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Pro mutuo mori

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(19 Settembre 2009) Enzo Apicella
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La grande svolta dopo la fine della guerra fredda

(25 Novembre 2004)

L'occupazione dell’Iraq si inscrive appieno nella « grande strategia » espansionista inaugurata dagli Stati Uniti al momento dell’esaurimento della Guerra Fredda. La fine dell'URSS ha rappresentato una svolta storica cruciale, di un’importanza equivalente alla fine delle Due Guerre Mondiali del Ventesimo secolo. Ciascuna di queste svolte aveva costituito l’occasione del passaggio di una nuova tappa dell’espansionismo imperiale degli USA: il passaggio dal rango di potenza regionale, o potenza mondiale di ordine minore, al rango di potenza mondiale superiore con la prima Guerra Mondiale; il passaggio al rango di superpotenza all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, nello scenario di un mondo bipolare, spartito fra i due Imperi della Guerra Fredda.

L'agonia, e quindi l'implosione finale dell'URSS hanno messo di fronte gli USA alla necessità di scegliere fra alcune possibili opzioni strategiche importanti per “modellare il mondo” (shaping the world) dopo la Guerra Fredda. Washington ha optato per la perpetuazione della sua supremazia, in un mondo divenuto unipolare sul piano della forza militare, principale carta vincente degli USA nella concorrenza inter-imperialista mondiale.
L'era della superpotenza Statunitense è stata inaugurata con la guerra dell’Amministrazione Bush I contro l’Iraq nel gennaio-febbraio 1991, lo stesso anno che ha visto il crollo finale dell’URSS. Questa guerra, determinante per “modellare il mondo”, ha permesso di conseguire simultaneamente molti obiettivi strategici fondamentali:

Il ritorno in forze degli insediamenti militari degli USA direttamente nella regione del Golfo Persico, detentrice dei due terzi delle riserve mondiali di petrolio. All’inizio di un secolo che verrà marcato dalla rarefazione progressiva, e poi dall’esaurimento di questa risorsa energetica, strategica fra tutte, questo ritorno ha collocato gli USA in una posizione dominante, sia in rapporto ai loro potenziali rivali, fatta eccezione per la Russia, sia nei confronti dei loro alleati largamente dipendenti dal petrolio del Medio Oriente.

La dimostrazione eclatante della superiorità schiacciante dei sistemi d’arma Statunitensi davanti ai rischi nuovi che gravano sull’ordine capitalistico mondiale, costituiti dagli Stati “scellerati” (Stati canaglia), rischi ben rappresentati dalla componente predatoria dell’Iraq baathista, sulle orme di una “rivoluzione islamica” che aveva già insediato in Iran un regime che sfuggiva al controllo delle due superpotenze della Guerra Fredda. Questa dimostrazione ha contribuito fortemente a convincere le potenze Europee e il Giappone, i più importanti alleati di Washington, a rinnovare il rapporto di vassallaggio che avevano stabilito all’indomani della Seconda Guerra Mondiale verso un’America divenuta sovrano feudatario. L’aver tenuto in vita la NATO e la mutazione di questa Organizzazione in “organizzazione per la sicurezza” avrebbe espresso la continuazione di questo rapporto gerarchico.

Allo stesso tempo, il ritorno degli USA in Medio Oriente ha inaugurato un’ultima e completamente nuova fase storica nell’espansione dell’impero mondiale governato da Washington : l'estensione della rete di basi e di alleanze militari con la quale Washington assoggetta il mondo, fino alle regioni del pianeta che ancora erano sfuggite, visto che fino a qualche tempo fa erano state sotto il dominio di Mosca.
L'allargamento della NATO verso l’Est Europeo, l’intervento militare in Bosnia seguito dalla guerra in Kosovo, sono state le prime tappe di questo perfezionamento della mondializzazione imperiale, realizzato sotto l’Amministrazione Clinton.
Il proseguimento del processo avrebbe avuto bisogno di condizioni politiche più favorevoli, particolarmente persistendo la “sindrome vietnamita” che ha frenato le ambizioni militaristiche espansionistiche di Washington.

Una nuova fase, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001

Questi attentati hanno offerto all’Amministrazione Bush II l'occasione storica di accelerare al più alto livello e di portare a compimento questo processo, in nome della “guerra contro il terrorismo”.
L'invasione dell'Afghanistan e la guerra contro la rete di Al-Qaeda sono state, nello stesso tempo, il pretesto ideale per estendere la presenza militare Statunitense nel cuore dell’Asia centrale ex Sovietica (Uzbekistan, Kirghizstan, Tadjikistan) e fino al Caucaso (Georgia).
Oltre alle ricchezze in idrocarburi, gas e petrolio, del bacino del Mar Caspio, l’Asia centrale presenta l’interesse strategico inestimabile di essere al centro della massa continentale Eurasiatica, fra la Russia e la Cina, i due principali avversari potenziali dell’egemonia politico-militare degli USA.

L'invasione dell'Iraq, realizzata sulle orme della precedente, è sembrata portare a termine quello che era rimasto incompiuto nel 1991, vista l’impossibilità di occupare stabilmente il paese, sia per ragioni di politica internazionale, (mandato limitato dell’ONU, esistenza dell’Unione Sovietica), che per ragioni di politica interna, (reticenza dell’opinione pubblica, mandato limitato del Congresso). Con l’occupazione dell’Iraq, che va ad aggiungersi alla tutela sovrana Statunitense sulla monarchia Saudita e al loro insediamento militare negli altri Emirati della regione del Golfo, gli USA attualmente esercitano un controllo diretto su più della metà delle riserve mondiali di petrolio, oltre alle loro stesse riserve domestiche.
Washington cerca attivamente di completare questa dominazione planetaria esclusiva e tirannica sul petrolio, estendendo la propria egemonia all’Iran e al Venezuela, i suoi due prossimi bersagli prioritari dopo l’Iraq..

L'opzione strategica del completamento della dominazione Statunitense unipolare sul mondo è il corollario dell’opzione neo-liberale adottata dal capitalismo mondiale e imposta all’insieme del pianeta, nel quadro del processo globale designato con il nome di “mondializzazione”.

Al fine di garantire il libero accesso agli USA, e ai loro alleati nel sistema imperialista mondiale, alle risorse e ai mercati del resto del mondo, come pure per premunirsi contro i rischi extra economici della destabilizzazione del sistema e dei mercati, strettamente collegati alla precarizzazione neo-liberale del mondo (smantellamento dei diritti acquisiti sociali, privatizzazioni ad oltranza, concorrenza selvaggia), l’esistenza e il rafforzamento di una forza militare proporzionata a queste imprese è indispensabile.

Washington ha scelto di fare degli USA “la nazione indispensabile” al sistema mondiale: il fossato militare fra gli USA e il resto del mondo non cessa di allargarsi. Dal terzo delle spese militari mondiali dell’inizio del dopo-Guerra Fredda, gli USA sono arrivati a spendere per essi soli più delle spese militari cumulate dall’insieme di tutti gli altri Stati del pianeta.

Questa formidabile superiorità militare della iperpotenza Statunitense viene supportata dal concetto di “militarismo”, strettamente connesso con il concetto di imperialismo, secondo la sua primaria definizione sistematica (Hobson) [N.del trad.: Hobson (1858-1940), economista inglese, ha messo in evidenza la connessione tra ingiusta distribuzione della ricchezza e la disoccupazione e ha visto nella ricerca di sbocchi esterni all’accumulazione capitalistica, esterni rispetto all’economia nazionale, la causa delle tendenze imperialiste del capitalismo inglese. La sua opera “L’imperialismo” (1902) è stata largamente utilizzata da Lenin in “Imperialismo, fase suprema del capitalismo” (1917)] e riceve sublimazione dalla struttura gerarchica di tipo feudale (sovrano/vassalli) instauratasi dopo la Seconda Guerra mondiale.
In virtù di questa struttura, l’iperpotenza “tutelare” dovrebbe assicurare d’ora innanzi la parte essenziale della difesa al sistema capitalistico.
Perché questa stessa struttura gerarchica divenga unico sistema imperiale planetario, e perché si consolidi nel tempo, è necessario assolutamente, e lo sarà in permanenza, che la superpotenza, trasformatasi in iperpotenza, mantenga mezzi militari all’altezza delle ambizioni che essa si è prefissata. La riaffermazione del ruolo di sovranità degli USA e la loro assunzione al rango di iperpotenza militare attraverso lo sviluppo asimmetrico fra i loro mezzi e quelli del resto del mondo sono state al centro del progetto dell’Amministrazione Reagan e la spinta all’aumento straordinario delle spese militari, a livello record, data una situazione non bellica , per il quale quell’Amministrazione si è contraddistinta.

Nella prima metà degli anni Novanta, la fine della Guerra Fredda, in combinazione con le obbligatorie restrizioni economiche della finanza pubblica pericolosamente deficitaria, avevano comportato la riduzione, quindi il crollo delle spese militari degli USA.
Il riapparire di una contrapposizione Russa post-sovietica alle mire di Washington rispetto all’allargamento della NATO (a partire dal 1994), seguita dalle crisi Balcaniche (1994-1999), quindi dall’emergere di un contrasto con la Cina post-maoista rappresentato dal braccio di ferro rispetto alla questione di Taiwan (1996), il tutto sullo sfondo di una crescente cooperazione militare fra Mosca e Pechino, hanno trascinato l’Amministrazione Clinton, a partire dal 1998, a rimettere in moto un meccanismo di aumento delle spese militari Statunitensi a lungo termine.

La militarizzazione in rapporto al caos Iracheno

Il rilancio della corsa degli USA al superarmamento rispetto al resto del mondo, susseguito alla corsa agli armamenti contro l'URSS, al tempo della Guerra Fredda, è stato accompagnato da una variazione attitudinale di
Washington nella gestione delle relazioni internazionali.
L'idillio con l’ONU, a partire dalla “crisi del Golfo” del 1990, accompagnato dalla convinzione della possibilità di manifestare sistematicamente il ruolo imperiale degli USA in un quadro di legalità internazionale dominata ad arbitrio da Washington (Iraq, Somalia, Haiti), è stato abbandonato, in un primo tempo, a vantaggio dell’azione unilaterale della NATO nei Balcani.
Inoltre, il diritto di veto della Russia e della Cina è stato circuitato dall’azione unilaterale della struttura militare collettiva guidata da Washington, in nome di pretese preoccupazioni “umanitarie”.

Il nuovo balzo in avanti delle spese militari reso possibile dall’11 settembre, il nuovo consenso rispetto alle spedizioni militari di Washington creato dai medesimi attentati, in combinazione con l’inclinazione “unilateralista” tipica dell’Amministrazione Bush II, hanno incoraggiato quest’ultima ad affrancarsi da tutte le strutture istituzionali nel completamento dell’espansione coloniale Statunitense.
Le coalizioni a geometria variabile (coalitions of the willing-coalizioni dei disponibili), sotto la guida pastorale indiscussa di Washington, hanno sostituito la stessa NATO, dove il principio di unanimità costituisce l’equivalente di un diritto di veto accordato all’insieme dei suoi Stati membri.

La guerra d’invasione dell’Iraq è stata per eccellenza l’occasione della messa in opera di questo principio unilateralista: sul problema Iracheno, il punto di vista e gli interessi Statunitensi erano in conflitto non solamente con quei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come la Russia e la Cina, generalmente oppositori dell’egemonia mondiale degli USA, ma anche con alcuni degli alleati tradizionali di Washington e membri della NATO, come la Francia e la Germania.
La concordanza di interessi e di punti di vista fra gli USA e la Gran Bretagna ha permesso ai due Paesi di intraprendere congiuntamente l’invasione, con l’adesione alla loro impresa di qualche membro della NATO e di altri alleati docili e zelanti di Washington.

L'impelagarsi degli USA e della loro coalizione in Iraq e la difficoltà che prova l’Amministrazione Bush II a gestire l’occupazione del paese hanno fornito una eclatante dimostrazione dell’inutilità del suo unilateralismo arrogante, che a Bush I era stato rinfacciato immediatamente da una frazione importante dell’establishment Statunitense, persino nelle file dei repubblicani e nella sua cerchia ristretta.

Lo scacco Iracheno ha sottolineato la necessità di un ritorno ad una combinazione più sottile fra la supremazia della forza e il mantenimento di un consenso minimale con le potenze alleate tradizionali (NATO, Giappone), se questo non era possibile con l’insieme delle altre potenze nella cornice dell’ONU. Certamente, il consenso ha un prezzo: gli USA, un tantino, devono tenere in conto anche degli interessi dei loro soci, riservandosi comunque la parte del leone.

Dopo la svolta del 1990-91, Washington ha considerato che il ruolo di luogo della verifica e della gestione del consenso fra le grandi potenze che l’ONU aveva interpretato dal tempo della Guerra Fredda era divenuto obsoleto. Agli USA è sembrato che l’uguaglianza nel diritto di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza era completamente antiquata in un mondo divenuto unipolare, dove solo gli USA sono in grado di praticare di fatto un veto in materia di “sicurezza” internazionale. Ora, paradossalmente, il ribaltamento dell’ordine del mondo è passato attraverso l’utilizzazione politica dell’ONU da parte di Bush I, in modo da ottenere l’avallo domestico alla sua guerra contro l’Iraq.
Poi, sotto Clinton, l'ONU è stata ridotta nei Balcani alla pura gestione del dopo-guerra, in combinazione con la NATO, nei territori invasi da quest’ultima organizzazione diretta dagli USA. In Afghanistan, questa medesima formula di gestione post bellica è stata riapplicata dopo una invasione gestita unilateralmente da Washington.

Dopo aver guidato l’invasione, gli USA, messi di fronte alle difficoltà di gestire l'occupazione dell'Iraq, per quest’ultimo paese tentano di ritornare ad uno scenario afgano.
La lettera e, più ancora, lo spirito della Carta delle Nazioni Unite sono stati allegramente irrisi. Secondo la Carta, le guerre di invasione sono illegali, a meno di una decisione del Consiglio di Sicurezza: in questo senso, le guerre di Washington, invece di essere giuste o legittime, non sono assolutamente legali. Quella del 1991 era stata condotta sotto l’egida dell’ONU, ma non quest’ultima, come ha dichiarato lo stesso Segretario Generale dell’Organizzazione.

Comunque sia, Washington non concepisce di fare ricorso all’ONU, alla stessa NATO o ad altra struttura collettiva, se non nella misura in cui questo ricorso possa essere di una qualche sua utilità. Gli USA si sono sempre riservati la facoltà di agire unilateralmente, quando lo esige la difesa dei loro interessi. Questo ricatto attraverso l’unilateralismo viene esercitato nei confronti delle istituzioni internazionali, qualsiasi esse siano. E questo sta all’origine dello svilimento forte della Carta dell’ONU, dopo la fine della Guerra Fredda.

Le sfide del movimento contro la guerra

Le opzioni più significative del sistema imperialista mondiale, con alla testa gli USA, dopo la fine della Guerra Fredda hanno aperto un lungo periodo storico d’interventismo militare senza interruzioni.
La sola forza capace di rovesciare il corso di queste cose è il movimento contro la guerra. L'evoluzione dei rapporti di forza militari nel mondo, dopo la fine dell’URSS, ha ridotto al minimo le inibizioni all’interventismo imperialista: eccetto la dissuasione nucleare che solo uno Stato votato al suicidio potrebbe brandire contro gli USA (il caso sarebbe differente per una rete terroristica clandestina non confinata ad un territorio suscettibile di subire la rappresaglia), nessuna forza militare è in grado di arrestare il rullo compressore dell’iperpotenza Statunitense, quando questa decidesse di invadere un territorio.

La sola grande potenza capace di bloccare la macchina da guerra imperiale è l’opinione pubblica mondiale e, nello specifico, il suo bastione di avanguardia: il movimento contro la guerra. In tutta logica, a questo riguardo, è la popolazione degli USA che ha il peso decisivo. La “sindrome del Vietnam”, così altrimenti detto l’impatto del formidabile movimento contro la guerra che aveva contribuito grandemente a mettere fine all’occupazione del Vietnam da parte degli Stati Uniti, ha paralizzato l’impero nelle sue azioni militari per più di 15 anni, fra il ritiro precipitoso dal Vietnam nel 1973 e l’invasione di Panama nel 1989.

Successivamente, dopo l’azione militare contro la dittatura Panamense, Washington se l’è presa con alcuni obiettivi facili da demonizzare agli occhi dell'opinione pubblica, proprio per la loro pesante natura dittatoriale: Noriega, Milosevic, Saddam Hussein, etc. Al bisogno, le propagande statuali e mediatiche hanno reso più evidenti i tratti di una realtà che si conforma in modo insufficiente alle rappresentazioni demonizzate, soprattutto se rivolte agli alleati dell’Occidente. È stato questo il caso di Milosevic
(rispetto a Tudjman, suo avversario croato), come è stato ancora il caso per il regime Iraniano (in confronto all’integralismo molto più oscurantista e medioevale della monarchia saudita), o come si tenta di fare attualmente con il Venezuelano Hugo Chavez..

Tuttavia, la difficoltà incontrata da Bush I nel 1990 per ottenere il via libera dal Congresso per le sue operazioni nel Golfo, malgrado l’occupazione Irachena del Kuwait, così come le difficoltà incontrate dall’Amministrazione Clinton per intervenire nei Balcani, oltre al ritiro precipitoso delle truppe Statunitensi dalla Somalia, testimoniano della persistenza di una reticenza dell’opinione pubblica e di una sua pressione elettorale.
Per contro, il movimento contro la guerra si è dimostrato anemico, dopo il suo rifiorire del 1990.

Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno fornito all’Amministrazione Bush
II l'illusione di una adesione massiccia e incondizionata dell’opinione pubblica Occidentale ai propri disegni espansionistici mascherati da “guerra contro il terrorismo”. L'illusione è stata di corta durata : 17 mesi dopo gli attentati, gli USA e il mondo hanno conosciuto, il 15 febbraio 2003, la più ampia mobilitazione contro la guerra dai tempi del Vietnam, la più ampia mobilitazione internazionale della storia, oltre ogni aspettativa. Espressione del rifiuto massiccio da parte dell’opinione pubblica mondiale dell’invasione pianificata dell’Iraq, questa mobilitazione resta negli USA tuttavia ancora una protesta minoritaria. Il movimento internazionale, come al solito, aveva fortemente contribuito al rafforzamento del movimento negli Stati Uniti, ma l’effetto 11 settembre, nutrito dalla disinformazione organizzata dall’Amministrazione Bush, non si è ancora sufficientemente dissolto.

Gli smacchi dell’occupazione Statunitense dell’Iraq hanno creato le condizioni propizie al capovolgimento della maggioranza dell’opinione pubblica, negli stessi Stati Uniti, e ad una crescita potente ed inesorabile della volontà di rimpatrio delle truppe. Questa volta, il problema è che la collocazione di avanguardia ha conosciuto un abbassamento di attività dopo
l'invasione, quando avrebbe dovuto, e dovrebbe, perseguire la sua progressione. La demoralizzazione indotta da una visione troppo rigida sulla breve durata, quando era altamente improbabile che il movimento pervenisse ad impedire la guerra, vista l’importanza dei giochi per Washington ; la credenza elettoralistica, negli USA, nella possibilità di risolvere il problema attraverso le urne, alla luce del consenso bipartisan data l’importanza delle poste in gioco, allorquando solo la pressione popolare potrebbe imporre il ritiro dall’Iraq delle truppe Statunitensi; l’illusione che le azioni armate di tutti i tipi con cui si confrontano le truppe di occupazione saranno sufficienti a mettere fine all’occupazione - queste sono le principali ragioni dell’indebolimento inopportuno di attività del movimento contro la guerra.

Queste ragioni fanno tutte riferimento all’esperienza Vietnamita, troppo lontana dalle ultime generazioni perché le sue lezioni siano rimaste nella memoria collettiva, in assenza di una continuità del movimento contro la guerra in grado di tramandarle. Il movimento che aveva messo fine all’occupazione Statunitense del Vietnam si era costruito come movimento di lunga durata, di ampio respiro, e non come mobilitazione di sola denuncia dello scatenamento della guerra, interrotta poi dall’inizio dell’invasione. Questo movimento negli USA durante l’Amministrazione democratica di Johnson si era fatto molto poche illusioni su una soluzione elettorale del problema, prima di diventare culminante durante l’Amministrazione repubblicana di Nixon. Per questo movimento risultava chiaro che, malgrado la loro formidabile resistenza, incomparabilmente più importante ed efficace di quella che oggi conosce l’Iraq, i Vietnamiti, nel loro tragico isolamento militare, non avevano i mezzi per infliggere alle truppe degli USA una Dien Bien Phû – vale a dire una disfatta di un’ampiezza paragonabile a quella che aveva messo fine all’occupazione Francese del loro paese.

A maggior ragione si pone la questione in Iraq: in questo paese, oltre all’eterogeneità delle fonti e delle forme delle azioni violente, dove gli attentati terroristici contro la popolazione civile, che puzzano a volte di confessionalità religiosa, si mescolano alle azioni legittime contro le forze di occupazione e i loro ascari locali, la configurazione stessa del terreno rende impossibile infliggere una disfatta militare all’iperpotenza Statunitense.
È per questo che gli occupanti temono di più le mobilitazioni di massa della popolazione Irachena, sull’esempio di quelle che hanno imposto la decisione di tenere elezioni a suffragio universale, al più tardi nel gennaio 2005.

Solamente una pressione decisiva del movimento contro la guerra e della sua risonanza nell’opinione pubblica negli USA e in scala mondiale, aggiungendosi alla pressione popolare Irachena, sarebbe in grado di imporre a Washington di rimuovere la sua tenaglia possessiva su un paese dall’importanza economica e strategica infinitamente più grande di quella del Vietnam, e la cui invasione ed occupazione sono costate fino a questo momento una barca di miliardi di dollari.

Se l'Iraq oggi presenta una situazione potenzialmente simile a quella di un “nuovo Vietnam”, non è a causa di un confronto militare fra le due occupazioni, ma unicamente per un paragone squisitamente politico.
In effetti, si tratta dell’impantanamento più importante nel quale si sono trovati invischiati gli USA dal 1973, un impantanamento il cui effetto viene amplificato dallo stesso ricordo del Vietnam (prova della persistenza della “sindrome”), oltre che dall’evoluzione da allora dei mezzi di comunicazione.

Ecco quindi un’occasione storica per rinnovare, sullo slancio del 15 febbraio 2003, la ricostruzione di un movimento di lunga durata contro la guerra, capace di trasformare l’avventura Irachena di Washington e dei suoi alleati politicamente in un nuovo Vietnam, vale a dire creare un nuovo blocco di lunga durata del meccanismo della guerra imperiale. Una tale prospettiva, in combinazione con la mobilitazione progressiva mondiale contro il neoliberalismo, permetterà di aprire la via ai profondi cambiamenti sociali e politici che richiede sempre più urgentemente un mondo di ingiustizie che si stanno sempre più sviluppando.


Gilbert Achcar insegna a Berlino ed è autore di numerosi articoli e libri, fra cui “Lo scontro fra barbarie: terrorismi e disordine mondiale”, 2004)

Gilbert Achcar

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