di scarpe. Oggi, anche in chi pretende di richiamarsi al socialismo scientifico, troppo spesso le sofferenze e le privazioni dei bambini palestinesi sono invece un pretesto per allontanarsi dal marxismo.

La storia dell’internazionalismo in Palestina negli anni ’30 e ’40 è indubbiamente la storia di un fallimento. Ma esistono fallimenti e fallimenti. Alcuni possono risultare addirittura fecondi, se ne vengono vagliate materialisticamente le cause e se ci si pone nell’ottica di trarre dal lavoro rivoluzionario delle generazioni che ci hanno preceduto un esempio, una carica ideale, una determinazione, un’energia militante indispensabili per affrontare vittoriosamente le sfide che oggi deve affrontare chi sceglie la via accidentata dell’impegno rivoluzionario.

Molte sono le differenze tra le condizioni di un lavoro rivoluzionario internazionalista in Palestina oggi e più di 80 anni fa. I comunisti non possono scegliere l’epoca e molto spesso nemmeno il luogo in cui intraprendere la battaglia politica rivoluzionaria, ma devono essere in grado di cogliere sia le difficoltà che le possibilità che ogni situazione racchiude in sé.

Oggi come ieri, le condizioni salariali e sociali del proletariato palestinese sono più basse di quelle del proletariato ebraico. Se nel 1937 un lavoratore ebreo riceveva in media il 145% in più del salario del suo omologo palestinese (e in alcuni settori, come le fabbriche tessili, addirittura il 433% in più) [d], nel 2017 il reddito mensile medio di un lavoratore ebreo era di 11.191 NIS, rispetto ai 7.338 NIS di un lavoratore arabo [e]. Oggi come ieri, il proletariato ebraico, per quanto fortemente differenziato al suo interno [f], è complessivamente ancora fortemente legato ai privilegi imperialistici che la borghesia israeliana è in grado di elemosinargli, con tutto ciò che questo comporta dal punto di vista dell’adesione ideologica ad una forma di sciovinismo particolarmente aggressiva, un nazionalismo reazionario quanto ogni altro, ma privo fin dai suoi esordi di qualsiasi contenuto oggettivamente progressivo, essendo sorto in epoca imperialista per soddisfare esigenze specificamente imperialiste. Oggi come ieri, prescindendo dalla sua subordinazione ideologica al nazionalismo borghese, il proletariato palestinese resta socialmente debole, perlopiù confinato in settori non decisivi del tessuto economico regionale. Eppure, oggi il livello di industrializzazione dell’area mediorientale, per non parlare dell’estensione del capitalismo a livello globale, è certamente più elevato di quello degli anni ’40 del secolo scorso. Oggi i lavoratori palestinesi – cittadini israeliani o della Cisgiordania – sono certamente presenti in misura maggiore nel mercato del lavoro israeliano. Esistono le condizioni oggettive per un lavoro internazionalista come quello fatto da Cliff e dai suoi compagni, con maggiori possibilità di formare quantomeno un nucleo rivoluzionario anche piccolissimo che possa ambire a giocare un ruolo quando le contraddizioni imperialistiche e una crisi rivoluzionaria che coinvolga la regione allenteranno o spezzeranno il legame tra il proletariato ebraico e la borghesia israeliana e mobiliteranno il proletariato mediorientale sul fronte di classe.

Se ieri gli internazionalisti in Palestina dovevano affrontare le violenze della reazione agraria e clericale araba [g], del sionismo armato dell’Haganah e dell’Irgun, dell’amministrazione coloniale britannica, oggi devono affrontare quelle di un nazionalismo palestinese imputridito nella palude imperialista e quelle di uno Stato imperialista come quello israeliano, forte di indiscutibili capacità militari-repressive, coadiuvato da un’ideologia nazionalista pervasiva – lontana anni luce persino da quella caricatura del socialismo rappresentata dal laburismo sionista e dai movimenti dei Kibbutz e dei Moshav che Cliff identifica bene nella loro reale natura – alimentata da quasi un secolo di conflitto e da una condizione di relativo privilegio.

Eppure, se ottanta anni fa è stato possibile per Cliff e compagni conquistare militanti ebrei e arabi alla causa rivoluzionaria, malgrado fanatismi divisivi e odii settari generati e alimentati dall’imperialismo, sarebbe certamente possibile anche oggi trovare quelli che Cliff definiva rarissimi “diamanti umani” tra quegli individui che le contraddizioni capitalistiche spingono a porsi delle domande e a cercare delle risposte al di fuori dei canali ideologici dominanti; diamanti umani che la pressione gigantesca dell’imperialismo tra le rive del Giordano e il Mediterraneo non può certamente mancare di produrre. Quella dell’unità di classe è l’unica strada che le minoranze marxiste nelle metropoli dell’imperialismo possono indicare ai proletari israeliani e palestinesi mentre si battono contro il “nemico in casa propria”.

Oggi molti presunti “rivoluzionari anticapitalisti” cercano di ibridare l’internazionalismo con un appoggio “senza se e senza ma” ad uno schieramento borghese spacciato come “resistenza” nazionale e popolare, anche se, al loro appoggio “incondizionato”, allegano postille in calce sulla natura reazionaria di Hamas e soci. Dunque, delle due l’una: o l’appoggio è “condizionato” da “se e ma” tali da rendere logicamente insostenibile la sua stessa opportunità, oppure, nei fatti, si tratta di un appoggio ai soggetti che – nella totale ed incontrovertibile assenza di una qualsiasi autonomia di classe del proletariato palestinese – stanno di fatto conducendo politicamente e militarmente l’attuale “resistenza” palestinese, ovvero precisamente a quelle borghesie palestinesi ed arabe – nonché, naturalmente, ai loro padrini imperialistici – di cui si è riconosciuta verbalmente la natura reazionaria.

Arthur Koestler, che nell’arco della sua esistenza passò dall’anticomunismo stalinista a quello liberale, nel suo romanzo Ladri nella notte descrive con l’acre sarcasmo di un sostenitore della causa sionista quelle che considera manifestazioni di internazionalismo all’interno della comunità ebraica nella Palestina del mandato britannico:

«Dobbiamo convincere gli Arabi, ti piaccia o non ti piaccia. Puoi insolentirmi come ti pare, cantare tutte le canzoni che vuoi, sventolarmi le più svariate bandiere sotto il naso, ma non riuscirai ad allontanarmi dalla mia fede. Proletari di tutto il mondo, poveri e umili di tutto il mondo, unitevi. Questo per me è sacro come i Dieci Comandamenti o il Sermone della Montagna. Gli Arabi sono i poveri e gli umili, noi siamo i poveri e gli umili. Non c’è altra via. Questa è la mia fede ed io non sono disposto a vendere la mia fede per uno sciovinistico piatto di lenticchie…» […]


«Tu e le tue frasi da pacifista redentore del mondo. E se gli Arabi non vogliono farsi redimere da te? Non vogliono né i tuoi quattrini, né i tuoi ospedali, né i tuoi sindacati.»

«Ma è solo l’influenza degli effendi… dei loro latifondisti e dei loro preti» ribatté Max. «Essi temono di perdere i propri privilegi. Ma il giorno in cui il popolo comprenderà che siamo venuti come i suoi veri amici…»


«Il giorno» lo interruppe Dina «il giorno, già, intelligentone. E intanto lo aspetti fuori dall’uscio, quel giorno? E per quanto tempo, intelligentone? Per quanto tempo bisognerà aspettare, cento o mille anni, di’?»

«Nessuno parla di aspettare» ribatté Max, che aveva visibilmente paura di Dina «non ho mai detto questo. Ho detto solo che dobbiamo andare loro incontro in uno spirito di buona volontà e di comprensione.»


«Ma essi non vogliono venirti incontro, cieco che non sei altro» urlai. «Ti odiano, perché sei straniero e perché i mullah hanno detto loro di odiarti e perché sono analfabeti e vivono nel tredicesimo secolo e non hanno letto Marx. Che cosa fai tu allora? Parli di buona volontà e di comprensione, ma in realtà avanzi a gomitate, piaccia o non piaccia a loro. Ecco quello che fai, maledetto ipocrita.»
[h]

Koestler aveva buon gioco nel ridicolizzare la caricatura di internazionalismo ridotto ad ingenua e idealistica petizione di principio da una certa “sinistra sionista” che cercava di conciliare un insediamento dal carattere imperialistico con la “fratellanza dei popoli”. D’altro canto, il sionismo di sinistra non era che una forma di socialnazionalismo che gli stalinisti sostennero caldamente prima che gli interessi imperialistici dell’URSS – una delle due potenze che tennero a battesimo il neonato Stato di Israele – mutassero indirizzo e si rivolgessero verso la “causa araba”. Tuttavia, i comunisti internazionalisti in Palestina – come Cliff e i suoi compagni – maturarono una rottura completa sia con l’ideologia sionista che con lo stalinismo, e su di loro il cinico sarcasmo di un Koestler non può avere alcuna presa. Come non può averne su qualsiasi internazionalista che non consideri la solidarietà di classe una sentimentale e utopistica aspirazione pacifista all’affratellamento dei “popoli”, ma una concreta, reale prospettiva di lotta, per quanto irta di enormi difficoltà, colma di rischi e avara di soddisfazioni immediate.

Oggi chi posa a Realpolitiker “di sinistra” e taccia di ingenuo utopismo gli internazionalisti si ritrova paradossalmente sulla stessa lunghezza d’onda del sionista Koestler ed è in realtà il vero fautore di brutte utopie al servizio più o meno inconsapevole della brutale e avida Realpolitik imperialistica.

PROLETARIANS OF ALL COUNTRIES, UNITE!

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[…]

La mia infanzia

Sono nato in Palestina il 20 maggio del 1917, al termine dell’occupazione ottomana in questo Paese e all’inizio della presenza britannica che sarebbe durata 31 anni. All’epoca della mia nascita, il 95% della popolazione del Paese era araba, e gli arabi hanno continuato ad essere l’immensa maggioranza per molti anni; nel 1945 costituivano il 68% della popolazione.

Sono nato in una famiglia della classe media, i miei genitori, zii e zie erano dei sionisti convinti. Mio padre e mia madre erano arrivati in Palestina dalla Polonia russa nel 1902; uno dei miei zii era già arrivato nel 1888. Le radici politiche dei miei genitori erano decisamente destrorse. Mi ricordo d’aver visto una foto di Nicola II che incontrava una delegazione della comunità ebraica di Russia guidata da Banker Gluckstein, il quale augurava allo zar di trionfare sui suoi nemici. Banker Gluckstein era il fratello maggiore di mio padre. Grazie a dio non credo nella predestinazione, non più di quanto creda che esiste un gene per le idee di destra.

Mio padre era un grande imprenditore che costruì alcuni tronconi della ferrovia dello Hegiaz. Suo socio nell’impresa era Chaim Weitzmann, il primo presidente di Israele. La mia famiglia aveva delle amicizie tra i dirigenti sionisti. Moshe Sharett (più tardi ministro degli Esteri), che visitava di frequente casa nostra, fu per me una specie di professore politico. Quando soggiornavo presso mio zio Kalvarisky a Rehavia, a volte David Ben Gurion passava per domandargli qualche cosa, oppure veniva sua moglie Paula a prendere in prestito un letto pieghevole. Il dottor Hillel Yoffe (dirigente sionista) era anche lui un mio zio. La mia famiglia era impiantata nel cuore della comunità sionista. Questo mi ha reso senza dubbio più difficoltoso rompere con il sionismo.

Il fatto che i miei genitori, come i miei zii e le mie zie, venissero dalla Russia zarista, dove l’antisemitismo era endemico, ha naturalmente rallentato il mio allontanamento dal sionismo. La mia famiglia, come tutte le famiglie originarie dell’Europa, negli anni che seguirono subì gli orrori dell’Olocausto. Ho incontrato pochi dei parenti che furono poi assassinati da Hitler, anche se di molti altri ho sentito parlare. Tra di essi, una delle mie zie che era venuta da Danzica (l’attuale Gdansk) a farci visita in Palestina a metà degli anni ’30. Poi c’era la figlia di mio zio Kalvarisky, che conoscevo molto bene – aveva la stessa età di mio fratello maggiore. Aveva sposato un ebreo olandese con il quale aveva avuto un figlio che aveva cinque anni all’epoca del nostro incontro. Tutti e tre furono inghiottiti dall’Olocausto.

La famiglia di Chanie[1] non soffrì di meno, ma, vivendo in Sudafrica, non ebbe l’occasione di incontrare quelli che furono sterminati. In effetti, probabilmente non c’è una sola famiglia ebrea in Europa o negli Stati Uniti che non abbia qualcuno dei suoi membri scomparsi nell’Olocausto. Gli ebrei orientali, sefarditi e yemeniti, generalmente non sono stati intrappolati in questo modo.

Questa situazione mi prese qualche anno nella transizione dal sionismo ortodosso, attraverso un semi-sionismo con posizioni pro-palestinesi, fino alla rottura completa con il sionismo.

I miei genitori furono molto afflitti quando il giornale locale li informò, nel 1937, che mio fratello maggiore ed io eravamo stati arrestati per aver distribuito scritti antisionisti. Mia madre era in lacrime, ma sentii mio padre rassicurarla in questi termini: «Gli passerà». Fu particolarmente doloroso per loro in quanto ero il prediletto di famiglia, la mia salute era stata cattiva per anni e su di me si riponevano grandi speranze. Non sono riuscito a reggermi in piedi che all’età di due anni e a cinque anni mi portarono a Vienna per consultare uno specialista in reumatismi. Dopo di allora la mia salute migliorò molto.

Differenti circostanze ed avvenimenti provocano l’apparire delle idee socialiste negli individui. Un particolare tipo di oppressione può condurre qualcuno a criticare la società esistente. Nessuno diventa socialista solo perché ha letto Marx – la lettura di Marx è il risultato di una ricerca di spiegazioni alle ingiustizie della società. Allo stesso modo, il socialismo utopistico di Charles Fourier e di Robert Owen – la critica dello sfruttamento e dell’oppressione di classe e l’aspirazione ad una società senza classi – ha preceduto il socialismo scientifico di Marx ed Engels. Ciascun individuo attraversa un’esperienza simile, cominciando col criticare la società per poi cercare dei modi per cambiarla.

Il pungolo specifico che fece di me un socialista fu la condizione miserabile dei bambini arabi, di cui fui testimone. Mentre io avevo sempre delle scarpe ai piedi, vedevo i bambini arabi correre permanentemente a piedi nudi. Un altro problema era l’assenza di bambini arabi nella mia classe a scuola. Non mi sembrava naturale. Dopotutto, i miei figli, nati ed educati in Inghilterra, non sono mai tornati a casa dicendo che non c’erano bambini inglesi a scuola (benché non sarei rimasto sorpreso se avessero detto che non c’erano bambini olandesi, danesi o francesi). Dopotutto, viviamo in Inghilterra. All’età di 13 o 14 anni scrissi un saggio a scuola, come tutti gli altri bambini, ma l’argomento del mio saggio era: «È così triste che non ci siano bambini arabi a scuola». Il commento della mia insegnante fu breve e chiaro. Scrisse: «comunista». Non mi era mai venuta fino a quel momento l’idea di considerarmi come un comunista. Per tutto il resto della mia vita ho provato immensa gratitudine per questa persona. Vorrei molto poterla stringere in un abbraccio.

C’è un altro fattore che attirò la mia attenzione sul problema dell’esclusione dei bambini arabi dalla scuola. C’era nel Paese una piccola scuola in cui i bambini ebrei e quelli arabi erano mescolati. Questa istituzione era stata fondata e finanziata da uno dei miei zii, Chaim Malgarit-Kalvarisky. Era molto agiato, essendo il dirigente dell’organizzazione dei Rothschild in Palestina. Aveva anche fondato un minuscolo gruppo di ebrei ed arabi liberali chiamato Brit Shalom (Lega della Pace). Questo zio era vittima dei sarcasmi di mio padre e di mia madre che lo consideravano un pazzo. Era talmente ossessionato che raramente parlava d’altro che della pace con gli arabi. Chanie riteneva che ci fosse una grande rassomiglianza tra lui e me – eravamo entrambi un po’ disturbati. Mi disse: «Dev’esserci un legame di sangue che lo spieghi». Gli risposi che Kalvarisky era un parente acquisito: aveva sposato la sorella di mio padre. I suoi atti hanno probabilmente concentrato fortemente la mia attenzione sulla questione dell’esclusione degli arabi dalla mia scuola. Mi sono sempre identificato con i paria.

L’ostracismo verso gli arabi non si limitava all’educazione. Essi erano esclusi anche dalle abitazioni di proprietà degli ebrei. Il risultato di questa segregazione fu che durante i 29 anni in cui ho vissuto in Palestina non sono mai stato sotto lo stesso tetto con degli arabi. Infatti, la prima volta che ho vissuto nella stessa casa di un arabo palestinese fu nel 1947, quando alloggiavo in una piccola pensione a Dublino.

Un altro fattore che mi ha condotto ad identificarmi con i palestinesi era il nome che i miei genitori mi avevano dato: Ygael (Gluckstein). Era il nome di un eroe sionista alla John Wayne che aveva massacrato un certo numero di arabi. All’età di 13 anni, cambiai il mio nome in Ygal. Siccome in ebraico non ci sono vocali ma solo consonanti, i due nomi si scrivono esattamente allo stesso modo (יגל) era dunque cosa facile da farsi. L’origine del nome Ygal è la seguente: Mosè inviò 12 spie prese dalle 12 tribù d’Israele nella terra di Canaan per raccogliere informazioni. Due di essi dissero che avrebbero voluto stabilircisi; gli altri dieci erano di avviso contrario. Il primo di questi ultimi che non volle vivere nella terra di Canaan si chiamava Ygal.

L’economia chiusa sionista

I sionisti che erano emigrati in Palestina alla fine del XIX secolo volevano che tutta la popolazione fosse ebrea. In Sudafrica, per contro, i capitalisti e il loro entourage erano bianchi, mentre i lavoratori erano neri. In Palestina, con il bassissimo livello di vita degli arabi rispetto agli europei, e con una disoccupazione, visibile e nascosta, molto estesa, il modo per escludere gli arabi era quello di sbarrargli il mercato del lavoro ebraico. C’era un certo numero di metodi per farlo. Innanzitutto, il Fondo Nazionale Ebraico, proprietario di gran parte delle terre in mano agli ebrei, compresa una grossa porzione di Tel Aviv, aveva un regolamento che insisteva sul fatto che solo gli ebrei potevano essere impiegati su queste terre.

Mi ricordo che nel 1945 un caffè di Tel Aviv fu assalito e quasi distrutto perché correva voce che un arabo vi fosse impiegato come lavapiatti. Ho anche il ricordo, quando mi trovavo all’Università Ebraica di Gerusalemme, tra il 1936 e il 1939, di ripetute manifestazioni contro il vice-rettore dell’università, il dottor Magnes. Era un ebreo americano ricco e liberale, il cui crimine era quello di essere locatario di un arabo. Non c’è probabilmente nessuno studente, ad esempio della London School of Economics, che sappia o a cui importi sapere se il vice-rettore è proprietario del suo alloggio o se lo prende in affitto da un cattolico, un protestante o un ebreo.

Nel marzo 1932, David Ben Gurion, dirigente del Mapai, il partito laburista di Eretz Israel, il futuro Primo ministro dello Stato Ebraico, fece chiaramente sapere che era fortemente contrario all’impiego di lavoratori arabi da parte di ebrei. Egli proclamò:

Nessuno deve pensare che siamo aperti all’esistenza di un impiego non-ebraico nei villaggi. Noi non cederemo, ripeto non cederemo nessun posto di lavoro nel Paese. Ve lo dico conscio delle responsabilità, è meno vergognoso aprire un bordello che estromettere gli ebrei dal loro lavoro sulla terra di Palestina.

Non potete immaginare cosa significassero laggiù quelle semplici parole. I bordelli di Tel Aviv erano tra i migliori, ma non c’era un solo lavoratore arabo nella città.

In questo campo non esistevano reali differenze tra i sionisti di destra o di sinistra. I sionisti di sinistra del Hashomer Hatzair non erano da meno degli altri, e non c’è alcun dubbio che Bentov, uno dei loro dirigenti, avesse ragione quando diceva:

Il Mapai non ha il monopolio della rivendicazione di un lavoro ebraico. Noi siamo per la massima estensione del lavoro ebraico e per il suo controllo nell’economia ebraica[2]

Infatti, in tutti i casi di picchettaggio contro il lavoro arabo non c’è un solo esempio in cui Hashomer Hatzair non vi abbia partecipato, o almeno apportato il suo sostegno.

La federazione sindacale sionista, l’Histadrut (Federazione Generale del Lavoro Ebraica), imponeva a tutti i suoi membri una doppia quota, una per la difesa del lavoro ebraico e l’altra per la difesa dei prodotti ebraici. L’Histadrut organizzava dei picchetti contro i fruttivendoli che impiegavano degli arabi, costringendo i proprietari a licenziarli.

Mi ricordo dell’incidente che segue. All’epoca, Chanie era appena arrivata nel Paese e mi aveva raggiunto in un alloggio vicino al mercato ebraico di Tel Aviv. Un giorno vide un giovane ebreo che camminava fra le donne che vendevano legumi e uova, e di tanto in tanto schiacciava le uova con le scarpe o versava della paraffina sui legumi. Mi domandò: «Ma che fa quello?» Gli spiegai che controllava se le donne erano ebree o arabe. Nel primo caso, andava tutto bene; nel secondo, utilizzava la violenza. Chanie reagì: «È esattamente come in Sudafrica!», da dove era appena arrivata. «È peggio» le risposi, «almeno in Sudafrica i neri possono trovare un impiego».

Chanie arrivò in Palestina nel giugno 1945, e cominciammo a vivere insieme nell’ottobre dello stesso anno. Eravamo disperatamente poveri e la nostra sola entrata era quello che guadagnava Chanie come insegnante di inglese part-time. Noi prendemmo in affitto una camera in una grande e sordida banlieue ai margini di Tel Aviv, costruita su dune di sabbia, senza strade né servizi – cosa che non è stata mai menzionata nella propaganda sionista. Il proprietario era uno yemenita di una comunità chiamata “gli ebrei neri”. Sua moglie, di 25 anni, gravata già di un certo numero di figli, aveva perso tutti i denti ed era magra come un filo. Alla nostra domanda di una camera da affittare il proprietario ci indicò una duna vuota. «Dov’è la stanza?» gli domandammo. «Sarà lì domani», rispose, e con nostro stupore la trovammo lì – una piccola stanza di mattoni con delle piastrelle posate direttamente sulla sabbia. Quando pioveva, l’acqua colava sotto il pavimento, creando un’umidità che ammuffiva le nostre scarpe, i nostri libri e tutto il resto. Per di più, i nostri libri venivano divorati dai topi. La nostra cucina era una casseruola, la nostra illuminazione una lampada di Aladino. I bagni erano dei bagni in comune muniti di scarico. Il nostro letto era una struttura metallica di 80 cm di larghezza, offerta dalle autorità sioniste a tutti gli immigranti, con un avvallamento in mezzo. Era regolarmente infestato dalle pulci, ed ogni settimana organizzavamo una cerimonia di cremazione delle pulci nella nostra casseruola per “celebrare il shabbath”.

Uno dei nostri visitatori un giorno s’appoggiò sulla finestra e tutta la struttura crollò. Questo stesso amico lavorava in un ristorante e a volte ci portava delle salsicce che cominciavano ad andare a male e che non potevano essere servite ai clienti. Per noi era un festino che aggiungevamo alle nostre solite patate, spaghetti e arance. Una volta al mese ci invitavamo al ristorante dove gustavamo carne di cammello, il piatto meno caro del menu. È in questa stanza che ho scritto il mio libro di 400 pagine sul Medio Oriente, che Chanie tradusse in inglese e che dattilografò su una vecchia macchina da scrivere quasi rotta. Non lo fece per meno di otto volte prima che l’opera prendesse la sua forma definitiva.

I genitori di Chanie decisero di emigrare dal Sudafrica in Israele e noi non potevamo lasciargli vedere in che condizioni vivevamo. Riuscimmo, a caro prezzo per i nostri limitati mezzi, a trovare una camera costituita per metà dalla caldaia di un palazzo di appartamenti. Era larga due metri, abbastanza per metterci un letto e un armadio che ci avevano regalato. Ai piedi del letto, un piccolo tavolo con un lato pieghevole per consentire alla porta di aprirsi e chiudersi. Rispetto al precedente, consideravamo questo alloggio lussuoso. Malgrado tutto, il padre di Chanie per poco non svenne quando lo vide, esclamando: «Ma il mio garage è tre volte più grande!».

Quando alla vigilia della nascita dello Stato d’Israele furono operati degli arresti di massa da parte dei britannici, abbiamo dovuto far sparire in tutta fretta i nostri documenti illegali nella tazza del bagno, che rifiutò di piegarsi ai nostri desideri. Fortunatamente, i soldati inglesi procedettero all’arresto senza frugare nel bagno, e noi fummo rilasciati dopo molte ore, durante le quali Chanie parlò in inglese con i soldati per blandirli, cosa che riuscì a convincerli ad abbandonare le indagini sul mio status di persona ricercata.

Tutti i compagni vivevano nella stessa miseria, e, malgrado ciò, facevamo delle sottoscrizioni per sostenere i nostri sul piano internazionale – per esempio il nostro gruppo italiano che si presentò alle elezioni. La quota dei membri del gruppo era pari a una giornata di lavoro per settimana. Tutto questo, e le collette speciali che facevamo, significava che alcuni membri saltavano i pasti per poter pagare.

Mentre il sionismo scavava una profonda trincea che separava gli ebrei dagli arabi, l’imperialismo collaborò nell’impresa. Quando le autorità britanniche in Palestina impiegavano sia degli arabi che degli ebrei per effettuare gli stessi compiti, agli arabi pagavano come salario un terzo di quello che davano agli ebrei. La politica del “divide et impera” era dominante, anche nelle prigioni. Quando fui arrestato nel settembre 1939, fui messo in una prigione di soli ebrei. Le condizioni non erano molto differenti da quelle delle prigioni arabe. Dormivamo per terra – quarantatré persone strette come sardine – in modo tale che la notte era impossibile rigirarsi. Alle sei di mattina, fummo rinchiusi per dodici ore. Un secchio d’acqua serviva per le abluzioni di tutti. L’odore era tremendo. Dal mattino, la nostra prima occupazione consisteva nello spidocchiarci, noi e i nostri abiti. Il nutrimento arrivava sotto forma di un grande calderone, nel quale ciascun prigioniero doveva pescare con le mani alla ricerca di un pezzo di carne, dopo di che la brodaglia veniva versata nelle ciotole individuali. Ma le condizioni migliorarono radicalmente quando fui trasferito in un’altra prigione. Anche questa era di soli ebrei, ma era visibile ai prigionieri arabi che avevano così il piacere di poter comparare il proprio trattamento con il nostro. Improvvisamente, ci diedero dei letti, e una sala docce separata dalla cella in cui dormivamo.

La politica dei laburisti sionisti verso gli arabi era stranamente in contraddizione con le loro reiterate dichiarazioni di simpatia nei loro confronti, nei primi anni della colonizzazione sionista. Così, nel 1915, Ben Gurion poteva scrivere:

In nessun caso i diritti di questi abitanti (gli arabi) devono essere messi in discussione. Solo dei “sognatori del ghetto” come Zangwill possono immaginare che la Palestina possa essere affidata agli ebrei con il diritto di cacciare i non-ebrei dal Paese. Nessuno Stato consentirà una cosa simile. Anche se sembrasse che questo diritto ci sia accordato… gli ebrei non hanno né giustificazioni né possibilità di esercitarlo. Non è proposito del sionismo cacciare dalla Palestina i suoi attuali abitanti; se avesse questo scopo, sarebbe solo una pericolosa utopia, una Fata Morgana reazionaria.[3]

Nel 1920 Ben Gurion scrisse a proposito del fellah, il contadino arabo, e della sua terra, quanto segue:

In nessun caso la terra che appartiene al fellah e che egli coltiva deve essere toccata. Coloro che vivono del lavoro delle proprie mani non devono essere strappati dal proprio suolo, neanche con indennizzi finanziari.[4]

La sorte del lavoratore ebreo è legata a quella del suo compagno arabo. Essi si innalzeranno o cadranno insieme.


affermava nel 1924[5]. Più tardi, nel 1926, disse:

La popolazione araba fa parte in maniera organica e indissolubile della Palestina. Essa ha qui le sue radici, qui lavora e qui rimarrà. Benché nell’epoca attuale non sia impossibile espellere grandi masse di persone da un Paese per mezzo della forza fisica, solo dei pazzi o dei politici idioti possono accusare il popolo ebraico di nutrire un simile desiderio[6].

Il dottor Weitzmann, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale e futuro presidente d’Israele, dichiarò, in un discorso tenuto a Londra l’11 dicembre 1929:

Fino ad oggi non c’è stato alcun caso – e spero non ce ne siano in futuro – in cui un arabo sia stato espulso dalla sua terra, sia direttamente che indirettamente.


Se simili dichiarazioni hanno un qualche valore, si potrebbe citare Jabotinsky, il rappresentante dell’ala sionista più estrema e più avida, quella dei Revisionisti (oggi Likud), che un tempo hanno dichiarato come facenti parte dei loro princìpi fondamentali:

- L’eguaglianza di tutti i cittadini.
- L’eguaglianza dei diritti deve essere mantenuta per tutti i cittadini senza considerazioni di razza, religione, lingua o classe, in tutti i settori della vita pubblica del Paese.
- In ogni governo in cui un ebreo sarà Primo ministro, un arabo sarà suo vice e viceversa…[7]

Malgrado tutto, queste non erano altro che ninne nanne che i sionisti cantavano alla popolazione araba per addormentarla. La logica dello sviluppo del sionismo condusse col tempo a dei cambiamenti nell’atteggiamento verso gli arabi. Più il sionismo avanzava, più alimentava la collera e la resistenza degli arabi. In compenso, questa resistenza instillò fra gli ebrei una paura sempre più profonda degli arabi.

I lavoratori ebrei prigionieri del sionismo

La classe operaia di Palestina era profondamente divisa tra arabi ed ebrei. Essi parlavano lingue diverse – solo una piccola minoranza di lavoratori ebrei capiva l’arabo, e una minoranza ancora più ridotta degli arabi capiva l’ebraico. In qualche azienda c’erano contemporaneamente ebrei ed arabi. Così, ad esempio, fra i circa 5000 salariati delle ferrovie all’inizio degli anni ’40, i quattro quinti erano arabi ed un quinto ebrei. La raffineria di petrolio di Acra impiegava allo stesso tempo arabi ed ebrei, anche lì in maggioranza arabi. Anche i livelli subalterni della funzione pubblica impiegavano salariati delle due comunità. Ma queste erano eccezioni: il 90% dei lavoratori era occupato in impieghi in cui regnava la segregazione.

Un evento, in occasione del quale potei vedere uniti lavoratori ebrei e arabi, mi riscaldò il cuore. Fu all’inizio degli anni ’40, viaggiavo in autobus da Acra ad Haifa. Il bus era pieno di salariati, arabi ed ebrei, della raffineria di Acra. Fra di loro c’erano due membri del nostro gruppo. Questi ultimi cominciarono a cantare degli inni socialisti in arabo. Uno degli arabi gridò: «Cantiamo in ebraico per i nostri fratelli ebrei!» e così fecero. Fu meraviglioso, ma ahimè, è stato come una stella cadente, un breve bagliore in una notte molto scura.

Ideologicamente, il “socialismo sionista” ingannava i propri partigiani, impedendogli di rompere chiaramente con lo sciovinismo e con l’imperialismo, anche se molto spesso alcuni li condannavano entrambi.

Quella che segue è un’illustrazione della complessità del socialismo sionista e delle contraddizioni che lo laceravano. Quando Chanie arrivò in Palestina dal Sudafrica faceva parte dell’ala più a sinistra del movimento socialista sionista – Hashomer Hatzair. Si consideravano marxisti, ed alcuni persino trotskisti. Lei entrò in un kibbutz (fattoria collettiva) che apparteneva al movimento Hashomer Hatzair, nel quale non c’era alcun possesso privato di ricchezza e nessuna proprietà privata. La produzione e il consumo erano collettivi. L’educazione dei bambini era assicurata collettivamente, non c’erano cucine individuali, etc. I membri del kibbutz vedevano in questo l’embrione della futura società socialista. Ed è qui che interviene un paradosso. Poco prima dell’arrivo di Chanie, i membri del kibbutz furono sottoposti ad un test terribile. C’erano quattro kibbutzim e quattro villaggi arabi in quella vallata, attorno ad una collina pietrosa. Tutti i kibbutzim decisero di espellere gli arabi dai loro villaggi situati sulle terre che il Fondo Nazionale Ebraico aveva comprato da proprietari terrieri arabi. Formarono così una lunga falange ai piedi della collina, salendo s’armarono di pietre e le gettarono sugli arabi dell’altro versante. Gli agricoltori arabi avevano coltivato quella terra per generazioni, e non ne avevano ricavato nulla dai loro proprietari. Fuggirono, terrorizzati, e i sionisti si impadronirono di tutta la collina. Fu allora che Chanie decise d’informarsi sull’attività politica dei “trotskisti” in seno ad Hashomer Hatzair, e intraprese un viaggio nel Paese per incontrarli. Li scoprì – erano per la maggior parte, bizzarramente, giovani vaccari – completamente immersi nella vita e nell’economia del loro particolare kibbutz, senza nessun rapporto con i lavoratori e i contadini arabi, e inconsapevoli dei crimini politici dei sionisti.

Un piccolo aneddoto per mostrare fino a che punto all’epoca fossi entusiasta ma ingenuo sul piano politico. Poco dopo lo sgombero degli agricoltori arabi, fui invitato a venire a parlare in quel kibbutz. Il nostro gruppo fu contattato e ci chiesero un oratore. Arrivai nel kibbutz il venerdì pomeriggio, alla fine della giornata di lavoro. Una dozzina di compagni, tutti originari del Sudafrica, vennero per sentirmi parlare. Cominciai a parlare alle due del pomeriggio e continuai fino all’una di mattina. Dopo aver chiesto se c’erano domande (ma senza dare il tempo di parlare) continuai a parlare fino alle quattro di mattina. Qualche giorno dopo, Chanie mi disse: «Capisco l’ebraico meglio degli altri compagni, ma comunque non sono riuscita a seguirti. Parlavi così velocemente che sono riuscita appena ad afferrare parole come “capitalismo”, “socialismo”, “sionismo”, “internazionalismo” e “rivoluzione”. Gli altri non hanno capito nulla». Delusa dalle prospettive di progresso in senso rivoluzionario nel movimento dei kibbutzim, Chanie lasciò il kibbutz, si stabilì a Tel Aviv e cominciammo a vivere insieme. È possibile che uno dei motivi che aveva per farlo fosse il desiderio di capire quello che avevo detto in quell’occasione! Adesso sono 55 anni che viviamo insieme e lei probabilmente non ne sa molto di più. Quanto a me, non me ne ricordo di certo.

I socialisti sionisti erano politicamente ingannati, pensavano che l’avvenire appartenesse al socialismo, che si potesse riconoscere nei kibbutzim l’embrione della futura società socialista (piuttosto che un collettivo di coloni). Ma, nello stesso tempo, la resistenza degli arabi alla colonizzazione sionista doveva essere spezzata; quindi, essi collaboravano con i sionisti pieni di soldi e con le istituzioni altrettanto bene che con la polizia e l’esercito inglesi. I socialisti sionisti tenevano il Manifesto dei Comunisti in una mano e il fucile del colonizzatore nell’altra.

Naturalmente, esisteva un conflitto di classe in seno alla comunità ebraica in Palestina. I lavoratori e i padroni si scontravano sui salari e sulle condizioni di lavoro. Ma l’espansione coloniale sionista soffocava la lotta di classe e gli impediva di prendere la forma politica di un’opposizione al sionismo e all’imperialismo contemporaneamente a quella della solidarietà con gli arabi sfruttati e oppressi.

Le contraddizioni nella coscienza dei lavoratori ebrei in Palestina trovano origine nel fatto che, mentre erano in conflitto con gli arabi, essi venivano da una comunità portatrice di una coscienza socialista. In Polonia, dove all’epoca risiedeva la più importante comunità ebraica in Europa, a Varsavia, Lodz, Cracovia, Lvov, Vilna e in altre grandi città, nel dicembre 1938 e nel gennaio 1939 si tennero le elezioni municipali. Il Bund, che era l’organizzazione dei lavoratori ebrei socialisti ed antisionisti, ebbe il 70% dei voti nei distretti ebraici. A Varsavia il Bund raccolse 17 dei 20 seggi, quando i sionisti non ne ebbero che uno soltanto.

La dipendenza dall’imperialismo

Consapevoli che avrebbero dovuto confrontarsi con la resistenza dei palestinesi, i sionisti hanno sempre saputo di aver bisogno dell’aiuto della potenza imperialista all’epoca più influente in Palestina.

Il 19 ottobre 1898, Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, si recò a Costantinopoli per incontrare il Kaiser Guglielmo. All’epoca, la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano, alleato della Germania. Herzl dichiarò al Kaiser che l’insediamento dei sionisti in Israele avrebbe accresciuto l’influenza tedesca, essendo allora il centro del sionismo in Austria, altro alleato dell’Impero tedesco. Herzl sventolò anche un’altra carota: «Gli spiegai che noi distoglievamo gli ebrei dai partiti rivoluzionari».

Verso la fine della Prima guerra mondiale, quando era chiaro che la Gran Bretagna si sarebbe impadronita della Palestina, il dirigente sionista di quel periodo, Chaim Weitzmann, contattò il segretario del Foreign Office, Arthur Balfour, ottenendo da lui, il 2 novembre 1917, una dichiarazione che prometteva agli ebrei un focolare nazionale in Palestina. Sir Ronald Storrs, il primo governatore militare britannico di Gerusalemme, spiegò che

l’impresa sionista beneficia tanto colui che dà quanto colui che prende, creando a beneficio dell’Inghilterra un piccolo Ulster ebraico lealista in un mare di potenziale ostilità araba.


I sionisti dovevano essere gli “Orangisti” di Palestina.

Con la Seconda Guerra mondiale, divenne evidente che la potenza dominante in Medio Oriente non era più l’Inghilterra, e che gli Stati Uniti ne avevano preso il posto. Ben Gurion, il dirigente sionista del periodo, si precipitò a Washington per concludere degli accordi con gli americani. Israele è oggi il miglior satellite degli USA. Non per nulla Israele riceve più aiuti economici dagli Stati Uniti di ogni altro Paese, pur essendo così piccolo. E riceve anche più aiuti militari di qualsiasi altro Paese al mondo.

Il sionismo non è in vendita; è a noleggio.

Circolo Internazionalista "Coalizione Operaia"

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