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Sulle vie di una storia disseminata

(11 Giugno 2021)

Considerazioni dello storico Carlo Ruta sugli obiettivi degli Annali di storia, per una conoscenza che si leghi saldamente, come bene comune utilizzabile, alle necessità del presente

Ernesto De Martino

Ernesto De Martino

Con l’avvio degli Annali di storia, che seguono i vari tomi di Storia dei Mediterranei, il progetto storiografico che da diversi anni si sta componendo entra in una fase cruciale, che necessita di ulteriori slanci metodologici e conoscitivi. Con varie competenze si è scandagliato il sostrato caratteriale di una storia lunga attraverso una pluralità di accostamenti. Si è lavorato sull’interdisciplinarietà, le aperture, i travasi, le specularità, le sinergie e le consonanze. Agli esordi di questa esperienza si è pensato di declinare il Mediterraneo al plurale per sottolineare il proposito di un ricollocamento tematico in senso pluridirezionale, di una «mobilitazione» quindi dello sguardo verso le alterità, le complessità, le pari dignità etniche e i mutamenti culturali. Sono state riscontrate difficoltà importanti ma il dato conclusivo è quello d’un impegno fruttuoso, utile per progettare nuove rotte.
Adesso si tratta di spostare in avanti il lavoro di disseminazione e di affrontare nuovi problemi e nodi paradigmatici. Si vive in un tempo ibrido, insieme fluido e rappreso, in un contesto globale sempre più percorso da aporie e incoerenze. È importante allora che la conoscenza storica e le discipline sociali, anche attraverso atti di riposizionamento, aiutino a riquadrare i conti e a recuperare chiavi di senso. Nello specifico di questa esperienza, si è riflettuto non poco sullo stato delle cose. Si è cercato di sondare il terreno nelle sue vastità, anche attraverso una discussione lanciata nel settembre dello scorso anno e diramatasi su vari campi disciplinari in Italia e all’estero, sul ruolo ricostruttivo della conoscenza storica, a determinate condizioni, in questa contemporaneità e negli orizzonti dei saperi in generale. Ne sono derivate interazioni produttive, che consentono peraltro di dotare il progetto degli Annali di un comitato internazionale di garanti. L’idea di fondo rimane quella di un fecondo punto di confluenza e di confronto tra esperienze che avvertono il bisogno dell’innovazione e di raccogliere le sfide poste da questa difficile modernità.
Sono tempi disagevoli, appunto. Le critiche che investono oggi il lavoro degli storici ne sono un profilo sintomatico, mentre trionfano nei circuiti mediatici, tradizionali e nuovissimi, le semplificazioni, gli schemi, i sunti e, con effetti sempre più pregiudizievoli, le manipolazioni. È il nocciolo ossimorico di una normalità abnorme, che disorienta anziché orientare, come accade nei periodi di crisi, quando i travagli della conoscenza tanto più possono generare sconcerto e timori se si dimostrano attivi e produttivi. È importante allora che non vengano forniti motivi e pretesti all’opera di demolizione del passato. E un argine a tutto ciò può essere dato da condotte spiccatamente innovatrici, dal raccordo degli studi con la vita sociale e dalla scoperta comune, interdisciplinare appunto, di valori aggiunti.
Occorre partire allora da un dato: il passato, come risorsa cognitiva e orientativa, sociale e comunicativa, può essere interpretato con adeguatezza e può essere meglio assimilato dalle comunità civili se liberato, intanto, da schemi e concetti-contenitori che, elaborati soprattutto nell’Ottocento e largamente filtrati attraverso le maglie novecentesche, appaiono ormai tristemente invecchiati. In un’epoca tanto lacerata e difficile da definire come la presente, è importante mettere in guardia dalle concettualizzazioni, a volte anche sentimentali, di mondi antichi produttori di modelli, di età dell’oro paradigmatiche, di «medioevi» cristallizzati e nello stesso tempo dicotomici, tragicamente bui per gli uni e intensamente luminosi per altri, e ancora dall’idea di una modernità arroccata in regioni privilegiate della Terra, destinata a progredire, a distribuire risorse e lumi al resto delle popolazioni e, infine, a migliorare la condizione umana nella sua interezza. Occorre arginare la concezione modernista di un progresso riverberante, che traccia a ben vedere un vero e proprio fossato, tanto ideologico quanto irreale, tra le etnie, le culture e i grandi bacini delle risorse umane, intellettuali, cognitive e morali. Occorre fare i conti allora, giorno dopo giorno, con uno dei mali oscuri più persistenti della storia, che si nutre di pregiudizi, occidentalismi, etnocentrismi e, perché no, anche di mediterraneismi.
Di luogo in luogo, di età in età, da sistema a sistema, la freccia della storia, spinta in avanti come quella del tempo ma in grado di interagire con i sostrati dell’esperienza lunga custodita dalle epoche, non viaggia in maniera lineare. Priva di moti rigidamente ascensionali ma a rischio sempre di sprofondare in maniera rovinosa, essa procede zigzagando, contorcendosi e avvitandosi. La storia non può essere resa allora attraverso rassicuranti linee euclidee, tracciabili con squadra e compasso, né può essere compresa attraverso tassonomie «perfette». Essa si compone di fratture, discontinuità, trasversalità, smottamenti, grovigli, sconnessioni, difficili da seguire anche con strategie conoscitive bene organizzate. Con l’esperienza degli Annali, su cui convergono punti di vista e differenze da salvaguardare sempre e a prescindere, si può provare a scommettere allora su una nozione articolata della complessità.
Su un piano strettamente antropologico, si può riconoscere che sono, in prima istanza, le necessità a smuovere la storia e a farne i sedimenti culturali. E le grandi necessità chiamano in causa, per forza di cose, le grandi mobilità. Lungo le epoche, le popolazioni della Terra, anche le più sedentarie, non hanno mai smesso infatti di spostarsi. Essenzialmente, la storia è fatta quindi di itinerari, attraversamenti materiali e immaginativi, sociali e culturali. Prima ancora che dalle corti, dalle cancellerie e dagli ordinati tracciati ortogonali delle capitali, essa passa attraverso le movimentate geografie dell’estremo e dell’instabile. È la vicenda lunga di mari, steppe, deserti, vie del ghiaccio e del gelo che, come è ben riscontrabile, hanno impresso svolte decisive, materiali e culturali, alla vita dei continenti. È importante allora che si stabilisca un confronto serrato con tali fenomenologie, che dalla sconnessione, dall’instabile e dall’imprevedibile hanno tratto e irradiato razionalità, manualità e saperi divenuti in buona misura patrimonio comune. Una cultura storica che, per un vizio etnocentrico e occidentalista o per tradizioni di supremazia, non si misuri in maniera diretta e con strumenti affinati con queste geografie mobili, tanto più in un’età critica come l’odierna, che le gestisce spesso in maniera del tutto incongrua, rischia di avere risonanze deleterie.
Non si comincia nulla, ovviamente. Il Novecento consegna eredità immense, fatte da esperienze che, dopo lunghi travagli, sono riuscite a rompere accostamenti e schemi legittimisti, colonialisti e imperiali. Ha rivoluzionato in sostanza il profilo delle scienze umane, tracciando alvei e rotte che in larga misura restano da percorrere. Si pensi all’importanza che continuano ad avere oggi l’annalismo francese da Bloch a Braudel, le antropologie di Claude Lévi-Strauss e di Ernesto de Martino, la New Archeology, la global history e numerosi altri modelli conoscitivi prodotti nel secolo scorso, in contesti anche soffocanti e drammatici. Si tratta di esperienze nodali, con cui è necessario fare i conti per progredire, anche quando possono ricorrere i motivi e le condizioni per percorrere vie differenti.

Carlo Ruta

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