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Pomigliania

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(24 Giugno 2010) Enzo Apicella
Mentre la Lega rilancia la secessione della Padania, gli operai di Pomigliano fanno fallire il plebiscito richiesto dalla Fiat.

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Cosa ci faceva Berlinguer ai cancelli della Fiat?

(14 Ottobre 2005)

Chi non ha vissuto direttamente il clima di quelle settimane, certo oggi fa fatica a capire quanto e come dentro di essi sia passato uno snodo cruciale della storia italiana. Fu a Torino e alla Fiat, che di Torino era la madre-padrona e tiranna. Furono trentacinque epiche giornate di lotta operaia contro la ristrutturazione, cioè i licenziamenti, decretati dal nuovo eccellente manager Cesare Romiti. Fu l'ultima grande mobilitazione del movimento sindacale e della sinistra italiana - infine la sconfitta, della quale la così detta "marcia dei quarantamila", il 14 ottobre del 1940, divenne il simbolo corposo. Ma non si trattò di una delle tante sconfitte sindacali che ritmano, purtroppo, le lotte di classe, ma di una capitolazione sociale, politica e culturale: la fine di una stagione, e l'inizio non solo cronologico dei devastanti anni Ottanta. Nell'occidente anglosassone, proprio allora iniziava il ciclo thatcheriano e reaganiano e il neoliberismo diventava il protagonista "unico" delle politiche economiche e sociali. In Italia, la borghesia, in assenza di un mediatore politico fidato, agì in proprio: con l'obiettivo dichiarato di assestare un colpo "definitivo" ai lavoratori, al sindacato, al Pci. Un'operazione che pochi anni anni dopo, nel 1983, sarebbe stata completata dal governo di Bettino Craxi, con il taglio della scala mobile nella famigerata notte di San Valentino.

Venticinque anni dopo, l'evento brucia ancora, e non solo nelle carni di coloro che ne sono stati i diretti protagonisti. Un giornale "progressista come "La Repubblica" ricorda l'anniversario nell'ottica esclusiva dei vincitori: così, nella trasfigurazione orwellian-staliniana di Giampaolo Pansa, la marcia dei quarantamila capi e dei "quadri" di corso Marconi assurge al ruolo di Rinascita civile. Invece, gli operai che combatterono quella battaglia - e persero, e da quel momento diventarono cassintegrati, disoccupati, precari, ex-lavoratori disperati - vengono insultati, calunniati, comunque cancellati nelle loro ragioni. Non il "popolo dei cancelli" che per più di mese investì tutta la sua passione umana e civile nel tentativo di resistere, ma una sorta di blob mostruoso che, devastava la grande Fiat, creava disordine, umiliava i dirigenti. Si può raccontare così la storia d'Italia? Si può: da un paio di millenni, il piacere di essere ammessi nel salotto dei vincitori, sia pure dalla porta di servizio, non può esser negato a nessuno di coloro che vi aspirano. Solo che la furia revisionista che si scatena ora contro gli antifascisti ora contro i lavoratori oscura radicalmente non solo la "verità di classe", ma l'intera verità storica. Giacché quasi tutto quello che è successo in questi cinque lustri di cronache italiane diventa pienamente comprensibile solo attraverso quel drammatico passaggio - i 35 giorni operai della Fiat.

Ma di che si trattò? Quali conti furono "finalmente" regolati? Quelli nei quali, per oltre un decennio, per quasi tutti gli anni Settanta, era cresciuto in Italia un movimento straordinario: un Sessantotto prolungato che, a differenza degli Usa, o della Germania, o del Giappone, era stato anche e soprattutto l'ascesa di una nuova soggettività operaia - tanto forte da determinare, in un processo anche politico molto complesso, una nuova soggettività sindacale. Si chiamava "sindacato dei consigli" perché aveva assunto, come propria struttura di base, l'assemblea operaia, i delegati di reparto, insomma una nuova unità sociale e di classe che prescindeva in larga misura dalle vecchie appartenenze confederali (Cgil, Cisl, Uil): di esso, i metalmeccanici erano - come oggi del resto ancora sono - la componente più forte e determinata, l'avanguardia, per usare una terminologia antica, tanto da aver costituito una Federazione unitaria, la gloriosa Federazione dei lavoratori metalmeccanici (Flm). Tanto da aver ottenuto contratti "rivoluzionari": che conquistavano salari migliori, ma sancivano anche e soprattutto una grande idea di eguaglianza - la rottura della gabbia storica che separava gli operai dagli impiegati, il punto unico di contingenza e, di più, la conquista del diritto operaio allo studio, ad "impicciarsi" di scuola, cultura e sapere.

Una rivoluzione, dicevamo, che aveva per teatro fabbriche e scuole - spesso anche le chiese, ed anche le istituzioni della cultura, come a Venezia - e modificava in profondità i rapporti di forza e gli equilibri sociali del Paese. Davvero in quegli anni alla Fiat i capisquadra e i capireparto non avevano nessuna autorità sui lavoratori? Davvero non era facile a nessun dirigente imporre tempi, ritmi, organizzazione del lavoro, insomma il "superiore" interesse dell'azienda? Davvero. Erano gli anni in cui gli operai non si sentivano sudditi, e gli studenti non volevano essere indottrinati. Milioni, come loro, avevano in mente un'Italia diversa: oltre lo svecchiamento, oltre l'ammodernamento. Questo processo, questa straordinaria esperienza di cambiamento reale, si era spinta così avanti che si trovò di fronte ad un bivio ineludibile: o riusciva a "vincere" anche dal punto di vista politico, conquistando un vero interlocutore politico, trasformando le istituzioni, sedimentando le sue conquiste in divenire, o andava fatalmente indietro.

Quando poi, alla fine degli anni '70, mutava il ciclo economico e volgeva al tramonto "l'età dell'oro", anche dal punto di vista economico, l'impresa divenne ancora più improba: furono i padroni, a quel punto, a lanciare la controffensiva, e il conflitto si fece frontale. Gli operai della Fiat - credo - furono consapevoli, fin dall'inizio, del carattere decisivo, e anche simbolico, di una lotta che metteva tutta la sinistra, sindacato e partiti, di fronte ad una scelta netta, ad un discrimine strategico. Prevalse, come sappiamo, la sinistra che aveva scelto la strada della compatibilità - della svolta dell'Eur, della rinuncia, più o meno definitiva, ai paradigmi di classe e ad una prospettiva anticapitalistica. Morirono gli operai, il sindacato dei consigli, il sessantotto rivoluzionario - in campo, con assoluta spregiudicatezza simbolica, scesero i "quarantamila" di Arisio, con la loro voglia di revanche. Ma neppure loro, alla fine, vinsero davvero. Così come vinse la sinistra che aveva preferito perdere. Lo aveva capito con largo anticipo un comunista certo non estremista, come Enrico Berlinguer, quando scelse, con grande scandalo generale, di andare davanti alle porte della Fiat. Che cosa cercava se non, dopo la fine dell'unità nazionale, di ricominciare da lì, dagli operai della Fiat, dalla lotta di classe? Forse, soltanto venticinque anni dopo anche noi possiamo ricominciare. Da lì.

Rina Gagliardi - Liberazione 14 ottobre 2005

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