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L'avocado del diavolo

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(11 Luglio 2010) Enzo Apicella
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L’11 settembre di Israele

(8 Ottobre 2023)

palestinesi e carro

Chi pensava che le esercitazioni militari organizzate qualche settimana fa a Gaza dal comando unificato delle diverse fazioni palestinesi (attenzione: non dalla sola Hamas, come piace dire, mentendo, alla disinformazione di regime) fossero l’ennesima manifestazione di intenti, retorica quanto materialmente impotente, e pertanto incapace di imprimere una svolta nella lotta di liberazione, ha ricevuto una secca smentita.

Da ieri sappiamo che lo Stato israeliano, da sempre raccontatoci (e raccontatosi) come un Moloch invincibile, in virtù dei suoi insuperabili servizi segreti, dei suoi armamenti di ultima generazione e soprattutto delle sue forze speciali, tra le più letali al mondo, non è così invulnerabile come si credeva. Le tante spie presenti a Gaza, gli scudi missilistici e il pattugliamento permanente di terra, cielo e mare da parte di droni, veicoli a controllo remoto e fregate militari non sono bastati per impedire alle forze palestinesi di evadere dalla prigione di Gaza per prorompere militarmente nelle colonie israeliane e restituire un po’ di terrore all’occupante sionista.

Nei tanti video amatoriali che circolavano in rete fin dalle prime ore della mattina si sono visti carri armati Merkava, spacciati come indistruttibili, messi fuori gioco da armamenti non certo sofisticati. Schemi di difesa missilistica completamente nel pallone (la richiesta di ordinativi e commesse militari non ne beneficerà granché!), generali che fino a ieri comandavano battaglioni d’assalto, portati via in mutande come ostaggi.

L’immagine migliore, però, è quella che ritrae la ruspa palestinese intenta, tra l’esultanza dei presenti, ad abbattere la barriera metallica che da decenni fa dei gazawi l’unica popolazione al mondo letteralmente incarcerata; un’immagine che da sola riassume le ragioni incontenibili della lotta di liberazione palestinese.

Gettando il cuore (e i deltaplani !) oltre l’ostacolo, i miliziani di tutte le fazioni, con strepitoso ingegno, coraggio, e certo, anche con un più avanzato equipaggiamento militare, sono usciti dalle corde in cui l’evidente superiorità militare e tecnologica dell’Occupazione li aveva confinati e, veicolando un esempio e un messaggio di riscatto ai proletari della Cisgiordania, della diaspora e, in generale, a tutte le masse arabe oppresse, hanno umiliato lo Stato sionista e la sua pretesa inviolabilità.

È la dimostrazione di come sia possibile una resistenza attiva ed efficace all’oppressione colonialista e imperialista anche nel contesto di una delle realtà più militarizzate del mondo, ed anche senza poter godere di un contesto territoriale favorevole – non ci sono montagne su cui scappare o una giungla in cui nascondersi dopo aver colpito, la stessa Gaza è appena un fazzoletto di terra. Una grande lezione che, ancora una volta, i resistenti palestinesi hanno dato a tutti gli oppressi del mondo. Altro che “resistenza passiva”! La resistenza efficace non può che essere attiva, militante, e in un contesto come quello dell’occupazione israeliana, necessariamente armata.

A mezzanotte di ieri sera il bilancio dell’operazione Diluvio di al-Aqsa si aggirava intorno ai 250 morti israeliani, tra soldati e coloni, e agli oltre 100 ostaggi. Un bottino di ostaggi inedito, che non ha precedenti nella storia recente della lotta di liberazione palestinese e che, se oggi espone la popolazione di Gaza alle scorribande terroristiche dell’aviazione sionista, consentirà domani, ostaggi alla mano, di trattare con l’occupante da una posizione di maggior forza. Del resto, fu proprio il sequestro del soldato Gilad Shalit nel 2006 a consentire ad Hamas di ottenere nel 2011, in cambio del suo rilascio, la liberazione di 1000 prigionieri politici. Decenni di colloqui di pace, di appelli alla Comunità Internazionale e al rispetto delle risoluzioni ONU avevano portato, al contrario, solo smobilitazione, peggioramento delle condizioni di vita e crescita esponenziale degli insediamenti coloniali.

Indipendentemente dall’analisi della matrice politica e/o religiosa che anima le varie fazioni che hanno condotto l’offensiva – non è la sola Hamas, lo ripetiamo, per noi questa operazione è figlia dello spirito dell’Intifada dell’unità della primavera del 2021 -, il dato da valorizzare è l’essere riuscite a costruire manu militari un nuovo potere negoziale, non certo simmetrico rispetto a quello del nemico, ma almeno reale, credibile. L’operazione di ieri, costruendo con i fatti la propria forza e credibilità, non si rivolge certo alle borghesie degli stati arabi, intenzionate da tempo, accada quel che accada, a normalizzare i propri rapporti con lo stato sionista, bensì a chi, dai giovani radicalizzati di Jenin e Nablus alle nuove formazioni armate in Cisgiordania, vuole contrastare sul terreno della lotta le truppe di occupazione e i collaborazionisti dell’ANP.

Non sappiamo se sia alle porte una nuova Intifada di massa, è ancora troppo presto per dirlo; quel che è certo è che la resistenza palestinese ha scritto una pagina di storia memorabile per tutti i movimenti di liberazione, che promette non solo di terremotare politicamente tutta la regione, compromettendo gli accordi tra israeliani e sauditi e la tenuta degli accordi di Abramo, ma anche di aprire un altro fronte della guerra globale tra oppressori e oppressi, tra sfruttatori e sfruttati, in primis contro l’imperialismo USA e i suoi alleati nella regione.

Da molte parti si fa il parallelo tra questo attacco “di sorpresa” della resistenza palestinese e l’azione “di sorpresa” degli eserciti di Egitto e Siria di cinquant’anni fa (ottobre 1973) con la guerra del Kippur. Il parallelo non regge, perché quell’iniziativa rappresentò l’ultimo conato delle borghesie arabe di contenere Israele in nome di un loro assai dubbio “anti-imperialismo”, se è vero che appena cinque anni dopo Sadat portò l’Egitto alla normalizzazione delle relazioni con Israele con i fetidi accordi di Camp David, e tanto basta. L’attacco di ieri prorompe, invece, dalla parte più diseredata e vessata della popolazione palestinese, e mette nel massimo imbarazzo le molte borghesie arabe che già hanno rapporti normali con Israele e blocca – almeno sulla scena pubblica – l’avvicinamento tra Israele e Arabia saudita sponsorizzato da Washington. Nella lotta di liberazione dei palestinesi l’elemento nazionale e quello sociale, il riscatto degli oppressi e degli sfruttati, sono ormai sempre più strettamente legati, ed è proprio questo enorme potenziale esplosivo sul piano sociale che allarma, al di là delle frasi di circostanza, tutti i governi arabi.

Se un parallelo si vuol trovare, è – semmai – con l’offensiva vietnamita del Tet partita nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968 che colse di sorpresa l’esercito occupante e costituì il punto di svolta nella guerra degli Stati Uniti al popolo vietnamita, l’inizio della disfatta yankee. Non tanto per gli immediati risultati militari, pure significativi (la sanguinaria controffensiva statunitense fece tra i 40 e i 50 mila morti in poche settimane tra i vietcong e i soldati nord-vietnamiti), quanto per l’effetto “morale” e propagandistico enorme che ebbe negli Stati Uniti, dove crollò il mito della vittoria vicina e della giustezza della guerra, e presero il via le proteste giovanili contro la guerra in tante città americane, proprio mentre si moltiplicavano le diserzioni e le ribellioni nelle truppe d’occupazione in Vietnam. Tanti israeliani comuni appartenenti agli strati sociali non sfruttatori avranno compreso ieri, con sgomento, che i palestinesi non sono affatto in ginocchio, ché anzi il loro ardimento e la loro organizzazione sono cresciuti nel tempo, e la vittoria contro di loro non solo non è vicina, è impossibile. E se in tanti sono arrivati nei mesi scorsi a dare a Netanyahu del fascista per le leggi contro la magistratura, è venuto il tempo – almeno per una quota di loro – di aprire gli occhi e la propria mente, e riconoscere che la radice ultima della politica ultrareazionaria di Netanyahu e degli altri è nell’occupazione coloniale della Palestina, è nella guerra permanente ai palestinesi, e trarne tutte le conseguenze del caso. Sfida ardua, ma assolutamente ineludibile.

A poco più di 24 ore dall’inizio dell’offensiva palestinese il bilancio di morte e distruzione provocato dalle criminale rappresaglia israeliana è pesantissimo ed è certamente destinato ad aumentare. I palestinesi lo avevano messo in conto: è il prezzo, salatissimo, per continuare il percorso della liberazione. Lontani da quelle posizioni, diffuse soprattutto alle nostre latitudini, che minimizzano i risultati di un’offensiva militare solo perché seguita immancabilmente da una spietata rappresaglia, senza coglierne invece le motivazioni radicali che la animano e l’immaginario di riscossa che trasmette, lanciamo l’appello a tutte le realtà del movimento di classe a esprimere con azioni e momenti di piazza la necessaria e dovuta solidarietà internazionalista.

Post-scriptum


Inutile dire che secondo stampa e tv mainstream italiana e occidentale, per non parlare dei rappresentanti dei partiti dell’arco costituzionale, dalla Meloni alla Boldrini, i resistenti palestinesi diventano all’unanimità terroristi e, perfino, nazisti, e ora, soltanto ora, appena da ieri, Israele è in guerra. La pluridecennale spietata guerra coloniale di Israele ai palestinesi, con la sua pulizia etnica, la distruzione totale di centinaia di villaggi, la creazione di centinaia di migliaia di profughi, gli infiniti pogrom, i saccheggi, gli oltraggi di ogni tipo, i muri, i fili spinati, le rappresaglie “sproporzionate” (secondo lo stesso odioso linguaggio delle diplomazie) fatte di massacri indiscriminati, gli arresti di bambini, l’affamamento deliberato di Gaza, le decine di migliaia di storpi, etc., tutto questo campionario di violenza terroristica e di orrori è scomparso d’incanto. Israele, lo stato oppressore, ha il diritto di difendersi, mentre i palestinesi oppressi non possono averlo senza diventare “bestie”, “assassini”, “terroristi”, “barbari” e quant’altro. Del resto, è la differenza che corre tra i super-uomini bianchi del “popolo eletto” democratico e occidentale e i sotto-uomini “di colore” che ne debbono essere gli schiavi obbedienti.

Ma l’11 settembre di Israele, come quello di vent’anni fa degli Stati Uniti, ha suonato il gong per questo rovesciamento orwelliano della realtà. Il vecchio ordine mondiale del capitalismo a guida statunitense sta andando in pezzi. E si sta aprendo la strada ad un processo rivoluzionario che sulle sue ceneri dovrà regolare definitivamente i conti con il modo di produzione capitalistico in quanto tale, in tutte le sue versioni occidentali e orientali – altro che edificare il mondo capitalistico multipolare!

Infine, in critica a quanti vedono la resistenza palestinese come un’eccezione nel mondo arabo, permetteteci un’auto-citazione per ricordare la sveglia data a tutto l’insieme delle classi sfruttate e oppresse nel mondo arabo dalla grande Intifada partita nel 2011-2012 da Tunisia ed Egitto:

«Da oltre un anno potenti scosse telluriche fanno tremare il mondo arabo. Le vibrazioni del terreno si sono fatte di recente meno intense; ma la crosta dell’ordine imperialista che ha schiacciato per decenni i lavoratori e i popoli arabi dopo la bruciante sconfitta inflitta loro nel 1967 dallo stato di Israele, e dopo le devastanti guerre di distruzione dell’Iraq, è ormai spaccata in più punti. L’enorme energia di lotta che in questa lunga “epoca dell’umiliazione” si è accumulata nelle società arabe, in particolare nelle classi più sfruttate e oppresse del mondo arabo, ha iniziato a venire alla luce come lava incandescente.

«La prima e la seconda Intifada palestinese, le ricorrenti rivolte del pane, la magnifica resistenza libanese del 2006 intorno agli Hezbollah erano rimaste dei fuochi isolati, brutalmente spenti o abilmente circoscritti da Israele e dai regimi infeudati all’Occidente. La stessa riannessione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, l’ultimo gesto di ribellione di un capo di stato arabo ai gangster occidentali, aveva sì emozionato legioni di arabi, ma il cordone sanitario steso intorno ai lavoratori e al popolo dell’Iraq anche da traditrici mani arabe li aveva lasciati soli a fronteggiare gli aggressori in uno scontro impari. I sommovimenti del 2011-2012 hanno invece percorso il mondo arabo in lungo e in largo come un’unica onda sismica, seppur di potenza molto differenziata, dalla città marocchina di Taza alle saudite al-Qatif e al-Awamiyah passando per Tunisi, Il Cairo, Homs, Bassora, Manama e Sanaa. E qualcosa di più di una lontana eco è arrivata in una miriade di villaggi.

«È una svolta storica.

«L’insorgenza di milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti – la cui partecipazione in massa nelle piazze e sui luoghi di lavoro ne costituisce uno dei dati più dirompenti, ha riaperto nelle piazze – con epicentro in Egitto – il processo della rivoluzione democratica e anti-imperialista in una regione strategica del globo. Questo processo è denso di pericoli per la stabilità del capitalismo globale da anni alle prese con una crisi produttiva e finanziaria che si va approfondendo proprio in Europa e in Occidente. E, al polo opposto, è di grande importanza per la ripresa delle lotte e dell’organizzazione del movimento proletario nel mondo intero. La grande Intifada araba, infatti, costituisce uno scatto in avanti offensivo del moto di risveglio delle masse lavoratrici del Sud del mondo in atto da tempo, e chiama direttamente in causa anche i lavoratori del Nord del mondo.”

Questo scrivevamo nell’editoriale del n. 1 de “Il Cuneo rosso” nel luglio 2012.

Il pungolo rosso

Fonte

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