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(17 Novembre 2010) Enzo Apicella
Presentato il report Inail: gli omicidi sul lavoro nel 2009 sono stati 1021

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(Di lavoro si muore)

Intervista a Mirko, ex operaio della ThyssenKrupp di Torino

attivista dell’Associazione Legami d’Acciaio (lavoratori della Thyssen e famigliari delle vittime della strage del 2007) e dell’Assemblea Lavoratori autoconvocati Torino (A.L.A.To)

(14 Aprile 2010)

La strage della Thyssen è diventata un simbolo degli omicidi in nome del profitto: ha generato un’ondata di indignazione, rabbia; attorno agli operai morti quella notte, ai loro compagni e alle loro famiglie si sono strette non solo le masse popolari e i lavoratori di Torino, ma dell’Italia intera. Anche le istituzioni hanno “tuonato”: dal presidente della Repubblica alle più alte cariche del Parlamento (all’epoca dei fatti era in carica il governo Prodi). Vuoi spiegare brevemente cosa è rimasto concretamente degli impegni e delle promesse delle istituzioni sia per quanto riguarda il vostro futuro, sia per quanto riguarda i passi concreti per prevenire le morti sul lavoro?

La strage della ThyssenKrupp è stata una “occasione mancata”. Dopo lo sdegno e la commozione iniziali le istituzioni non hanno fatto un granché, anzi. Un esempio su tutti sono le leggi ad personam di Berlusconi, e in particolare il processo breve… Non istituisce l’immunità solo per Berlusconi, ma anche per i padroni coinvolti nei processi per morti sul lavoro, è un regalo di questo governo a Confindustria e riporta la situazione indietro, a prima dell’entrata in vigore del Testo Unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e in particolare trasforma alcuni articoli di legge che prima prevedevano condanne penali per i padroni, adesso solo multe.

Questo, in sostanza, è l’atteggiamento delle istituzioni.

Poi c’è da ricordare che il Comune di Torino qualcosa l’ha fatta: dichiarazione del 2008 come “anno per la sicurezza sui luoghi di lavoro”, mostre fotografiche, dibattiti e convegni. Insomma, ha promosso iniziative per “sensibilizzare” sull’argomento. Ma al processo contro i dirigenti della ThyssenKrupp è emerso quanto proprio le istituzioni comunali e regionali, che hanno un ruolo specifico nel verificare e controllare la sicurezza sui luoghi di lavoro, in realtà non hanno chiaro nemmeno loro il loro ruolo e l’importanza del loro lavoro. Mi riferisco alla ASL, allo SPRESAL (Servizio Prevenzione e Salute negli Ambienti di Lavoro) e al CTR (Comitato Tecnico Regionale): chiamati a testimoniare hanno dimostrato cosa intendono per “controlli”: una visita veloce agli impianti, annunciata in anticipo perché – parole loro – “non vogliono giocare a guardie e ladri”, la compilazione di moduli che attestano che tutto è in regola... Alla linea 5 della Thyssen (quella dove è avvenuta l’esplosione il 7 dicembre 2007) il CTR era venuto a gennaio 2007 e poi ancora a giugno 2007. Gli addetti hanno compilato il modulo “tutto in regola” e hanno aggiunto la nota “prendiamo atto che l’azienda si rifiuta di apportare le migliorie prescritte adducendo che a giugno 2008 chiuderà gli impianti”. Tutti sapevano che non c’era nulla a norma, ma dal verbale risulta il contrario. E quando al processo Guariniello ha chiesto ai tecnici del CTR “ma avete parlato con i lavoratori?”, hanno risposto di NO, che avevano parlato con i dirigenti….

Ma 10 giorni dopo la strage è arrivata la certificazione del CTR che attestava: tutto in regola.

Per quanto riguarda il destino degli operai, il nostro, la situazione non è stata molto diversa. La fabbrica sarebbe stata chiusa a giugno 2008 e come succede per decine e centinaia di fabbriche, sarebbe stata una chiusura destinata a passare sotto silenzio. Ma sarebbe stato, anche quello, un dramma. Perché l’industria dell’acciaio crea una propria economia attorno alla produzione principale: oltre ai 400 posti di lavoro persi con la chiusura della Thyssen ne sarebbero stati persi altri centinaia (in totale si può calcolare intorno ai 1200 posti di lavoro persi) solo nella provincia di Torino. Dopo la strage siamo stati messi in cassa integrazione e Comune e Provincia ci hanno proposto corsi di formazione. Ma era un palliativo, il preludio all’espulsione dal lavoro, alla disoccupazione.

In sintesi: una strage con 7 operai uccisi perché la direzione si è rifiutata di procedere alla manutenzione degli impianti, 400 operai in cassa integrazione e sull’orlo della disoccupazione e un’azienda con un utile di miliardi di euro solo nel campo dell’acciaio!

L’Associazione Legami d’Acciaio, con quali obiettivi l’avete costituita? E quali attività ha promosso e svolto?

L’Associazione nasce dalla volontà di impedire che il tema della scurezza sui luoghi di lavoro venisse dimenticato in fretta, dopo il clamore iniziale, come succede troppo spesso. La strage della Thyssen è un simbolo delle morti per il profitto: è successo a Torino, una fra le principali città operaie, e non in un paesino della provincia; è successo in una multinazionale e non in una piccola azienda, sono morti 7 lavoratori… non potevamo permettere che fosse dimenticata.

E infatti, dopo la strage della Thyssen si parla molto di più della sicurezza e della prevenzione e questo anche grazie all’attività promossa dall’associazione che, dal giugno 2008, ha organizzato iniziative sul tema coinvolgendo le istituzioni, organizzazioni democratiche e progressiste – come Medicina Democratica – e altre organizzazioni e associazioni in Piemonte e nel resto d’Italia. Questo lavoro di contatti, relazioni, iniziative comuni ha portato l’Associazione a confluire nella Rete Nazionale per la sicurezza sui Luoghi di Lavoro, una rete che raccoglie alcuni sindacati di base, organizzazioni, associazioni di famigliari di vittime sul posto di lavoro, organizzazioni democratiche e progressiste e singoli.

Da una parte la lotta per il ricollocamento, dall’altra quella per avere giustizia al processo contro i dirigenti della Thyssen, poi l’adesione all’Associazione alla Rete Nazionale per la sicurezza sui luoghi di lavoro… sei in grado di fare un bilancio di due anni di attività e di lotta?

Il principale risultato ottenuto dall’associazione Legami d’Acciaio è stato quello di non disperdere i lavoratori, di riunirli, di metterli in contatto fra loro… anche perché prima, quando si lavorava, non era facile conoscersi tutti, distribuiti sui turni e sulle linee. E’ stato un risultato fondamentale, necessario per promuovere la costituzione degli operai come parte civile al processo. Il processo contro i dirigenti della Thyssen è il primo caso in Italia in cui non solo i famigliari della vittime sono parte civile, ma anche i lavoratori sopravvissuti.

Proprio la decisione di costituirsi parte civile al processo è uno dei punti centrali dello scontro fra i lavoratori e i dirigenti, che sta anche influenzando il futuro di quanti si sono costituiti…

In che senso?

Inizialmente in circa 100 operai avevamo deciso di costituirci parte civile. E’ stato un lavoro impegnativo anche perché, come ho detto, non c’era un precedete. L’azienda è “corsa ai ripari” e ha proposto la firma del verbale di conciliazione (che in genere viene firmato da ogni lavoratore quando finisce il rapporto di lavoro) con una buonuscita di qualche migliaia di euro ciascuno, a patto però di sottoscrivere anche alcuni articoli del codice civile, appositamente aggiunti come clausola, che in sostanza obbligavano il lavoratore firmatario a rinunciare a qualunque azione legale contro la ThyssenKrupp, quindi anche a costituirsi parte civile al processo.

Qualche decina di operai ha firmato: da una parte per “questioni economiche” (e non mi sento di condannarli!), in parte perché questa operazione sporca è stata avallata e promossa dai sindacalisti della UIL che si sono fatti loro portavoce dell’azienda. Il tutto è stato presentato in modo ingannevole: “vuoi gli incentivi economici? Allora firma questo verbale!” senza che fosse spiegato a che cosa obbligava.

Ma non è finita. Alla maggioranza dei lavoratori che hanno firmato il verbale di conciliazione l’azienda ha trovato un’altra occupazione, un altro lavoro. Noi che ci siamo costituiti parte civile siamo stati discriminati: la Thyssen ha fatto il possibile per sbarre la strada a un nostro ricollocamento…

Comunque, riprendendo il discorso di prima, con l’Associazione Legami d’Acciaio abbiamo promosso la partecipazione alle udienze, abbiamo fatto presidi e volantinaggi e abbiamo promosso la solidarietà nei confronti dei famigliari delle vittime di altre “tragedie”. Le mobilitazioni più significative, anche vista la carica emotiva, sono state le manifestazioni organizzate per gli anniversari della strage – il 6 dicembre 2008 e 2009 – per ricordare non solo i lavoratori della Thyssen ma TUTTI i lavoratori morti sul posto di lavoro. E poi in particolare voglio ricordare la mobilitazione in occasione della prima udienza del processo Eternit: fuori dal tribunale un presidio con centinaia di persone provenienti da tutta Italia, da Francia, Belgio, Olanda…

Il principale limite che abbiamo riscontrato, a mio avviso, riguarda la nostra scarsa capacità organizzativa, soprattutto all’inizio: non abbiamo mai avuto il sostegno dei sindacati e abbiamo dovuto imparare a fare tutto da soli, solo strada facendo abbiamo compreso quali erano i punti di forza su cui fare leva per estendere la mobilitazione.

A inizio 2010 avete promosso come Collettivo (ex) operai Thyssen una lotta per fare fronte alla scadenza imminente della cassa integrazione e per ottenere il ricollocamento. Ci vuoi parlare di questa esperienza? Come siete arrivati alla decisione di quella lotta e cosa avete ottenuto?

Anche in questo caso il già citato verbale di conciliazione è stato un’arma con cui l’azienda ha tentato di ricattarci. A fine febbraio scadevano i termini della Cassa integrazione e sarebbe iniziata la mobilità, l’anticamera del licenziamento. Abbiamo chiesto un incontro con l’azienda per ottenere la cassa in deroga, al tavolo partecipavamo noi, i sindacati (!), l’azienda e le istituzioni, la Regione. Ma abbiamo fatto saltare il tavolo nel momento in cui il capo del personale ha annunciato che la Thyssen avrebbe richiesto al governo la cassa in deroga, a patto che tutti i lavoratori avessero formato il verbale di conciliazione. Insomma, ci hanno riprovato!

Il giorno stesso, usciti dalla riunione, abbiamo fatto un’assemblea per decidere il da farsi e abbiamo deciso di presidiare permanentemente il Palazzo della Regione. In realtà la Regione non si opponeva alla richiesta di cassa in deroga, ma abbiamo scelto il palazzo regionale per fare delle nostre rivendicazioni un problema politico e per fare pressione sulle istituzioni affinché si schierassero contro l’azienda.

Dopo 5 notti e 4 giorni di presidio la Thyssen ha fatto un passo indietro.

Avete raccolto tanta solidarietà al presidio?

Il presidio è durato solo 4 giorni ed è stato deciso in maniera repentina, quindi la solidarietà che abbiamo raccolto e ricevuto è stata principalmente il frutto del clamore che la notizia ha avuto tramite i mezzi di informazione: c’erano infatti giornalisti, fotografi, televisioni che hanno dato grande risalto alla lotta. Comunque in così poco tempo ci hanno portato solidarietà i lavoratori Agile / Eutelia, studenti universitari, alcuni operai di altre fabbriche, esponenti politici e il Presidente del Consiglio Comunale di Torino. Al presidio si è svolta anche una riunione delle organizzazioni torinesi che aderiscono alla Rete Nazionale per la sicurezza sui Luoghi di Lavoro.

E’ per questa solidarietà che l’azienda ha fatto un passo indietro?

Sì, in parte sì, sicuramente. In definitiva credo che la mossa di presidiare il Palazzo della Regione sia stata giusta perché in effetti ci ha messo nella condizione di far conoscere in lungo e in largo la nostra lotta, la nostra rivendicazione e di denunciare il comportamento della Thyssen, il ricatto sul verbale di conciliazione. Tanto che risolutiva nella soluzione positiva della lotta, è stata una lettera che Sacconi ha scritto alla Thyssen e per conoscenza alla Regione Piemonte (e quindi ai mezzi di informazione) che “ordinava” all’azienda di ritirare il ricatto e firmare la richiesta di cassa in deroga senza condizioni. Insomma, con questo presidio abbiamo messo le istituzioni (e anche il governo della banda Berlusconi!) contro la Thyssen.

Un “effetto collaterale” della vostra mobilitazione per la riassunzione è il coordinamento con altri lavoratori in lotta contro licenziamenti e precarietà. Dalla tua esperienza, quanto incide la determinazione, l’organizzazione e il coordinamento fra lavoratori, precari, operai, nella lotta per fare fronte agli effetti della crisi?

Da questa esperienza abbiamo imparato quanto è importante osare…nel nostro caso osare per sfruttare la grande attenzione mediatica per mettere alle strette l’azienda. E abbiamo imparato quanto è importante il coordinamento fra lavoratori, è la principale forma per scambiarsi esperienze.

Il 27 marzo è nata l’Assemblea Lavoratori Autoconvocati di Torino (A.L.A.To) a cui aderiscono lavoratori di diverse aziende in lotta: Agile / Eutelia, Omnia, Azimuth, Lear e altri, dai lavoratori della scuola a quelli delle biblioteche dell’università; ognuno è presente indipendentemente dall’appartenenza o meno a sindacati, sia la CGIL o FIOM o sindacati di base. Il coordinamento non è “concorrente” dei sindacati, ma piuttosto lo intendiamo come uno stimolo, come un ambito che propone e spinge i sindacati a promuovere lotte, mobilitazioni e solidarietà fra i lavoratori.

Che conclusioni avete tratto come Collettivo da questa lotta? E tu personalmente? Ci vedi degli insegnamenti validi anche per gli altri operai e i lavoratori che hanno di fronte lo stesso problema (difendere posti di lavoro e redditi)?

La nostra situazione era ed è particolare, come in realtà i lavoratori di ogni azienda vivono una situazione particolare: ci sono quelli la cui azienda è fallita, quelli che sono in cassa integrazione, quelli che non prendono lo stipendio da mesi… è vero però che tutti siamo accomunati dalla condizione di dover trovare una soluzione per non pagare la crisi dei padroni.

Ciò che noi abbiamo imparato dalla nostra esperienza è l’importanza di promuovere lotte e mobilitazioni che ci rendono visibili…troppe aziende chiudono nel silenzio e i lavoratori sono abbandonati a loro stessi.

La vostra esperienza in piccolo conferma la lezione della INNSE, ma anche dell’Alcoa, della FIAT, della Vinyls, dell’Eutelia, ecc.: oggi come oggi difendere i posti di lavoro esistenti (e crearne di nuovi: in Italia ci sono quasi 17 milioni di persone in età e in condizione di lavorare che sono escluse dal lavoro o comunque da un lavoro stabile, sicuro e dignitoso!) è una questione principalmente politica, non economica…

Sì, la questione della difesa dei posti di lavoro è politica. Anche questo viene fuori dalla nostra lotta: aver presidiato il Palazzo della Regione ha messo in moto un meccanismo politico che dai Consiglieri Regionali è arrivato a muovere Sacconi…

Di fronte a una crisi economica che falcidia posti di lavoro, non pensi che l’unico modo per invertire la rotta è che il governo affidi a ogni azienda compiti produttivi ben definiti (non dannosi per l’ambiente e la salute dei lavoratori e pubblica) e le risorse necessarie per svolgerli e assegni a ogni adulto un lavoro socialmente utile? E che sia anche l’unica strada alternativa a quella indicata dalla Lega e affini, cioè mobilitare e organizzare una parte dei lavoratori per mantenere lavoro e reddito a scapito di altri lavoratori: oggi gli immigrati, domani i lavoratori del sud, dopodomani i lavoratori di altri paesi?

Sì, penso che sia tutto giusto e anche vero. Ma onestamente, chi spinge un governo a prendere misure simili?

Il governo deciso a fare queste cose può essere solo un governo sostenuto dai coordinamenti di lavoratori, dalla sinistra delle organizzazioni sindacali, dalle altre organizzazioni popolari e composto dai loro dirigenti ed esponenti, da quanti oggi godono di fiducia, autorità e influenza presso gli operai e il resto delle masse popolari: dai Rinaldini ai Grillo, ai Gino Strada, ecc. Quali sono a tuo avviso gli elementi su cui fare leva per rendere cosciente e diffuso l’obiettivo di instaurare un governo simile fra gli operai, i lavoratori, i precari? E gli ostacoli? Anche a partire dalla tua esperienza e dalla tua visione delle cose…

Credo che la condizione per creare un percorso simile sia quella di riuscire a sviluppare una grande mobilitazione finalizzata a fare pressione sulle istituzioni. Attraverso la mobilitazione è possibile anche superare la sfiducia di moltissimi lavoratori che, onestamente, di una proposta simile, a mio avviso, pensano che è poco “concreta” e troppo di prospettiva. Faccio un esempio e mi spiego meglio: in generale le lotte dei lavoratori sono tutte in difensiva… esiste ed è diffusa la percezione che la soluzione ai licenziamenti è politica, ma in effetti la discussione su proposte e prospettive non è ancora sviluppata. In generale si parla, nelle assemblee e nelle riunioni, soprattutto di organizzare iniziative o fare volantinaggi, ecc. E non è nemmeno ben chiaro che cosa significa “mettere al centro la politica”: ad esempio ho personalmente proposto, anche in virtù dell’esperienza con il collettivo ex operai Thyssen, di portare la nostra lotta dentro i Consigli Comunali, Provinciali e Regionali… insomma di obbligare le istituzioni a discutere a carte scoperte di come far fronte alla crisi…ma questa proposta non è stata valorizzata e sviluppata. Ecco, prevale una tendenza di difesa, rivendicativa….

Come vuoi concludere questa intervista? Hai considerazioni, annunci, riflessioni…

Forse una considerazione generale, che riguarda un aspetto politico. Da una parte credo che la soluzione per fare fronte alla crisi sia politica e sono anche sostanzialmente d’accordo con la prospettiva di un governo di emergenza, un governo di Blocco Popolare, come lo chiamate. Ma sono anche convinto che un limite determinante sia la divisione e la frammentazione della sinistra del nostro paese… possibile che ci siano sempre “altre questioni” che vengono prima delle proposte e delle prospettive comuni e unitarie per risolvere i problemi reali, per coinvolgere i lavoratori, per lottare per obiettivi comuni?

Supplemento a Resistenza n. 4 – aprile 2010

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