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Contro la guerra globale diritto di resistenza

Per l’autodeterminazione del popolo iracheno il 20 marzo tutti/e a Roma

(23 Febbraio 2004)

Ad un anno dall’invasione dell’Iraq, tutti gli argomenti addotti per scatenare la guerra da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati sono oramai ridicolizzati e gli obiettivi reali di controllo imperialistico delle ricchezze e dei territori, in Iraq come in Afghanistan e Palestina, sono davanti agli occhi di chiunque voglia vedere. Il movimento no-war che portò in piazza in tutto il mondo decine di milioni di persone il 15 febbraio, rappresentando il comune sentire della maggioranza dell’umanità, aveva ragione: e altrettanto giusto fu dire che la guerra non era affatto finita con l’occupazione militare dell’Iraq. Poi, però, a tale lungimiranza non ha fatto seguito in molti paesi una mobilitazione conseguente, all’altezza degli avvenimenti. Per mesi il movimento italiano è caduto in una “depressione politica” che è stata usata dal centrosinistra liberista per cercare di convincere gli italiani/e ostili alla guerra che, oramai, si poteva solo “democratizzare” l’occupazione, magari ricavandone qualche business per le aziende italiche.

Per fortuna, a scompaginare i piani mondiali di “pacificazione violenta”, ci hanno pensato gli iracheni, dando vita ad una resistenza crescente, che usa o meno le armi ma che coinvolge oramai, con tutta evidenza, la maggioranza della popolazione. Questa resistenza non solo ha impedito la “normalizzazione” dell’invasione e l’estensione della guerra ad altri paesi (Siria, Iran ecc..) ma ha riaperto o accentuato le contraddizioni negli Stati Uniti, in Europa e in particolare in Italia. Qui lo choc è stato particolarmente rilevante a causa dell’uccisione dei carabinieri a Nassirya. Di fronte a quello che era una evidente risposta bellica all’occupazione, che disvelava il ruolo da invasori esercitato dal contingente italiano, una parte del movimento ha sbandato sotto il peso dell’oscena campagna patriottarda, finendo per non riconoscere agli iracheni quel diritto a resistere anche con le armi, che tutta la giurisprudenza internazionale ammette per i popoli aggrediti, e per derubricare Nassirya ad episodio di “terrorismo”.

Ciò malgrado oggi la mobilitazione, anche grazie alla spinta dei no-war statunitensi, riparte verso una grande partecipazione popolare al 20 marzo, che può rappresentare quella netta maggioranza di italiani/e ostile alla guerra e alle aggressioni Usa. Tale mobilitazione deve divenire permanente e capillare (e ci auguriamo che le Carovane no-war amplifichino la diffusione del movimento), prima e dopo il 20 marzo, fino al raggiungimento del ritiro di tutte le truppe occupanti e dell’autodeterminazione per gli iracheni.

Certo, il movimento ha al proprio interno varie ambiguità e contraddizioni, come è forse inevitabile quando si punta a tenere insieme centinaia di organizzazioni/reti/aree, a portare in piazza una marea di cittadini/e, a rappresentare davvero la maggioranza degli italiani/e. E tali contraddizioni si sono riflesse nell’appello per il 20 marzo, che anche i Cobas hanno firmato per contribuire alla massima amplificazione della protesta. Noi avremmo preferito un testo concentrato solo sui due obiettivi davvero condivisi dall’intero movimento, il ritiro delle truppe e l’autodeterminazione: ma la complessità delle forze che lo compongono ha portato a qualcosa di più ampio e dunque discutibile. Non avremmo, in particolare, fatto uso della parola “terrorismo”, essendo l’assolutizzazione di questa categoria uno strumento per giustificare la guerra globale e per reprimere ogni opposizione. Abbiamo però impedito la riproposizione dell’assurda teoria della “spirale guerra-terrorismo”, cioè dell’equiparazione tra due supposte grandi potenze in lotta tra loro: da una parte gli Usa e i loro alleati che fanno la guerra, dall’altra parte una ipotetica “Spectre” universale (ove, in un unico calderone, finiscono precipitati le repellenti teorie e pratiche di Al-Qaeda e similari, le resistenze popolari irachene e palestinesi, la lotta armata colombiana, i baschi della “lista nera” ecc..) che praticherebbe un “terrorismo globale” che alimenterebbe la guerra permanente Usa. E’ una teoria che, al di là delle intenzioni, porta acqua al mulino di chi afferma che “la guerra non è la risposta giusta né efficace al terrorismo”: quasi che ci rivolgessimo a chi fa la guerra in termini di “compagni che sbagliano”, come se, cioè, il male primario fosse il “terrorismo globale” e la guerra fosse una risposta “sbagliata” ad esso. In ogni caso, nell’appello si sottolinea come i principali agenti del terrorismo nel mondo siano gli Stati, con gli Usa al primo posto; e che il movimento si oppone all’uso della “lotta al terrorismo” per giustificare le guerre, criminalizzare i movimenti popolari e restringere le libertà civili.

I Cobas avrebbero fatto a meno anche dell’accenno all’ONU. Tale organismo non è una struttura neutra, bensì, sistematicamente, al servizio delle potenze dominanti: in particolare in Iraq è tra i responsabili del decennale embargo che ha fatto centinaia di migliaia di vittime. Né è in vista alcuna ipotetica “riforma” dell’ONU che lo svincoli dalla sudditanza agli Usa e ai paesi più potenti. Né ha senso la tesi, velatamente razzista, dell’incapacità degli iracheni, una volta usciti gli eserciti invasori, di regolare da sé il ritorno alla pacificazione. Resta il fatto, però, che l’appello parla solo di un generico “intervento di garanzia dell’ONU che deve in ogni caso essere concordato con le forze dell’opposizione irachena e non vedere la partecipazione delle forze occupanti”: e diamo per scontato che i pacifisti/non-violenti autentici, che tanto hanno caldeggiato questa frase, pensino a tale ipotetico intervento come del tutto disarmato e non-violento.

In ogni caso, tali elementi non oscurano il fatto rilevante che la quasi totalità delle forze che hanno promosso il 20 marzo (con l’eccezione della Cgil, che non ha firmato l’appello perché chiedeva la cancellazione del diritto alla resistenza o l’introduzione del principio di non-violenza come rifiuto della resistenza armata) abbiano sottoscritto un appello che non solo sostiene il diritto a resistere contro l’occupazione (che per noi e per il diritto internazionale significa anche con l’uso delle armi) per “i nostri fratelli e sorelle iracheni”; ma che sopratutto richiede il ritiro immediato e incondizionato di tutte le truppe di occupazione, italiane in primis, e la restituzione dell’Iraq agli iracheni.

E’, così, lampante l’abisso che separa i promotori del 20 marzo da quel centrosinistra liberista che, in continuità con le precedenti tappe della guerra permanente (Jugoslavia, Afghanistan), ha di fatto approvato la prosecuzione della “missione” occupante italiana, astenendosi in Parlamento. A tal proposito, ricordiamo a quelli (singoli parlamentari o partiti) che si sono assunti la gravissima responsabilità di avallare la prosecuzione dell’occupazione militare dell’Iraq, che tale scellerata posizione è del tutto incompatibile con la piattaforma del 20 marzo e di conseguenza con una eventuale partecipazione e presenza in piazza.

PER IL RITIRO IMMEDIATO E INCONDIZIONATO DALL’IRAQ DELLE TRUPPE OCCUPANTI

PER L’AUTODETERMINAZIONE DEL POPOLO IRACHENO IL 20 MARZO TUTTI/E IN PIAZZA A ROMA

CONFEDERAZIONE COBAS

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