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Viaggio nelle carceri 2 – Intervista al giudice Morosini

(7 Settembre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.dirittidistorti.it

Di Paola Moroni - Piergiorgio Morosini, giudice per le indagini preliminari a Palermo e membro della Giunta dell’Associazione nazionale magistrati, è autore della prima sentenza del processo Gotha perché alcuni imputati hanno scelto il rito abbreviato e sono stati giudicati in fase di udienza preliminare.
Ha fatto parte dal 2006 e fino al 2008, con il governo Prodi, della commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta da Giuliano Pisapia. Quella commissione ha redatto una riforma del codice che giace dimenticata in Commissione giustizia al Senato...

Partiamo dalla modifica del codice di procedura penale voluta dal ministro Carfagna che ha imposto l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere nel caso di reati di violenza sessuale e che è stata dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Consulta...
Si è trattato di un messaggio simbolico della politica alla richiesta emotiva dell’opinione pubblica. In questo caso la scelta è stata molto forte tanto da essere parzialmente bocciata dalla Corte Costituzionale. La modifica non andava ad inasprire le pene per il reato ma a toccare la custodia cautelare che è quella che si eroga a una persona che non ha ancora subito un processo e che quindi non è stata ancora condannata. La custodia cautelare in carcere per i reati comuni è prevista solo in tre casi: pericolo di fuga, pericolo di inquinamento delle prove, reiterazione del reato. Nel nostro ordinamento giuridico la custodia cautelare in carcere è obbligatoria soltanto per i reati di mafia.
Si è trattato di una risposta al bisogno di sicurezza più volte denunciato dai cittadini e cavalcato dalla politica…
Una risposta che non opera una razionalità delle scelte. Il problema della sicurezza è concentrato soprattutto nella microcriminalità e il ventaglio di misure che andrebbero adottate dovrebbe prevedere degli investimenti soprattutto per la prevenzione dei reati anche attraverso il coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni. Non dimentichiamo che un terzo della popolazione detenuta è in attesa di giudizio e che i casi di assoluzione sono significativi. Il carcere per una persona innocente è una macchia indelebile che compromette rapporti familiari, lavorativi e sociali. Eppure tutta la nostra legislazione è sempre più “carcerocentrica” e i continui tagli economici alla giustizia hanno fatto sì che il reinserimento sociale, previsto dalla nostra Costituzione, non sia più attuabile e che addirittura non siano nemmeno garantite le condizioni minime di vivibilità.
Per questo ogni anno la politica annuncia l’emergenza carcere e denuncia un sovraffollamento da democrazia non avanzata. Questo governo ha progettato la costruzione di nuovi edifici carcerari…
Il nostro sistema penale risale al 1930 e sono almeno 30 anni che la politica risponde all’emergenza o con atti di clemenza o con piani di edilizia carceraria. Bisogna però pensare che una volta terminata la costruzione di nuove carceri, i detenuti saranno sempre troppi rispetto alla capienza degli edifici, proprio perché il nostro codice prevede che ad ogni reato corrisponda una pena carceraria e non una misura alternativa. Penso ai codici di altri Stati che invece, ad esempio, comminano interdizioni dallo svolgere professioni o dallo svolgere attività economiche, come accade negli Stati Uniti ad esempio. Sia chiaro, sono favorevole a investimenti nell’edilizia carceraria perché spero che almeno si ripristineranno condizioni di vita dignitose per i detenuti ma non è la soluzione al problema del sovraffollamento e della sicurezza. Negli anni 70 in Italia era stata scelta una strada che portava a investimenti per il reinserimento nella società dei condannati e con la legge Gozzini si è cercato di investire per evitare la recidività del reato. Una strada che è stata abbandonata a favore della sola neutralizzazione del soggetto pericoloso con il carcere.
E questo ha provocato un cortocircuito: processi infiniti, carceri piene di detenuti in attesa di giudizio e paradossalmente boss mafiosi che escono dal carcere perché scaduti i termini di custodia cautelare. Una enorme contraddizione.
Perché sulla macchina investigativa e giudiziaria grava anche la mancanza di investimenti (mancano mezzi e personale) quindi il giudizio non arriva in tempi brevi. Neppure il cosiddetto “processo breve” risolve l’inefficienza del sistema: è un provvedimento che adotta come soluzione l’assoluzione quando si “viola la durata ragionevole del processo”. È l’ennesima prova di quanto sia necessaria una riforma globale e condivisa del sistema penale invece di provvedimenti che sbarrano la strada all’azione investigativa tipo il decreto sulle intercettazioni. Faccio alcuni esempi: non avremmo scoperto gli autori del delitto D’Antona se non avessimo potuto utilizzare le telefonate fatte dai brigatisti dalle cabine telefoniche; non avremmo potuto catturare Provenzano se non fosse stato possibile intercettare conversazioni in ambienti dove non erano stati commessi dei reati.
Quanto conta l’obiettività e quanto l’interpretazione del giudice nella formulazione di una sentenza…
Sarebbe ipocrita non voler riconoscere che la propria cultura, il proprio vissuto non influenzi l’operato di un giudice, ma la sentenza deve rispondere alla legge e alla Costituzione e il nostro sistema prevede che se si commette un errore l’errore possa essere corretto. Credo che una maggiore trasparenza e quindi consapevolezza dei cittadini rispetto all’operato del giudice possa aiutare una coscienza critica del sistema giudiziario. Trovo necessario inserire nella motivazione della sentenza i motivi che hanno condotto ciascun giudice a quella scelta, questo sarebbe un atto di doverosa chiarezza. Ovviamente mi riferisco soprattutto alle corti collegiali e non al giudice monocratico. Succede che dei giudici operino delle scelte e si mascherino nel collegio. Ci sono casi in cui per arrivare a sentenza il collegio giudicante trova un compromesso e sentenze che hanno risentito di vere e proprie spaccature tra giudici. Sarebbe opportuno rendere pubblica l’opinione del dissenziente e quali motivazioni hanno guidato la corte a formulare quella precisa scelta. Penso al caso Welby ad esempio, o anche alla sentenza sul lodo Mondadori nella quale un solo giudice ha imposto la sua opinione agli altri due che non conoscevano gli atti. Sarebbe un atto di grande responsabilità della magistratura nei confronti dei cittadini che avrebbero così la possibilità di esercitare un pieno controllo critico.
Questo consentirebbe anche ai giornali di pubblicare resoconti dei processi più dettagliati…
Certo, anche perché il racconto ai cittadini di quanto succede durante un processo e quindi il racconto della “verità” sta in mano alla stampa e non ai giudici.

6-9-10

www.dirittidistorti.it

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