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(20 Gennaio 2010)
Uno degli avvelenamenti che da tempo gli italiani subiscono con cadenza pressoché quotidiana è dato dal revisionismo storico. Progetto che, come l’azzurro del partito berlusconiano, ha attirato adesioni che avevano radici anche autoctone. L’attuale orientamento politico, che ha sdoganato neofascisti trasformandoli in ministri della Repubblica, giunge a uno dei suoi passi più ambiziosi: la riabilitazione del mito e padre putativo dell’essenza di chi governa, Bettino Craxi. La campagna di rivalutazione del militante capace e ambizioso che si fece strada dietro il già anziano leader socialista Pietro Nenni per scalare segreteria di partito e agguantare premierato e potere, marcia non solo sulle note dei cortigiani d’un tempo. Accanto alla casta che fa propria la lezione craxiana trasformando la cosa pubblica in affare privato anche il crinale delle Istituzioni più alte cede alla real politik. Il Presidente Napolitano, omaggiando con una lettera la vedova dell’ex premier ricordato come “statista”, fatto in palese contraddizione con la sua latitanza, compie egli stesso un gesto di profondo revisionismo.
E’ l’ennesimo schiaffo alla verità storica, al popolo e agli stessi socialisti che credevano in un sano riformismo, promessa mancata per la nazione già all’inizio degli anni Sessanta. Anziché attuare riforme strutturali i governi dell’allora Centro-sinistra perseguivano una lottizzazione d’ogni leva di comando che perpetuava iniquità sociali contro le quali il movimento operaio e militanti socialisti, comunisti, libertari s’erano battuti per decenni. In più tale spartizione inquinava l’ideale d’una trasformazione riformista del Paese. Negli anni del boom quel Centro-sinistra sosteneva uno sviluppo basato sul consumistico benessere d’un mercato asservito a una crescente tecnocrazia. Secondo la famosa lezione pasoliniana non lo coniugava a un vero progresso, inteso come emancipazione delle classi subalterne, e tutto ciò rese claudicante l’economia. Dopo l’accelerazione del secondo dopoguerra venne deciso un abbandono dell’attività agricola a favore di quella industriale, poi la dismissione anche di quest’ultima per un terziario dei servizi, anticamera dell’affarismo illecito.
Il rampante Craxi cavalcava un vizio sicuramente già presente nel Paese, che egli comunque elaborò prima, durante e dopo i mille giorni da premier nel duplice piano dello Stato forte e corrotto. Il suo progetto presidenzialista, mascherato da riforma costituzionale, vagheggiava un bonapartismo già sognato da Fanfani, che non a caso lo precedette e seguì a Palazzo Chigi prima di eclissarsi definitivamente. Un disegno autoritario para golpista con la prima P2 di Cefis, ripreso poi dalla P2 di Gelli nella quale lo scaltro Craxi aveva piazzato propri luogotenenti. Il passo apertamente eversivo della Loggia non trovò spazio perché gli venne preferito il binario democratico e consociativo con le forze d’un pentaparito dialogante col riformismo destorso dei comunisti amendoliani, i sostenitori dei sacrifici a senso unico per operai e lavoratori dipendenti. L’aggressione alla difesa del salario attraverso l’abolizione della scala mobile, approvata con voto di fiducia, e la ferrea opposizione al referendum abrogativo, mostravano la metamorfosi tatcheriana e reganiana del socialismo craxiano.
Al walfare esso preferì un liberismo senza tutele anticipatore della precarizzazione del lavoro avviata da Giugni e proseguita dai giuslavoristi finiti nella cieca mattanza delle nuove Br. I giochi di bilancio di ministri e consiglieri craxiani, alla Formica e Amato, che facevano diminuire l’inflazione ma schizzare il debito pubblico fino a cifre iperboliche, hanno avviato quegli squilibri accumulatori nei conti pubblici diventati il cancro della Prima e della Seconda Repubblica. Per tacere del lancio d’un falso decisionismo anche in politica estera, con gli episodi di Sigonella, della vita salvata a Gheddafi dalla punizione statunitense, ma quanti ricordano come la nostra partecipazione alle forze multinazionali Nato in Libano proseguiva pedissequamente col ministro craxiano Lagorio? E che dire dell’antiperialismo a favore dei generali argentini in conflitto per le Falkland, dell’appoggio alla causa palestinese vissuto come rapporto personale con un Arafat raìs ormai dialogante con Israele, dell’aiuto al “compagno” Siad Barre o del sostegno al golpe del tunisino Ben Ali, diventato nel tempo amico personale e protettore della sua latitanza?
Attualmente nessun politico ricorda questi fatti. Solo l’ex magistrato, ora parlamentare Di Pietro ha ribadito quanto lo statista Craxi fosse in debito con la giustizia e con lo Stato che depredava. Naturalmente in buona compagnìa di compari ipocriti che non risposero alla sua chiamata di correo, pronti a riciclarsi sotto nuove sigle. Alcuni sono gli stessi che oggi ne chiedono la beatificazione, riscrivendo a proprio vantaggio la storia di un’usurpazione nazionale. Penoso è il silenzio di chi cavalcando l’onda tace e s’inchina.
19 gennaio 2010
Enrico Campofreda
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