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Libano, s’è rotto il tabù confessionale

(21 Ottobre 2019)

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Reclamano da giorni la cacciata di Hariri junior, la caduta d’un governo corrotto, la fine d’un sistema che non li rappresenta e sono per una volta uniti i libanesi sunniti, sciiti, cattolici, maroniti, drusi, comunità divise in un Paese che fra le tante contraddizioni (quattro milioni di abitanti, due milioni di profughi) condivide col premier Saad Hariri, un destino comune per eredità paterna. Il capostipite Rafiq, imprenditore dalle umili origini e dalle grandi pretese conseguite col protettorato saudita, mise su un impero edilizio, bancario e delle telecomunicazioni che a inizio anni Novanta gli consentì di guidare il Paese, traghettandolo dalla guerra civile a un benessere di facciata ma non per tutti. Con lui la dinastia Saud mise le mani su Beirut, incrementando anche sulla storica striscia libanese quel confronto-scontro con l’Iran, da parte sua interessato a sostenere la corposa comunità sciita, un quarto della popolazione. Il liberismo debitorio di Hariri padre terminò col botto di San Valentino, il grosso attentato del 2005 che l’assassinò assieme a numerosi collaboratori. Fra l’ingombrante presenza dell’esercito siriano e le invasioni d’Israele il Paese visse un’ennesima fase travagliata sino alle elezioni del 2009, vinte dalla coalizione che conduceva l’allora neppure quarantenne Saad a guidare il governo. Lui cercò il massimo della cooperazione fra tutte le componenti etnico-confessionali per la difesa dell’integrità nazionale. Inizialmente ci riuscì. Però l’unità è risultata una maschera dietro cui questioni sociali son rimaste insolute.

E’ l’accusa lanciata in queste ore per le strade della capitale, della popolare Tripoli, agitata come lo sono le località meridionali di Sidone e Tiro. “I politici non ci danno nulla, le promesse non bastano” grida la gente. Le ultimissime promesse di Saad riguardano un pacchetto di riforme che il suo gabinetto s’è affrettato ad approntare per tamponare la piazza, ma l’illusione difficilmente funzionerà. Certo una protesta scoccata per una tassa introdotta sulla messaggeria WhatsApp, pur in linea con la società due punto zero, appare sovradimensionata. Eppure se da una parte mostra la giovane età delle masse in agitazione denota un malcontento per tanto altro: tassazione generalizzata e condizioni economiche problematiche, a cominciare dalle possibilità di lavoro. Il debito pubblico che il Rafiq della ricostruzione faceva salire già nei Novanta, continua a incrementare, per certi aspetti senza motivo anche perché il figliuolo, tutt’altro che prodigo, s’è fatto cogliere con vizietti d’ogni genere, fra cui quelli dei costosissimi doni all’amante mannequin a carico, sostengono i detrattori sebbene lui smentisca, delle disastrate casse statali. Ma i guai per Hariri junior travalicano la passione per le modelle in bikini, riguardano la sperequazione fra impegni statali disattesi e sperpero di denaro, nella conservazione di quello che giovani oppositori additano come un sistema politico clientelare, una moderna proposizione del padronaggio feudale.

In questi giornate nella Beirut dell’attacco al sistema, nell’Hamra dello struscio o nelle aree monumentali che fanno da salotto cittadino e anche nella periferia sud di Dahieh, l’immenso sobborgo-roccaforte di Hezbollah, s’è vista la gente di strada che resta fuori dagli apparati di gruppo e di partito. Capire come svilupperà quest’attacco al cielo delle leadership da parte d’una cittadinanza stanca dei politici è tutto da scoprire. Il premier contestato fa trapelare misure tampone per rimpinguare le finanze che sembrano contentini di facciata: dimezzare gli stipendi dei funzionari (e creando malcontento fra costoro), privatizzare il settore delle telecomunicazioni, rimaneggiare quello elettrico. La più oculata appare quella di servirsi di un’unità di tecnici, ma nella casta c’è chi torce il naso. Di fatto il sostegno maggiore che Hariri riceve proviene dai bastioni del Partito di Dio. Il segretario generale Hassan Nasrallah parlando della protesta s’è dichiarato contrario alla caduta del governo. E un po’ tutti i partiti - ovviamente il Movimento Futuro, le Forze Libanesi, il Partito socialista progressista, Amal - si sono stretti attorno al premier contestato per salvare se stessi, visto che l’aria che tira esprime la volontà di togliersi di mezzo un tabù. Magari non del tutto quello dei gruppi etnico-confessionali, ma della loro cogestione affiliativa e clientelare, finora panacea per la convivenza che però crea la frattura fra i vertici e la popolazione. Nell’incerto domani s’ipotizza anche il lasciare la piazza, finora pacifica e colorata, a un controllo dell’esercito. Proporrebbe quell’orizzonte sconosciuto a tanti ragazzi nati nel Terzo millennio. Ma certi episodi denunciati in queste ore: militanti di Amal che strattonano e minacciano taluni manifestanti possono intimorire chi non ha dimenticato lo spettro della guerra civile.
21 ottobre 2019

articolo pubblicato su enricocampofreda.blogspot.com

Enrico Campofreda

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