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Grazie Londra

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DA DACCA A DETROIT LA CLASSE OPERAIA FA SENTIRE LA SUA VOCE

(18 Novembre 2023)

Condividiamo la riflessione dei compagni della redazione di Prospettiva Marxista sulle recenti lotte operaie nel mondo.

Dacca e...

Dai primi di novembre è in corso un vasto e prolungato sciopero degli operai tessili in Bangladesh. Una mobilitazione dal peso tale che addirittura Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria italiana, le ha dedicato, il 9 novembre, la prima pagina con tanto di ampia immagine ed il seguente titolo: Rivolta del tessile in Bangladesh no ai 106 euro di salario minimo.

I dati riportati dall’articolo sono estremamente indicativi della cornice in cui questa lotta è maturata: «le basse retribuzioni hanno fatto del Paese il secondo produttore mondiale di abbigliamento dopo la Cina. Colossi come H&M, Gap e Zara commissionano una parte consistente della loro produzione a un’industria locale che dà lavoro a 4 milioni di persone in 4mila fabbriche che ogni anno esportano capi per circa 40 miliardi di dollari, contribuendo al 16% del Pil». In gran parte donne, queste lavoratrici sgobbano in condizioni di lavoro terribili, con paghe mensili pari a 70 euro, tali da non garantire più una sussistenza a livelli tollerabili. Tuttavia, non più tardi del 25 marzo scorso, sul sito della testata cattolica Avvenire, si poteva leggere un articolo rassicurante (quello di gettare acqua, non necessariamente santa, sul fuoco della lotta di classe, è d’altro canto una delle funzioni della Chiesa) dal titolo Nel settore tessile del Bangladesh migliorano le condizioni di lavoro. Il pezzo era volto a descrivere un modello di impiego della forza lavoro che, dopo il crollo del Rana Plaza del 2013, l’edificio-fabbrica in cui morirono oltre 1.134 lavoratori, apparirebbe oggi “molto cambiato”. L’articolo narrava di «pressioni internazionali unite a una nuova coscienza sociale e maggiore attenzione delle istituzioni» che avrebbero impegnato «migliaia di aziende» del settore tessile bengalese «a una svolta». «Un cambiamento – prosegue l’articolo – motivato anche dalle maggiori possibilità di impiego che rendono la massa della manodopera disponibile meno ampia e meno sfruttabile per occupazioni che richiedono ormai conoscenze e specializzazione». In questa favola, che pare il depliant di un’azienda di moda impegnata a rassicurare i clienti sul fatto che i suoi luccicanti capi non sono stati fabbricati col sudore e col sangue di operai sottopagati, non manca neppure lo specchietto per le allodole (o per gli allocchi) di una sventolata attenzione al green: «Abbiamo investito milioni di dollari in impianti rispettosi dell’ambiente non soltanto per spuntare prezzi inferiori ma per proteggere la natura pur pensando agli affari», sottolinea l’amministratore delegato della Fatullah Apparels Ltd di Dacca, una delle fabbriche di maglieria bangladesi che hanno raggiunto la valutazione “platino” degli standard Leed (a cui poco interessano le condizioni di vita e lavoro della classe sfruttata).
Ma la realtà ci dice ben altro. Mentre i capitalisti locali, legati a doppio filo ai capitali internazionali ed esteri, facevano la propria fortuna, la classe operaia sprofondava nella miseria più nera. Se da un lato il Pil del Bangladesh scalava le classifiche del Paesi più performanti dell’Asia, tanto da crescere del 6,4% tra il 2016 e il 2021 e di poco meno negli anni seguenti, dall’altro, il proletariato tessile veniva spremuto al punto tale da arrivare oggi a dover rivendicare, per poter vivere, un salario quasi triplo rispetto a quello in essere, passando cioè dai 70 euro a 195. Ebbene, di fronte alla controproposta da parte di un comitato istituito dal Governo di un salario minimo di 106 euro, reputato ancora da fame, i lavoratori hanno giustamente rifiutato, proseguendo con la mobilitazione.
Tra cifre e trattative, si è dunque scatenata quella cosa che prende il nome di lotta. Lotta di classe, per inciso. Fino a questo momento si sono registrati oltre dieci giorni di intensi scioperi, con decine di migliaia di partecipanti, scontri con forze dell’ordine schierate dallo Stato in plotoni e che certo non hanno lesinato nei lanci di lacrimogeni e spari di pallottole in gomma, tanto che si contano tre morti e 11 mila denunciati. Le fabbriche chiuse sono oltre 150, una cinquantina di queste saccheggiate o bruciate, per questo sono state disposte milizie paramilitari a difesa degli impianti (12 novembre, la Repubblica, “Bangladesh, la rivolta delle tessitrici blocca le fabbriche dei grandi marchi”).
L’ex presidente della Knitwear Manufacturers & Exporters Association spiega, anche con pacata razionalità, che: «Le richieste dei lavoratori sono legittime ma il momento non è quello giusto: gli ordini stanno rallentando e il quadro economico è in deterioramento». Questa è la voce del padrone: per il capitale, non è mai il momento giusto.
Un filo rosso si tende dall’avvento su larga scala del capitalismo, quello della lotta tra capitale e lavoro. Forse la prima grande sollevazione dopo la Rivoluzione industriale è stata quella degli operai tessili di Lione del 21 novembre 1831, la rivolta dei Canut, i “tessitori di seta”. La loro condizione materiale non era affatto migliorata dopo le “tre gloriose giornate” del luglio 1830 (ovvero un’altra rivoluzione borghese). La sollevazione ebbe un’eco internazionale e provocò l’ingresso di quella questione sociale ed operaia sulla scena politica. Scriveva Auguste Blanqui, a detta di Marx uno dei primi rivoluzionari di professione della nostra tradizione, che il lavoratore lionese «urla ancora dalla fame mentre crea giorno e notte, per il piacere dei ricchi, tessuti d’oro, seta e lacrime».
Anche allora si assistette a dimostrazioni, scioperi, concessioni da parte padronale con riluttante copertura del potere politico della classe dominante (il prefetto Bouvier du Molard definì una “infelice necessità” la tariffa migliorativa accordata ai setaioli). Come oggi, anche allora si assistette alla mancata applicazione di vane promesse, alla ritrattazione, all’odio (borghese) di classe: i commercianti non corrisposero il salario pattuito e scrissero perfino alla Camera dei deputati che quegli degli operai erano atti “illegali”, di chi si vuole creare dei “falsi bisogni”. Anche allora i tessitori scesero compatti in piazza affrontando la repressione della Guardia Nazionale che ignobilmente sparò ad alzo zero facendo cadere a terra corpi proletari senza più vita. Allora gli operai gridarono «Alle armi, alle armi, uccidono i nostri fratelli!». Oggi la Storia ci dimostra che il padronato e il suo apparato repressivo non si fanno problemi neanche ad uccidere le nostre sorelle.
Il filo rosso, spesso tinto dal sangue della classe proletaria che alza la testa, tesse una trama che non si ferma a quelle prime fasi dello sviluppo capitalistico, ma si snoda tutt’oggi a livello internazionale, nelle vene di un capitalismo che permea l’intero pianeta e che lo scuote con le sue sempre più profonde e drammatiche contraddizioni. Dalle tessitrici di Dacca agli operai dell’automotive negli Stati Uniti, il Paese industrialmente più avanzato di tutti, abbiamo la prova provata che esiste una classe operaia internazionale, che lotta per la sua esistenza, per il suo salario, per le sue condizioni di vita, e lo fa contro la classe che oggettivamente le si contrappone in termini di interessi materiali nella realtà. Questa contrapposizione, a determinate condizioni, genera una lotta di classe che diventa acuta e palese, quando in precedenza era solo sopita e nascosta. Non è lotta per il socialismo, non è lotta per superare il capitalismo, non è lotta rivoluzionaria, ma è una lotta economica che educa la classe proletaria e i migliori elementi delle sue fila, che possono crescere in coscienza e in organizzazione tramite queste esperienze.
Fatti sociali che si ripetono, con le loro differenze ma con il loro elemento di continuità nella storia e nello spazio. Fatti che soggiacciono alle medesime leggi sociali individuate scientificamente dal marxismo. Quella lotta tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato, che anima la società moderna e odierna, non è superata dalla Storia, ma trova in essa l’ennesima scottante e attuale conferma.
Le classi esistono oggettivamente, sono un dato inconfutabile e imprescindibile della società, e lottano tra di loro. Questo è il primo insegnamento da trarre e trasmettere. Dopo decenni di ciance ideologiche sulla scomparsa della classe operaia, ecco che la realtà si premura di dare conto di simili sciocchezze e lo fa ai due capi del mondo, dalla punta più avanzata dell’imperialismo mondiale ad uno dei Paesi dell’Asia con i redditi pro-capite più bassi (per quanto possa valere questa categoria della sociologia economica borghese). Dall’arretrato Bangladesh ai tecnologici Stati Uniti, è il tessuto dei rapporti di produzione capitalistici che è divenuto mondiale, come il capitale che ha universalizzato le sue leggi e le sue contraddizioni su una scala mai vista nella Storia. Le tessitrici bengalesi e i metalmeccanici americani, che prendiamo ad esempio solo perché hanno, in un arco di tempo molto ravvicinato condotto una lotta di una dimensione tale da divenire un fatto di interesse mondiale, dimostrano altresì come lo sciopero sia ancora uno degli strumenti d’elezione della classe sfruttata per far valere le proprie rivendicazioni, oltre che una scuola di guerra, come spesso puntualizzava Lenin.
In un’intervista a il Foglio di quasi un anno fa il ministro dell’Istruzione italiana, fresco di carica, aveva sentenziato: «Penso sia cambiato qualcosa in profondità: lo sciopero come strumento di lotta politica non tira più. Non funziona più. Si è chiusa, o si sta chiudendo, un’epoca». Eppure, anche nella realtà italiana, la stessa sovrastruttura politica borghese sempre pronta a decretare la fine del concetto di classi e a celebrare il funerale dello sciopero (salvo poi definirlo un capriccio quando indetto), non esita ad alzare la guardia ogni volta che i salariati accennano ad alzare la testa, così come non esita a dispiegare i suoi strumenti di difesa del capitale, siano essi la precettazione o le bastonate agli operai delle logistiche, a testimonianza di come, evidentemente, l’epoca delle manganellate non si sia mai chiusa.
Se dunque nelle scuole della classe dominante, insieme a copiose dosi di amor di Patria e fervente nazionalismo, si vuole insegnare che lo sciopero è inattuale in un mondo dove continuano ad essere più che mai attuali lo sfruttamento e la repressione, che con lo sciopero non si risolve nulla quando la realtà dimostra (dall’Asia agli Stati Uniti, passando per Francia, Germania e Regno Unito) che è invece uno degli strumenti maggiormente efficaci per contenere il degrado delle condizioni proletarie, ebbene, a tutti questi “insegnamenti” la scuola della realtà ha qualcosa da obiettare. La scuola marxista dal canto nostro non può che scontrarsi con tutte quelle ideologie che per gli interessi della classe dominante devono continuamente, anche in forme nuove, falsificare e deformare la realtà dei fatti.

coalizioneoperaia.com

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