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Ricordando Stefano Chiarini

Ricordando Stefano Chiarini

(6 Febbraio 2007) Enzo Apicella
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SE N’E’ ANDATO ANCHE FRANCO

(19 Luglio 2011)

Rivedere il suo inconfondibile viso nei necrologi de “La Stampa” me lo ha riportato alla mente, pur se era molto che non ci si vedeva. Aveva con me, di cui ero stato il “ripetitore”, un rapporto insieme di stima e duramente canzonatorio, come di chi abbia acquisito una verità, una moralità monocordi e sorde e tutto il resto non sia che dialettica sofista e rumore.

Mi sono chiesto tante volte come ci fosse finito in questa “fede” intransigente: forse la solidità proletaria delle sue origini, forse l’amicizia con quel maestro sereno e colto che fu Umberto Marzocchi o, forse, un destino innato.

La scuola per lui era tutt’altro che una palestra di riscatto. Era una delle tante, troppe superfetazioni “sovrastrutture” borghesi ingannevoli e che tendono a fare di un individuo che ha l’obbligo etico di rivoltarsi un non rivoluzionario, perché se ne ha paura. La sua “anarchia” era totale, generosa, senza cedimenti, ma mai violenta. Mai una volta che, nelle infinite discussioni con lui, si sia rivoltato:eppure ci andavo giù anche duro, io che ero e sono convinto del detto gramsciano “Istruitevi perché avremo bisogno di tutto il vostro sapere”. Franco, paziente, mi ascoltava a lungo senza nulla dire se non scuotere appena la gran testa capellona e lasciarsi andare ad un sorriso che sarebbe potuto sembrare di compatimento, ed era invece il rinsaldarsi continuo del suo punto di vista assoluto sui rapporti sociali.

Non è vero che il rapporto docente-discente sia univoco: io con Franco ho conosciuto l’uomo di “classe” totale, il grado zero della lotta politica, colui per il quale nulla è impossibile, anche se sa benissimo di avere poco numerosi sodali verso i quali rivolgeva generosissimamente le sue pulsioni sociali. Si isolava dalle compromissioni ed io non so come possa aver fatto, e bene, mi dicono, il sindacalista, arte, se ce n’è una, della ricerca faticosa e tattica di accordi continui.

I Salomone erano conosciuti da tutto il quartiere delle Fornaci. Abitavano nelle case vecchie di via Saredo e da loro c’era sempre odore di detersivi, di pulizia. La madre lottava per mandar vestito il figlio; mancata lei, Franco, più che vestirsi, si infagottava in qualcosa.

Vita dura, quella dei genitori, con minime risorse e che volevano – soprattutto la mamma – mandarlo a scuola per riscattarlo e riscattarsi. Lui si ribellava a questa “figura” che sentiva inautentica. Intelligente, di buone e non scolastiche letture, era un critico feroce del “sistema” scuola, che sentiva ipocrita e di falsa o reticente trasmissione di cultura e di scarso riguardo per il discente schiacciato dal formalismo. Pensava queste cose prima che don Milani le mettesse per iscritto in quel manifesto-terremoto (finalmente!) che fu la “Lettera ad una professoressa”

Per lui era un discorso parziale ed anche un poco patetico; per me fu una “rivelazione” che mi costrinse non certo ad abbandonare la scuola, ma a militarvi senza incrostazioni né verità di comodo né, soprattutto, autoritarismo. I risultati? Mah! Non lo saprò mai, ora che non potrò discutere più col tanto diverso da me (borghese? Forse sì!) Franco.

Veniva a lezione accompagnato dalla madre. Abitavo ed abito al sesto piano, allora senza ascensore e la povera donna, pesante e non certo agile, si raccomandava a me perché gli insegnassi a non “rispondere” (detto alla savonese) ai professori, ad accontentare le loro esigenze ed a rispettarli: Ma Franco non è che non li rispettasse: semplicemente, era al di là del loro cauteloso dire e pretendere. Franco “ci” ascoltava per rispetto,zitto ma lontano, per nulla convinto e soltanto infastidito dall’insistenza di sua madre e, forse, anche dalla mia.

Non voleva che lo accompagnasse da me, come si arrabbiò quando lei andò a casa Marzocchi e chiese che l’anarchico maestro ed amico del figlio intercedesse per accontentarla. So che Marzocchi lo fece, dicendogli che un vero anarchico rispetta il bene che gli vuole sua madre, lo capisce e non la rattrista. Franco andò in bestia, a modo suo, chinando la testa come un torello zitto e tirando fuori soltanto qualche frase stirata e cocciuta.

Né Marzocchi né io pensavamo che Franco sarebbe diventato un “dottorino” ( e ce l’aveva, eccome, il sale in zucca!) per vendicare la condizione proletaria dei suoi ed essere più felice e rispettato di loro. E’ andato per la sua strada, fino ad ieri,”orso” ispido e dolcissimo, uguale, per tutto il breve corso della sua vita, a se stesso ed a quelle radici che l’hanno tenuto fedele e che egli non ha mai neppure scalfito.

Se dovere dell’uomo è dare un senso alla propria vita attraverso la pratica di valori etici, Franco lo ha assolto.

Sergio Giuliani

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