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Mezza piena o mezza vuota?

Mezza piena o mezza vuota?

(22 Gennaio 2011) Enzo Apicella

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I dittatori democratici del Maghreb nutriti dai governanti d’Europa

(12 Gennaio 2011)

rivolta in tunisia

Se fosse una questione di baguette tutto si ridurrebbe a un assalto ai forni di manzoniana memoria. Non lo è in Tunisia, né in Algeria, né nelle altre autocrazie maghrebine o nordafricane che sotto dinastie coronate e presidenziali o leadership un tempo carismatiche si ritrovano regimi molto aiutati da quello che c’è più a nord oltre il mare: l’Unione Europea. L’interesse certamente è reciproco, segnato dal mercato, e se nonostante la smania di crescita che tutta l’Africa mediterranea palesa tuttora la voce export di questi Paesi sopravanza l’import è perché la vecchia Europa aumenta la sua fame di manodopera e sete d’idrocarburi. Il business corre sulle sponde del Mediterraneo eppure decine di milioni di maghrebini non se ne avvantaggiano a causa dei propri governanti. L’Ue, guardando il suo particulare, chiude entrambi gli occhi di fronte a leader che ripropongono soluzioni antiche a nuovi malcontenti, scegliendo la mano dura, la repressione che dà la morte anche a giovani e adolescenti, cioè il 60-70% dell’intero Maghreb. L’esempio tipico sono le fortune cui è assurto l’ora contestatissimo e anziano presidente Ben Alì grazie al volere del nostrano Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) suo mallevadore per il colpo di stato strisciante dell’87. Lo confessò, testimoniando davanti alla Commissione stragi dodici anni più tardi, l’ex capo del Sismi Martini. In tutto quel tempo e ben oltre l’Italia è diventata il secondo partner economico del governo di Tunisi e ne ha sostenuto la crescita. Imprenditori, politici e politici-imprenditori hanno inanellato in quella terra affari pubblici e personali. Quanto solo a menzionare squilibri sociali o quell’assenza di libertà d’espressione che i blogger vivono e i media europei non confrontano con le situazioni cinesi o iraniane, nessuno ha mosso e muove un dito. Anzi il nostro Ministero degli Esteri avalla le posizioni del vertice politico tunisino, reo d’aver fatto 14 vittime, a suo dire, radio Kalima ne conta invece una cinquantina.

Chi oggi grida, si scontra, muore sotto i colpi di esercito e polizia nelle periferie maghrebine è un ragazzo senza denaro e senza futuro, affamato e avvilito dal carovita. Più angosciato, quanto a vuoto di prospettive, dei non dissimili coetanei contestatori in Occidente, dai quali certo li differenzia l’impossibilità di avere il salvagente sociale di famiglie che hanno visto il benessere mentre l’impulso economico in Tunisia, Algeria, Libia, Marocco è appannaggio di ristrette caste legate a potere e corruzione. Sono loro a scippare il benessere collettivo. Anche i ragazzi di questo pezzo d’Africa hanno studiato, sono i khobzisti (disoccupati, ndr) intellettuali che vantano almeno un diploma rispetto ai padri che ad Algeri si scrollavano di dosso il piede coloniale francese. Eppure il colonialismo di ritorno ha da tempo vinto la sua battaglia grazie alla mano dell’economia globalizzata che si prende con gli interessi quel che offre sotto forma d’investimento strutturale e di servizi. Come ogni società quella magrebina ha bisogno di bere, pulire strade, smaltire rifiuti, muoversi su rotaia, multinazionali che si chiamano Veolia lo fanno per lo Stato. E’ la privatizzazione appaltata al capitale straniero che ritorna in possesso di ciò che aveva dovuto lasciare per rivolte e indipendenza. Alcuni magnati locali ci guadagnano, la popolazione deve accontentarsi al massimo di manodopera. Però anche se hai studiato, se sei ingegnere e hai ventisei anni rischi di non trovare neppure un posto da autista dei trasporti appaltati e devi arrangiarti a vendere frutta, illegalmente, come il giovane che in una protesta disperata ha fatto il bonzo. Solo in qualche caso l’imperialismo di ritorno viene minimamente contenuto: l’Algeria non ammette più del 40% di capitale straniero nel settore privato interno; in Libia Gheddafi agita periodicamente lo spettro della nazionalizzazione per capitali e imprese estere. Si tratta d’un palese gioco delle parti. La realtà vede da decenni gruppi di potere legati alle famiglie di governo (è il caso di Gheddafi ma anche di Ben Alì, Mohammed VI, Mubarak) che accantonano fortune, le fanno accumulare a ristretti gruppi imprenditoriali e, l’abbiamo detto, non favoriscono una distribuzione sociale delle risorse.

Quest’aspetto dovrebbe essere considerato nei rapporti che l’Unione Europea stabilisce col Maghreb in base a quanto è sancito dalla Politica Europea di Vicinato (Pev) e dal cavallo di battaglia del presidente Sarkozy, l’Unione del Mediterraneo. Invece i vecchi vizi del craxismo con Ben Alì - avallati anche da altri governanti d’Europa tanto che il premier tunisino dopo 23 anni di corruzione, repressione e brogli elettorali è ancora al suo posto - continuano a perpetuarsi. Il riferimento può apparire scontato perché i protagonisti, Berlusconi e Gheddafi, incarnano da tempo il peggior volto della politica. Sono però come i Ben Alì e Bouteflika capi di governo e decidono le sorti delle nazioni che rappresentano. Prendiamo il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione sottoscritto recentemente dai due. Come hanno notato molti osservatori esso stabilisce una sorta di monopolio delle imprese italiane nel Paese libico. In più c’è lo scambio di favori che parte da lontano con la riparazione per i danni del passato coloniale quantizzati in cinque miliardi di euro che l’Italia deve versare tramite investimenti. Ma riceve poi dalla Libia la cancellazione d’ogni norma che possa limitare l’azione delle aziende italiane che lì investono. Insomma l’atavico do ut des trasformato in inciucio internazionale per il quale la popolazione locale che presta mandopera alle imprese ci rimette in salari, sicurezza, diventati in verità ormai quisquilie anche nella sindacalizzatissima Europa. I nostri flussi economici nel Maghreb ci fanno secondi solo alla Francia (investiamo 20 miliardi di euro in Libia, 11 in Algeria, 5 in Tunisia, 2 in Marocco) e tutto è in divenire. Notizie quali la progettazione del gasdotto Galsi fra Algeria e Italia (in cui sono impegnate Enel, Edison, Snam) fanno solo da premessa a quello che bolle in pentola: collocare l’Italia al centro della fornitura energetica fra il Nord Africa e l’Europa anche per aggirare la morsa russa. Eppure Trattati come quello con Gheddafi, utili alle caste industriali e governative italo-libiche poco ai lavoratori locali, non garantiscono l’Italia da possibili ricatti energetici. Oltre alla legittimazione politica del dittatore di Tripoli gli aprono porte per investimenti bancari come nel caso di Unicredit.

11 gennaio 2011

Enrico Campofreda

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