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Eric Hobsbawm

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(2 Ottobre 2012) Enzo Apicella
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LOTTA DI CLASSE E LOTTA PARTIGIANA. I COMPITI DELLE MINORANZE INTERNAZIONALISTE

(24 Novembre 2023)

Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.

Bagliori nella notte

XII

Sono in cinque, armati di tutto punto e decisi a «risolvere la contraddizione». In pochi minuti arrivano davanti alla baita, accorgendosi soltanto lì di essere incappati nel primo imprevisto: i due sorveglianti non si trovano all’esterno, ma sono addirittura seduti allo stesso tavolo dei due condannati e stanno giocando a carte con loro. Il Piccoletto, mentre li osserva da una finestra, ha un moto di stizza, poi decide di entrare ugualmente, senza farsi troppi scrupoli su quelle presenze inattese. Seguìto dagli altri quattro circonda il tavolo, tenendo la canna del mitra rivolta verso il basso per non svelare le proprie intenzioni. Skledar e l’altro partigiano si dimostrano sorpresi per questa specie di irruzione, ma non reagiscono in alcun modo, anzi, a un preciso cenno del capo, si alzano e se ne vanno. Jean rimane inchiodato alla sedia: forse capisce o forse no, e comunque non si muove. Maurice, invece, non ha dubbi: in una frazione di secondo realizza che quello è un plotone d’esecuzione, venuto lì per loro. Con un gesto rapidissimo, che lascia tutti di stucco, si lancia fuori da una finestra aperta, urlando a Jean di scappare. Il Piccoletto, preso alla sprovvista, ordina agli spagnoli d’inseguirlo, mentre i due francesi si buttano sul corpo di Jean, bloccandolo a terra. Jean, il più giovane di tutti, ventiquattro anni ancora da compiere, ha solo il tempo di pensare «Non così, non per mano di partigiani» e di gridare «Bastardi, siete peggio dei nazisti!», ma anche di sentire il Piccoletto mentre gli dice «Crepa, canaglia trotskista!». Il primo proiettile gli si conficca in un polmone, spezzandogli il respiro, il secondo lo colpisce al basso ventre e il terzo, quello finale, gli entra nella fronte, sparato da una distanza di pochi centimetri. Stefano Tassinari, Il vento contro, 2008

Originariamente, il rifiuto di combattere e di produrre per la guerra di Hitler, di Pétain, di Mussolini, la formazione di aggregazioni di renitenti alle leve militari dei governi collaborazionisti (Vichy, Salò), di renitenti al servizio di lavoro coatto, e di minoranze di operai costretti alla fuga per il loro coinvolgimento nelle lotte urbane, non poté, ma nemmeno volle avere, nella stragrande maggioranza dei casi, scopi militarmente offensivi; tutt’altro. Molto spesso si diventava “partigiani” esattamente per non dover partecipare alla guerra: la montagna era “ricovero, luogo per sottrarsi o difendersi prima che per attaccare”[1].

Le bande partigiane, dunque, traevano la loro origine proprio da un generico e non pienamente consapevole rifiuto della guerra, e

fare la guerra per non doverla fare è assai meno contraddittorio di quanto a prima vista possa sembrare.[2]

A confermare questo generico rifiuto della guerra

Molti dei numerosi conflitti tra bande partigiane, e le mai del tutto sopite tensioni tra partigiani e comunità locali, si dislocano non a caso laddove si attraversa il crinale, friabile e mobile, che separa la resistenza come forma di difesa dalla guerra, dalla resistenza come attiva partecipazione alla guerra.[3]

Tra renitenza e aggregazioni autodifensive extra-urbane si viene a creare un circuito chiuso nel quale la renitenza trae alimento dall’esistenza delle bande partigiane, un’esistenza che

la incoraggia e indirizza, offrendo una meta, uno sbocco, un punto di aggregazione e di rifugio ai renitenti[4]

Processo a cui contribuisce la propaganda stalinista, che, una volta stabilita la propria egemonia sulle bande, fa della lotta partigiana la via maestra che la classe operaia deve intraprendere, nel nome della “liberazione nazionale” e dell’“antifascismo” per la “democrazia progressiva”.

D’altra parte, nel contesto della guerra e dell’occupazione imperialista e come conseguenza di più di due decenni di sconfitte, di reazione borghese e di tradimento opportunista, che avevano privato violentemente la classe operaia del suo elemento rivoluzionario riducendola ad uno stato di profonda demoralizzazione, alla perdita della fiducia in sé stessa e nelle sue capacità di lotta, la coscienza di classe doveva cedere alle sirene dell’odio nazionalista, che traevano costantemente alimento dal feroce comportamento della potenza imperialistica tedesca.

Lo “straniero” oppressore, che si configurava come il più immediato responsabile delle sofferenze sociali, ne diventava anche l’unico responsabile agli occhi di un proletariato a cui era stata sottratta la capacità di individuare le cause più mediate, le cause profonde della propria condizione, esacerbata dalle contraddizioni capitalistiche e dalla dinamica dell’imperialismo.

Il rifiuto della guerra, privo di una chiara connotazione politica classista, unito alla superficiale identificazione della lotta contro le conseguenze della crisi imperialista con la lotta contro l’oppressione straniera, fu un terreno sul quale l’opportunismo operò abilmente per dirottare la classe operaia verso binari diversi da quelli della lotta contro l’oppressione capitalistica in sé.

Da un punto di vista oggettivo, la tendenza di fondo che spinse molti proletari nei movimenti resistenziali rappresentava dunque il confluire di forme embrionali e confuse di reazione di classe contro uno stato di cose divenuto intollerabile e le cui cause erano da ricercarsi nel sistema capitalistico nel suo complesso. Questa tendenza profonda era determinata dalle condizioni oggettive in cui si trovava il proletariato ma la sua piena esplicazione dipendeva dal livello della sua consapevolezza. Fu precisamente l’insufficienza di questa consapevolezza a permettere a tutti i contendenti dell’imperialismo, ai partiti borghesi di ogni colore e sfumatura, prima di trascinare la classe operaia al massacro sui campi di battaglia, sotto le bombe o nei lager, e poi di sfruttare anche la sua insofferenza per le conseguenze della guerra per i propri scopi di rapina e sfruttamento.

Certamente, il compito di minoranze internazionaliste che fossero arrivate puntuali all’appuntamento con la crisi capitalistica sfociata nella seconda guerra imperialistica mondiale sarebbe stato quello di sforzarsi di portare a piena consapevolezza la tendenza profonda alla lotta contro il capitalismo, denunciando la responsabilità nella guerra e nell’occupazione imperialiste delle borghesie di tutti i paesi; di riconoscere le forme di lotta per mezzo delle quali questa tendenza si esprimeva e di provare a organizzarle e coordinarle; di combattere senza tregua l’influenza politica, ideologica e organizzativa della borghesia all’interno di queste forme e di convincere il proletariato a rifiutare tutte quelle forme di lotta che invece permettevano di imbrigliare questa tendenza e di deviarla verso risultati compatibili con il mantenimento del sistema capitalistico.

Se, dato il suo carattere borghese, era fuori discussione la partecipazione politica, l’inquadramento organico all’interno di una “resistenza organizzata” che rappresentava a tutti gli effetti la prosecuzione della guerra imperialista, in qual modo poteva porsi la questione del rapporto tra le minoranze internazionaliste e le formazioni partigiane a connotazione operaia durante la Seconda guerra mondiale?

In Italia, i militanti rivoluzionari della Sinistra comunista che facevano riferimento al giornale clandestino Prometeo stabilirono dei contatti con alcuni di questi gruppi partigiani, raggiungendoli personalmente – talvolta con grande rischio della propria incolumità –, fornendo loro materiale di approfondimento politico e discutendone insieme il contenuto. In pochi, purtroppo rarissimi, casi, riuscirono persino a spostare alcuni di questi gruppi su posizioni coerentemente classiste ed internazionaliste, ed a convincerli a non combattere per uno schieramento imperialista contro un altro, a riconoscere nella massa dei soldati tedeschi non necessariamente dei nemici ma dei proletari non pregiudizialmente sordi al richiamo della solidarietà di classe.

Si trattò tuttavia di un lavoro che, per tutta una serie di difficoltà materiali, rimase episodico, legato a particolari circostanze favorevoli; che non riuscì a superare il livello artigianale e che, nella maggior parte dei casi, fu prontamente ed efficientemente contrastato dall’apparato organizzativo dello stalinismo, che si spinse fino all’infamia di assassinare vigliaccamente alcuni di questi militanti, colpendoli alle spalle o addirittura nel proprio letto davanti ai loro congiunti. Altrettanto complicata sarebbe stata la pratica dell’“entrismo” o dell’infiltrazione nelle formazioni partigiane, per via del contesto generale in cui queste operavano e delle loro caratteristiche organizzative, determinate dagli obiettivi politici verso cui la direzione stalinista le aveva orientate. Come scrive Pierre Lanneret:

Persino animata dalle migliori intenzioni, l’attività clandestina non favorisce ampi dibattiti né una politica democratica, se si escludono brevi momenti di discussione all’interno di cerchie ristrette. La Resistenza non era un forum di discussione politica. Per farsi conoscere e rispettare all’interno di un gruppo necessariamente ristretto, un militante infiltrato avrebbe dovuto obbedire agli ordini e assolvere gli incarichi che gli fossero stati affidati. In altre parole: sarebbe stato perduto per la sua organizzazione e per le sue idee. Per non parlare dei sospetti che gli stalinisti manifestavano all’interno delle organizzazioni da essi controllate[5].

In effetti, la differenza rispetto ad un lavoro rivoluzionario clandestino condotto all’interno delle unità di un esercito regolare risiedeva principalmente nelle dimensioni giocoforza limitate delle formazioni partigiane, dimensioni che rendevano più agevole ai comandi un controllo politico continuo e pressoché totale sugli effettivi.

In un esercito borghese di decine, centinaia di migliaia, o addirittura milioni di soldati, gli spazi per un lavoro di propaganda politica rivoluzionaria, per quanto tale lavoro possa essere reso arduo da un solido apparato di controllo e vigilanza, sono inevitabilmente maggiori e tendono ad allargarsi nella misura in cui le operazioni militari si prolungano, le sconfitte si susseguono e le condizioni di vita dei soldati peggiorano.

Nella formazione dei primi nuclei di proscritti che si danno alla macchia, le forze politiche borghesi e opportuniste “resistenti” individuano fin dal principio molteplici vantaggi e si mettono immediatamente all’opera per assoggettarli. I gruppi isolati sono più facilmente controllabili, più difficilmente possono sfuggire di mano; sono separati dalle grandi masse urbane, dall’ambiente della classe e dalle correnti che la attraversano; i contatti, le informazioni e le letture possono essere controllate e filtrate più agevolmente. La convivenza e la vicinanza continua tra i combattenti e una direzione militare politicamente inquadrata rende gli eventuali spazi di azione rivoluzionaria pressoché inesistenti. Alla fine di questo processo nelle strutture organizzative partigiane vige una disciplina ferrea, in virtù della quale nessuna iniziativa di base può essere tollerata, e chi osa esprimere serie obiezioni di carattere politico molto spesso viene isolato, marginalizzato o “liquidato” sommariamente. In questo modo diveniva possibile condurre una lotta armata per obiettivi politici definiti e limitati, evitando di armare le masse urbane, cosa che, in presenza di un nucleo proletario cosciente, e per piccolo che possa essere, evoca sempre nella borghesia il pericolo di un’insurrezione[6].

Nelle grandi concentrazioni industriali urbane la lotta del proletariato tende ad assumere un carattere di massa – ne sono limpida testimonianza gli imponenti scioperi operai che scoppiarono in Olanda, in Italia e in Francia – e solamente una lotta di massa del proletariato urbano può condurre una efficace lotta rivendicativa e persino porsi e porre la questione rivoluzionaria del potere, unico modo per il proletariato di sciogliere dal punto di vista dei suoi interessi di classe il nodo della guerra e dell’occupazione imperialista. Date queste premesse, la diaspora degli elementi più attivi ed intraprendenti del proletariato dalle città verso le zone rurali e montuose – posto che non vi siano costretti dall’assoluta impossibilità di continuare a vivere e lavorare politicamente nel proprio ambiente sociale – costituisce un indebolimento del movimento rivoluzionario. Al contrario, è solo ponendo al centro della strategia politica rivoluzionaria il rafforzamento dell’organizzazione del proletariato nelle grandi città industriali, laddove esso può esplicare al massimo la sua forza, nei gangli vitali – economici e politici – del dominio borghese, che anche le formazioni guerrigliere possono costituire un valido elemento di supporto.

Una forte organizzazione del proletariato su base di classe, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, può mantenere serrati i propri ranghi e saldi i propri collegamenti anche in caso di mobilitazione per il lavoro coatto e persino in caso di deportazione in altre regioni e paesi. Ovunque venga trascinato, il proletario cosciente – al contempo presupposto e risultato di questa organizzazione – costituirebbe una cellula nervosa connessa con le altre cellule di un organismo capace di agire in qualsiasi situazione: in fabbrica, nel campo di lavoro, in un altro paese. Subordinate ad un simile movimento, le formazioni operaie armate extra-urbane potrebbero indubbiamente rappresentare uno strumento utile per svolgere compiti particolari per i quali è necessario non compromettere gli operai che lottano nelle città: liberazione di prigionieri dalle carceri o dai convogli di deportati, sequestro di armi e vettovaglie, distruzione di archivi civili e di polizia, distribuzione di materiale di propaganda presso le caserme dei soldati della potenza occupante, servizio d’ordine per eventuali manifestazioni di massa, staffette per la trasmissione di informazioni e indicazioni tra le varie zone e città, ecc.

Purtroppo, nel corso della Seconda guerra mondiale, le minoranze internazionaliste coscienti che avrebbero dovuto rappresentare un elemento fondamentale di questa ipotetica organizzazione del movimento rivoluzionario, si trovavano, di fatto, in condizioni di pratica impotenza. L’opportunismo stalinista, uno degli artefici della debolezza del proletariato, della sua disgregazione politica e della sua subordinazione agli interessi della classe dominante, seppe approfittarne sottraendo gli operai più attivi da un loro possibile impegno nella lotta in città; incoraggiandoli a raggiungere individualmente o in piccoli gruppi, nelle campagne o sui monti, le formazioni guerrigliere; rappresentandole e magnificandole alla classe operaia come unica forma di lotta degna di questo nome, sminuendo come “attendismo”, “economicismo” o persino come “vigliaccheria pacifista” le lotte del proletariato urbano e subordinando queste ultime alle esigenze militari della guerra imperialista[7].

Solo una radicata presenza nella classe operaia, costruita negli anni precedenti grazie alla piena chiarezza teorica, laddove la classe si trovava – nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro – prima che una parte di essa fosse obbligata a entrare negli eserciti e in seguito a darsi alla macchia, avrebbe potuto consentire agli internazionalisti di rapportarsi in modo politicamente proficuo con le formazioni di operai armati e addirittura incaricarsi di organizzarle, gestendo direttamente le esfiltrazioni dalle città. Tralasciando il fatto che, in virtù della forza dell’organizzazione del proletariato urbano, queste formazioni avrebbero probabilmente avuto un peso minore di quello che in effetti ebbero, parte degli operai che fossero stati costretti a costituirle ed a confluirvi per sfuggire alla repressione avrebbero rappresentato elementi politicamente coscienti e vincolati da legami organizzativi, in grado di contrastare energicamente e dall’interno l’influenza del socialsciovinismo opportunista.

Nelle circostanze date, gli internazionalisti non potevano fare molto di più di quanto fecero, non può essere negato; tuttavia, non si ripeterà mai abbastanza che, da un punto di vista rigorosamente marxista, i rivoluzionari, oltre che essere un prodotto delle circostanze costituiscono sempre, a loro volta, anche uno dei molteplici fattori che si combinano nel determinare quelle stesse circostanze.

Vale la pena di ribadirlo per chi, negli anni successivi alla fine del conflitto e persino provenendo direttamente da quelle esperienze, ha preferito evitare di riconoscere le cause soggettive della propria incapacità di intervento, postulando a posteriori una assoluta impossibilità di intervento. Il fatto che, allo scoppio della conflagrazione, si fosse ormai fuori tempo massimo per recuperare il ritardo del partito non implica che gli organismi espressi dalla classe in quel contesto – per embrionali, incompiuti, fragili che fossero – non avrebbero potuto e dovuto essere un terreno di intervento politico per minoranze internazionaliste che invece si fossero trovate in condizioni operative differenti grazie ad un lavoro politico precedente. Tanto è vero che alcune di queste minoranze quell’intervento lo tentarono. In mancanza di queste differenti condizioni operative ed in circostanze tanto drammatiche da rendere oggettivamente difficilissimo e pericolosissimo rapportarsi con le formazioni partigiane, il lavoro politico nelle fabbriche, oltre ad essere quello fondamentale da un punto di vista di classe, rimase anche l’unico per mezzo del quale le minoranze internazionaliste potessero ottenere qualche risultato.

NOTE

[1] S. Peli, op. cit., p. 207.

[2] Guderzo, L’altra guerra, cit. in S. Peli, Ibidem, p. 207.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem, p. 209.

[5] Pierre Lanneret – Les internationalistes du «troisième camp» en France pendant la deuxième guerre mondiale, Editions Acratie, 1995.

[6] Non è un caso che le SAP (Squadre di Azione Patriottica), formazioni composte prevalentemente da operai che lavorano ancora nelle fabbriche e quindi legati all’ambiente di classe, nonostante fossero pienamente sotto il controllo del PCI e nonostante fossero numericamente consistenti, vengano costituite relativamente tardi e relegate a compiti limitati di ausilio alle bande guerrigliere extra-urbane o ai più selezionati GAP (Gruppi d’Azione Patriottica).

[7] In questo contesto, l’obiettivo delle brigate partigiane egemonizzate dagli stalinisti di scatenare “insurrezioni” nelle grandi città, contro i tedeschi in ritirata e prima dell’arrivo degli Alleati, rientrava unicamente nella necessità dei PC e delle altre formazioni politiche di conquistare, tramite dimostrazioni di efficienza militare e delle capacità di controllo di vaste masse, legittimità, autorevolezza, spazi di interlocuzione per non rimanere esclusi dalla spartizione dei poteri e delle cariche nelle istituzioni borghesi che sarebbero sorte in seguito alla “liberazione” da parte degli Alleati. “Nelle istruzioni che Togliatti per la Direzione del partito invia il 6 giugno 1944 «a tutti i compagni e a tutte le formazioni di partito», dopo aver affermato che la linea generale del partito è l’insurrezione generale delle regioni occupate contro i nazifascisti, precisa «che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani, una vola liberata tutta l’Italia, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di una Assemblea costituente»”. R. del Carria, op. cit., p. 136.

Circolo Internazionalista "coalizione operaia"

1944