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LA STOLA E IL FUCILE.

UN CAPPELLANO MILITARE AL SEGUITO DELLE TRUPPE DI OCCUPAZIONE ITALIANE IN JUGOSLAVIA.

(10 Febbraio 2016)

santa messa per i miei fucilati

“Vuoi tu non avere paura dell’Autorità? Diportati bene e riceverai la sua approvazione. Essa è infatti ministra di Dio per il tuo bene. Se invece agisci male, temi; non per nulla essa porta la spada: è infatti ministra di Dio, esecutrice della sua volontà contro chi fa il male”
San Paolo, Lettera ai Romani. 23,9-13, 15.

“Per il sacerdote francese quando si tratta di quello tedesco, per il sacerdote tedesco quando si tratta di quello francese, non c’è più perdono. La patria innanzi tutto! Uccidi! Uccidi! In nome del Dio dei cristiani, noi vi assolviamo, vi lodiamo di uccidere cristiani”. Grillot de Givry, Le Christ et la Patrie, 1911.

“Per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani militari esaltate senza che nemmeno un Distinguo vi riallacci alle parole di San Pietro: ‘Si deve obbedire agli uomini o a Dio?’. E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro”. Don Lorenzo Milani, Lettera ai cappellani militari, 1965. In occasione dei processi e delle condanne degli Obiettori di coscienza.

“Questi poveri soldati di venturetta, se cristiani, avevano un solo dovere: disobbedire e dichiararsi obiettori di coscienza”. Don Dino d’Aloia, “Strappatevi le stellette, o fate carta straccia del Vangelo. Un sacerdote scrive ai cappellani militari”, 2004, a commento dell’attentato di Nassiriya.


Il mondo, l’Italia, la Chiesa in cui si trovò ad operare il sacerdote Pietro Brignoli, vivevano di tensioni difficilmente sostenibili, per un religioso, uomo dalle idee schiettamente conservatrici ma animato da un forte senso morale, quale egli fu per tutta la vita.
Nacque il 15 ottobre del 1900 a Cenate Sotto, non lungi dal Comune di Sotto il monte, che aveva visto, diciannove anni prima, la nascita di Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII: la stessa, dura vita delle genti contadine bergamasche ad accompagnare la scelta religiosa e sacerdotale; “Don Pietro” non mancherà, in occasione del suo compleanno celebrato tra gli orrori della guerra nei Balcani, di rendere un omaggio commosso alla memoria della propria madre, contadina semianalfabeta, madre di quattordici figli, di cui nove sopravvissuti alla prima infanzia, e deceduta quarantenne. Da adolescente di provincia fu testimone della tragedia del primo Conflitto mondiale: aveva quattordici anni nel 1914, anno della morte del Papa Pio X e dello scoppio delle ostilità tra le potenze europee, e quindici nel 1915, anno che vide l’Intervento dell’Italia nelle “Radiose giornate” di maggio, evento anticipato, per quanto concerne l’inquadramento dei sacerdoti cattolici al seguito delle truppe, dalla “Circolare Cadorna”, 12 aprile del ’15, che prevedeva, per la prima volta nella storia delle relazioni tra stato italiano post-risorgimentale e Chiesa, la presenza di un cappellano militare per ogni reggimento al fronte. Nel giugno dello stesso anno, si dà per iniziativa delle Congregazione dei Vescovi italiani, l’istituzione del Vescovo di campo. Il giovane Mario, a quanto documentato dal suo Stato di servizio, risulta riformato per “esiti di pleuropolmonite” dal Consiglio di leva di Bergamo, il giorno 7 dicembre del 1922, a pochi mesi dalla marcia su Roma delle Camice nere e dall’incarico di Governo, conferito a Benito Mussolini dal re Vittorio Emanuele.
Fu all’epoca della “fascistizzazione dello Stato” di metà anni ’20, con il regime teso a riallacciare buoni rapporti con la Sante sede, che avvenne la fondazione dell’Ordinariato militare per l’Italia, Istituto ancora esistente, dopo la sua riforma voluta da Giovanni Paolo II nel 1986: quel giorno, il 6 marzo del 1925, il venticinquenne Mario Brignoli aveva già maturato la propria scelta religiosa.
La sua nomina a Cappellano militare, con il grado di tenente, data al 2 gennaio del 1936 “con il trattamento economico previsto dall’art. 15, comma 2, del Regio Decreto 9.8.1926 numero 1493”. Meno di un anno dopo, 18 dicembre 1936, si imbarca a Napoli, destinazione Africa Orientale Italiana, ove svolge funzione di cappellano negli ospedali da campo, fino al suo trasferimento presso il II reggimento dei Granatieri di Sardegna, il 5 gennaio 1941; la stessa documentazione inerente allo Stato di servizio militare, lo dà per “Giunto, via terra, a Cocevie (Kocevje)”, in “Territorio dichiarato in istato di guerra”, in cui prestò servizio fino al 25 novembre 1942. Nel tragico contesto della Slovenia e della Croazia occupate dalle truppe italiane, Don Pietro visse le esperienze che lasciarono eco di sé nelle sue memorie, pubblicate, nel 1973, dalla casa editrice Longanesi con il titolo Santa Messa per i miei fucilati.

“Sono assai triste. I fatti dei giorni passati mi hanno abbattuto. Date memorabili: 7-5-1942: giorno in cui ho ricevuto i miei soldati, morti e feriti; tra i primi il comandante del reggimento. 17-5-1942: giorno in cui ho assistito quattordici fucilati”. Nel maggio del ’42 il Cappellano e il suo regimento sono di stanza nella Croazia occupata. Il Brignoli non nasconde mai, nelle memorie, i propri sentimenti patriottici; e, all’indomani dell’imboscata dei partigiani jugoslavi di cui lascia un ampio resoconto, non manca di elogiare la condotta di soldati e ufficiali, fatta di “atti di valore autentici”, e di piangere le vittime della scaramuccia.
Salvo, poi, ricordare: “Quanto ho descritto sopra è doloroso, ma quanto sto per descrivere è dolorosissimo. Vorrei trovare i colori necessari, ma sento che al vivo resterà scolpito solo nella mia anima”. Quanto segue è il resoconto di una delle molte azioni di rappresaglia ed esecuzioni sommarie di sospetti “banditi” da parte del reparto cui “Don Pietro” è assegnato, uno degli episodi più toccanti cui al sacerdote toccò di assistere: “Si catturarono tutti gli uomini validi, nelle case, nei boschi, ovunque si trovarono: risultarono in numero di settanta circa. Poi si procedette a un giudizio sommario; il risultato: quattordici uomini condannati a morte. Li vedo ancora scendere dall’altura sulla quale erano stati giudicati: disfatti. Lugubre presagio del loro imminente destino, portavano su una barella un morto, fucilato il giorno prima. Dietro venivano le donne, ansiose di vedere che cosa avrebbero fatto ai loro uomini. Pioveva. Era stabilito che io apprestassi l’assistenza religiosa ai condannati”.
L’autore, in tale occasione, compie un gesto che denota la sua convinzione sui sentimenti delle popolazioni contadine slovene e croate, ritenute assai lontane dall’essere a favore dei “ribelli”; altrove egli si dichiara fiducioso nella possibilità di rendere l’occupazione italiana accettabile, perché preferibile, per le umili genti di montagna, tanto all’amministrazione tedesca, quanto ai “bolscevichi” di Tito. In omaggio a tale, radicata convinzione e alla propria fede, esercita pressioni sul comando del reggimento, perché nella sua opera di confessore dei condannati venga affiancato dal parroco del villaggio, ritenendo di potere, cristianamente, testimoniare la propria vicinanza ai condannati e alle loro famiglie, nel nome della comune fede cattolica.
“Avevo scelto, per un ministero tanto delicato, il parroco del paese: un vecchiettino di forse settant’anni. Quando, spiegandogli in latino, riuscii a fargli capire di che si trattava, allibì: lo assicurai che al luogo del supplizio li avrei accompagnati io. Lui, prendesse quattordici particole, e mi seguisse”. Nel passaggio successivo, l’apparizione del prete del villaggio ai parrocchiani prigionieri, atto di pietas cristiana per eccellenza, si palesa nella forma della conferma del destino ineluttabile che incombe su quegli uomini prossimi alla morte: “Al comparire del sacerdote sull’uscio, quei quattordici uomini…ma chi potrà descrivere i loro volti? Ridire le loro preghiere, i loro pianti, i loro urli? Non avete mai provato a far l’atto di tirare una mazzata mortale sulla testa di un cane, e visto come vi guarda?”.
“Intanto le donne, fatte allontanare cento volte, cento volte erano ritornate. Non poche tenevano bambini in braccio e per mano, tutte portavano un pentolino e un fagottino per la colazione per chi, fra pochi minuti, avrebbe cessato di vivere”. La sguardo pietoso di Don Pietro qui si posa sulla piccola folla di mogli, madri e sorelle degli uomini condotti al macello, con una nota di amara rassegnazione per la loro sorte; tale senso di accettazione dell’ineluttabile, assume toni vieppiù inquietanti, al momento della descrizione della scena dell’esecuzione, in cui si palesa la personalità dell’autore, persona moralmente integerrima e uomo di fede, ma anche e soprattutto militare nelle pieno delle sue funzioni, cui il ruolo ricoperto nelle istituzioni non permette dubbi, né esitazioni proprie o tolleranza per quelle altrui: “Dico al comandante del plotone, pure giovanissimo e sbiancato, di dare disposizioni ai soldati per non far soffrire, oltre il bisogno, i condannati: i soldati borbottano che non è il loro mestiere, che non si sa se quella gente è colpevole…Devo intervenire io che ho già la stola al collo e il crocefisso in mano ad assicurarli che non hanno responsabilità, a pregarli che sparino bene, se no li faranno soffrire di più, inutilmente.”: Sembra di ascoltare la voce dei cappellani delle Forze armate argentine dell’anno 1976, nella confessione rilasciata dall’ex capitano Silingo a metà anni ’90, sui “voli della morte”, in cui i desaparecidos venivano narcotizzati e lanciati nel vuoto sull’oceano, e gli aviatori che esitavano erano sostenuti e incoraggiati dai religiosi a “compiere il proprio dovere, perché siamo in guerra”. La triste storia si conclude con i conforti religiosi ai condannati, e la fucilazione, “Suggerisco loro le prime parole dell’Avemaria nella loro lingua: la continuano tutti in coro. Mi volto al comandante del plotone: un ordine. Mi tiro leggermente da parte : una scarica rabbiosa e quei cinque uomini stramazzano a terra con la preghiera stroncata sulle labbra. Di mano in mano che impartisco loro la benedizione papale e amministro l’estrema unzione, l’ufficiale dà loro il colpo di grazia. A distanza di un quarto d’ora, gli altri due scaglioni e il ripetersi della cerimonia”.

Il diario di Don Pietro registra, dal 17 maggio al 12 novembre del ’42, molteplici episodi di violenza militare, dai bombardamenti sui villaggi, alle molte esecuzioni sommarie degli uomini catturati, non occultando mai, di propria volontà, (e sulla Censura cui lo scritto fu sottoposto, torneremo in seguito) alcuno degli orrendi dettagli:

“16 luglio. Si esce per le operazioni. Verso le dieci del mattino la nostra artiglieria e un gruppo di artiglieria alpina aprono un fuoco infernale, da un’altura, su un paesetto della valle: qualche donna e qualche bambino uccisi, il resto della popolazione fuggita nei boschi dove tutti i maschi incontrati vengono considerati ribelli e trattati di conseguenza. Per fortuna quella gente ha le gambe buone”.

Altrove, stante la stanchezza e il rifiuto di descrivere dettagliatamente la propria opera di assistenza spirituale ai tanti, troppi fucilati, le descrizioni prendono la forma di una agghiacciante “contabilità della morte”:

“20 luglio, Diciotto fucilati in un altro paese”
“23 luglio. Altri sei fucilati dello stesso paese. Di questi, quattro erano fratelli
“1 agosto. Undici fucilati. Paese bruciato. Ero assente”.
“5 agosto. Quattordici fucilati. La mia intercessione. Sette più due. Giovanetto grida ‘Viva l’Italia’. Ho celebrato la Santa messa per i miei fucilati”.
“27 agosto. Cinque fucilati, tra i quali un padre di otto figli”

In un unico passaggio, traspare la considerazione sulla sorte cui tutti gli abitanti dei villaggi rastrellati –tranne i maschi adulti, fucilati sul posto- vanno inevitabilmente incontro: l’internamento:
“25 settembre. Si continua il rastrellamento della zona e dintorni, cioè la distruzione.
(…) Dicono che donne e bambini e vecchi, a frotte, o rinvenuti nei boschi, o presentatisi spontaneamente alle nostre linee costretti dalla fame e dal maltempo, sono stati intruppati , e avviati (tra pianti e pianti e pianti), ai campi di concentramento”.


E la constatazione di quanto non siano solo sparatorie, cannoneggiamenti ed esecuzioni, a mietere morte, ma anche la fame e il freddo:
“Come lasciammo quel disgraziato paese! Lo abbandonammo con una turba di vecchi senza figli, di donne senza mariti, di bambini senza padri, tutta gente impotente, completamente priva di mezzi di sussistenza (stalle, pollai, campi: tutto era stato spogliato) Li lasciammo ignudi a morire di fame”.

Non manca, poi, un accenno alla pratica devastante dei “danni collaterali” in tempo di guerra:

“In marcia. 5 ottobre. La prima giornata del secondo ciclo di operazioni si chiude ‘brillantemente’: i nostri esploratori hanno ucciso, per sbaglio, una donna di sessant’anni, un bambino di dieci, una bambina di quattordici. (..) Sono andato a raccogliere le salme: il bambino era dietro la schiena della vecchia e, appoggiatovi un braccio sul quale teneva la testa, pareva dormisse; la bambina era forse quindici metri più in basso, giù per la balza: forse aveva tentato di fuggire”.


Lo scritto di Don Pietro, estremamente complesso nonostante la sua scarna struttura di diario di guerra, vive di tensioni morali di difficile lettura: si va da considerazioni politiche (in cui lo scrivente si rivela, più volte, anticomunista viscerale, ed ostile a quei parroci sloveni e croati che incoraggiavano i propri fedeli a raggiungere le fila dei “ribelli” dell’Armata popolare jugoslava), ad atti di puro buon senso, quali la constatazione che “il contadino tende a stare dalla parte del più forte, non desiderando che di essere lasciato in pace”, e che, quindi, le orribili rappresaglie da parte italiana non ottenevano altro effetto, che spingere le popolazioni dalla parte dei partigiani; ad attestati di stima nei confronti del soldato italiano, umile, spesso di origine contadina quanto gli uomini che uccide in terra croata, portato a comportarsi “da belva” contro la propria natura; alla ripulsa morale nei confronti di militari particolarmente sanguinari, come un sottoufficiale che il Brignoli ebbe la ventura di conoscere bene: “Pensate che ogni fucilato lo segnava sul calcio del moschetto con una tacca, quasi che fosse un punto d’onore, e dicono che non poche volte si divertisse uccidendo con le proprie mani”, o come gli alti ufficiali, i cui discorsi il sacerdote ebbe modo di ascoltare, nei quali emergevano piani di “Iprizzare” le regioni della Croazia interna (usare, quindi, i bombardamenti al gas Iprite, pratica che il Regio Esercito aveva adottato nel teatro di guerra Abissino nel ’35, sterminando popolazioni intere). Non manca un accenno, tragicamente profetico, a quanto lo spargimento di sangue e odio tra le popolazioni jugoslave, avrebbe creato le premesse di nuove atrocità:
“21 agosto. Un fucilato. (..) Era calmissimo, nonostante l’avessero battuto fino a farlo diventare tutto gonfio. Cammin facendo disse ai soldati: ‘Oggi voi fucilate me: domani qualcun altro fucilare voi’ (..)”.

Don Pietro Brignoli non manca di ricordare la aperta ostilità di cui fu fatto segno da molti ufficiali , che consideravano inaccettabile, ai fini della condotta delle truppe, la professione di “moderazione” che egli tentò, pur nelle proprie funzioni, di anteporre alla barbarie.

Il suo stato di servizio ricorda di come il sacerdote-soldato, tornato in Italia, fosse a Roma nella terribile notte del 19 luglio del ’43, e come accorresse nel quartiere di San Lorenzo, a prestare i primi soccorsi ai sepolti vivi del bombardamento anglo-americano.
Al momento dell’Armistizio dell’8 settembre, sfuggì alla razzia dei tedeschi e, con altri commilitoni, partecipò alla difesa di Roma, dall’8 al 10 settembre; assieme a molti civili armati, “ribelli” tanto simili a quelli che egli aveva assistito davanti al plotone di esecuzione, e a molti militi del II Granatieri di Sardegna, lo stesso reparto che, con Don Pietro quale cappellano al seguito, aveva seminato morte e terrore in Croazia, sterminando i “ribelli” e le loro famiglie. Soldati dalle mani macchiate del sangue degli oppressi; ma, nell’occasione, eroicamente opposti non a poveri villaggi, ma ai cingoli dei Panzer dei vecchi alleati germanici.
Congedato nel 1946, dedicò gli anni successivi all’assistenza degli orfani di guerra.
Decorato due volte: quale militare del Duce e del Re, Cavaliere della Corona d’Italia, come da Regio Decreto del 10 maggio 1942; e per il suo apostolato tra le vittime della guerra, Medaglia d’oro conferitagli dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica, il 6 marzo 1964.

Visse a lungo, a guerra finita, spegnendosi nel 1969; quattro anni dopo, nel 1973, “Santa messa per i miei fucilati” è pubblicato dall’Editore Longanesi.
Il sottotitolo, ironicamente aggiunto dall’Autore, è eloquente: “Libriccino dei fucilati (purgato)”. Sin dal novembre del 1946, una Circolare emanata dall’Arcivescovo militare Carlo Alberto Ferrero aveva imposto, a tutti i religiosi che avessero svolto opera di cappellano militare nell’Esercito italiano durante la II guerra mondiale, la consegna di ogni scritto inerente alle vicende belliche.

Uno dei tanti, tragici e pietosi casi che videro Don Pietro assistere un “ribelle” jugoslavo condannato alla fucilazione, ebbe un seguito commovente e, nelle intenzioni del Brignoli, rappresentò episodio capace di indicare la via della pace ai popoli coinvolti negli orrori della guerra:
“18 agosto 1942. Ho sepolto il fucilato e i sette morti in combattimento. Questi sette in un’unica fossa a fior di terra, essendo il terreno roccioso; l’altro solo, sotto un albero, per poterlo trovare quando, le condizioni politiche mutate, mi permetteranno di restituirlo alla famiglia, come ho promesso a lui e ai suoi (…)”.

“Lubiana, 11 aprile 1946 (Testo in italiano riportato letteralmente).
Reverendo Don Pietro!
Vi annuncio, che abbiamo trovato la sepoltura del nostro caro figliolo. Sembra davvero un miracolo, che il 5 aprile, ricevetti la vostra lettera dal 17 marzo, nel momento, che eravamo già pronti per uscire in cerca della sepoltura. Arrivati con l’automobile al posto da Voi indicato, s’è avviata mia moglie sola per il pendio verso il primo grande albero di frassino e s’è fermata proprio accanto alla sepoltura ascoltando una voce interna, che le suggeriva, che qui giace proprio lui. E davvero dopo aver alquanto scavato, abbiamo trovato singole ossa e poi lo scheletro tutto calvo. L’abbiamo potuto riconoscere dal cranio e dai denti. Dai pezzetti di stoffa rimasti, non è possibile di riconoscere il vestito, che portava. Soltanto le scarpe sono ben conservate e se Voi, Reverendo vi ricordate che scarpe portava, fate la carità di scriverci che così sarà ancora più sicuro, che abbiamo trovato il figlio.
Se le nostre ricerche sono state efficaci, è tutto merito Vostro Reverendo, che senza il Vostro aiuto e le Vostre premure non ci sarebbe mai riuscito di trovare il nostro amato ed unico figlio. Avendolo trovato è per noi tutti, e specialmente per mia moglie, un conforto e un grande sollievo.
Che Iddio Vi contraccambi tutto quello che avete fatto per noi (..).
Vogliate agradire Reverendo i nostri più sentiti ringraziamenti per il Vostro aiuto.
Vi auguriamo una santa Pasqua di pace e Vi salutiamo rispettosamente”.

Leonardo Donghi

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