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(12 Novembre 2012) Enzo Apicella

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A Gaza, genocidio fa rima (anche) con profitto

(3 Dicembre 2023)

scheckel

Il colonialismo d’insediamento da cui lo “Stato ebraico” è nato e l’espansionismo senza limiti che gli è connaturato hanno da tempo dato vita a partiti e movimenti messianici e ultrasionisti, largamente presenti nella società israeliana e maggioritari soprattutto negli avamposti coloniali stabiliti nei territori occupati. Queste formazioni politiche, parte integrante del governo Netanyahu, non fanno mistero di considerare l’intera Palestina storica come loro di diritto e di lavorare affinché i Palestinesi siano definitivamente espulsi con ogni mezzo per costruire il Grande Israele (o la Giudea).

Ilan Pappé, nell’articolo che abbiamo ripreso pochi giorni fa (**), ne parla con la consueta chiarezza a proposito dei “due pilastri” su cui si fonda Israele. Uno di essi, quello “morale”, è stato messo alla prova dalla incessante resistenza palestinese e ha mostrato più volte, e tanto più dal 7 ottobre, la sua inconsistenza e la ferocia del suo vero volto. L’ha mostrato, ovviamente, solo a coloro che hanno occhi per vedere, e che non confondono la dominazione coloniale esercitata dagli apparati di oppressione sionisti sulle masse palestinesi con gli scontri che gli Stati borghesi, grandi e piccoli, conducono incessantemente sul mercato mondiale per regolare con la forza – economica, politica, diplomatica e militare – le reciproche “sfere d’influenza”.

L’altro pilastro, quello materiale, ha invece a che fare con la forza militare, l’industria bellica e della cybersecurity, il know-how in materia di high-tech e, più in generale, la solidità del sistema economico.

Anche su questo tema, abbiamo segnalato un articolo di Kit Klarenberg (***) che traccia un quadro della situazione economico-sociale di Israele, senza trascurare l’impatto che la resistenza palestinese ha avuto e ha su di essa e che ha reso Israele un luogo sempre più problematico e insicuro come destinazione degli investimenti dei grandi gruppi finanziari internazionali. L’economia israeliana versa da tempo in una situazione di crisi e instabilità crescente, acuitasi con l’attacco del 7 ottobre, che ha gettato nella polvere il mito di invincibilità del suo esercito e dell’apparato militare e poliziesco sionista.

Lo stato del capitalismo israeliano, al di là delle previsioni sul suo futuro prossimo, ci sollecita a qualche altra breve considerazione riguardo al “contenuto economico” dell’operazione genocida Swords of Iron, con la quale Tel Aviv ha reagito all’attacco della resistenza palestinese e a come esso si inserisce nel “grande gioco” del Medio Oriente. È un “gioco” al centro del quale sta il conflitto israelo-palestinese, ma a cui partecipano tutte le grandi potenze e gli Stati che aspirano ad ampliare la loro influenza nell’area, siano essi quelli arabi o gli Stati non arabi di tradizione islamica come Turchia e Iran.

Il capitalismo di Israele ha le sue radici nella dominazione coloniale. Per questo, inevitabilmente, si è sempre caratterizzato per la tendenza strutturale all’espropriazione delle ricchezze palestinesi e al loro utilizzo a beneficio dell’occupante. Si tratti delle terre rubate, delle risorse idriche confiscate e utilizzate per la propria agricoltura e i propri insediamenti industriali e residenziali, della sottrazione delle risorse della pesca – un’attività sistematicamente limitata ai gazawi, fino all’interdizione completa – o dell’utilizzo della forza-lavoro palestinese – da sfruttare a basso costo e senza diritti, per poi essere rimandata nei bantustan dei Territori Occupati, se non nei paesi arabi limitrofi – Israele ha sempre avuto nei confronti della popolazione e delle risorse economiche e naturali palestinesi un rapporto essenzialmente predatorio.

Non stupisce allora che la scoperta degli importanti giacimenti di gas e petrolio Leviathan e Gaza Marine al largo delle coste di Gaza avvenuta già da diversi anni abbia “naturalmente” attizzato gli appetiti israeliani, aggiungendo anche questo tassello al bellicismo di Tel Aviv e alla sempre più marcata tendenza all’oppressione, al confinamento, all’ulteriore espulsione dei Palestinesi dalla Palestina. Più ampia è la parte della Palestina che Israele riesce a “ripulire” della presenza palestinese, più il progetto ultrasionista del Grande Israele avanza e mantiene sostenibilità.
L’attuale genocidio a Gaza, con il suo lugubre corollario di pratiche di pulizia etnica, che ricalcano quelle attuate nel 1948 per fare terra bruciata dei villaggi palestinesi ed espellere quasi un milione di abitanti originari, mentre un’altra parte veniva massacrata, rientra pienamente nell’operato storico di Israele. Come sostengono documenti di “approfondimento” interni al governo Netanyahu, la prospettiva di Tel Aviv è quella di una nuova Nakba, che spinga nel sud della Striscia quanti più Palestinesi possibile e metta tutti di fronte al fatto compiuto di una nuova “sistemazione” del territorio. Di questo nuovo assetto Israele, in un modo o nell’altro, vorrà essere il dominus incontrastato.

Certamente, per ritornare alle considerazioni sui contenuti economici dell’operazione, il nuovo status di Gaza faciliterebbe anche lo sfruttamento totale, senza elementi di disturbo, delle risorse energetiche che spetterebbero ai Palestinesi e che Tel Aviv intende utilizzare per puntellare la sua economia in affanno.

Tuttavia, questa ulteriore rapina coloniale di risorse che Israele potrebbe compiere, non costituisce il movente della sua operazione militare (come qualcuno sembra credere). Da ciò che è dato sapere, Tel Aviv controlla già direttamente o indirettamente larga parte di queste risorse energetiche. Per quanto riguarda i giacimenti al largo di Gaza, Israele ne dispone attraverso la propria compagnia New Med Energy dividendo i proventi con la multinazionale statunitense Chevron. A dispetto della “illegittimità” dei suoi comportamenti, lo Stato sionista ha confiscato già da anni i giacimenti marittimi palestinesi e controlla quelli di terra, che si trovano nell’area della Cisgiordania interdetta ai Palestinesi e sotto il suo pieno controllo.

La distruzione di Gaza e il nuovo capitolo di pulizia etnica che Israele sta compiendo può ben avere l’effetto collaterale di trasferire ricchezza palestinese nelle mani dei sionisti. Ma l’obiettivo principale che muove Tel Aviv, al pari delle altre potenze imperialiste, non è tanto l’accaparramento immediato di nuovi profitti, ma la difesa delle condizioni del profitto. E nel caso di Israele, le “condizioni del profitto” coincidono in assoluto con le sue stesse “condizioni di esistenza”.

In particolare, arrestare il deflusso di capitali internazionali, contrastare la perdita di credibilità nel campo della cybersecurity, rilanciare le prospettive della propria industria militare, ecc., tutto ciò richiede che la resistenza palestinese non rialzi la testa e che lo Stato sionista possa continuare a vendere l’immagine di un paese sicuro, che attira investimenti e turismo, in cui Tel Aviv continui a proporsi come una metropoli della ricchezza e del divertimento.

La resistenza palestinese, l’indomabilità di questa lotta che dura da un secolo e che non ne vuol sapere di scomparire, ma anzi risorge ogni volta più determinata che mai, è la variabile che i paesi imperialisti e il loro codazzo di “potenze regionali” non riescono a mettere sotto controllo.

Certo, nel caos dell’ordine capitalistico internazionale, sempre più dominato da un insieme di crisi che si intrecciano e si condizionano l’un l’altra, l’azione di ciascuno Stato per difendere le migliori condizioni possibili di accesso al profitto entra in conflitto con l’azione che i propri concorrenti, e anche i propri alleati, conducono sul mercato mondiale. Un esempio di ciò lo possiamo vedere nei convulsi e molteplici tentativi – cui partecipa attivamente Israele – di costruire “corridoi” e rotte commerciali in cui ciascuno Stato si propone ad un tempo di danneggiare alcune iniziative (vedi la BRI cinese) ma di coglierne anche particolari vantaggi. Il risultato è che nel medesimo campo di alleanze prendono corpo progetti contraddittori che alimentano l’instabilità anziché ridurla.

Allo stesso modo, il declino dell’egemonia statunitense, l’allentamento che questo fenomeno produce nei sistemi di alleanze regionali, la maggiore penetrazione della Cina – artefice del riavvicinamento fra Riyad e Teheran -, rimescolano pesantemente le carte e, allo stesso tempo, sottopongono tutti gli Stati, a cominciare da Israele, a nuove tensioni. Anche da questo punto di vista, sarebbe un errore leggere in modo unilaterale la devastante offensiva contro Gaza come lo strumento di specifici disegni economici, non fosse altro perché la stabilità del capitalismo israeliano dipende da una pluralità di fattori che non possono essere semplificati oltre misura.

Non a caso, le letture che privilegiano esageratamente l’accaparramento di risorse come movente principale dell’agire israeliano, fanno il paio con l’interpretazione delle politiche statunitensi come diretta proiezione degli interessi del complesso militare-industriale, interpretazioni che possono condurre a travisamenti di non poco conto.

Se è vero che la politica imperialista di uno Stato non è un punto di partenza ma di arrivo, cioè scaturisce dalla lotta tra le varie frazioni delle classi dominanti ed è plasmata dalle componenti più forti che risultano vincitrici, è altrettanto vero che la vittoria si misura anche con la capacità di assicurare le migliori possibilità di valorizzazione all’insieme del capitale. Per tale via, si determina uno schieramento della borghesia di ciascuno Stato che ne rispecchia il posizionamento nello scacchiere internazionale e la cui stabilità è direttamente proporzionale alla forza complessiva di quel determinato paese.

D’altra parte, i problemi dell’economia e della società israeliana hanno rafforzato la spinta a cogliere nello scontro con la resistenza palestinese l’occasione per rendere completa e irreversibile l’espropriazione di ogni risorsa naturale del popolo palestinese, suggellandola con un nuovo infame capitolo della pulizia etnica del sionismo. È per questa ragione che oggi la solidarietà militante con la resistenza palestinese è di un’importanza speciale, come hanno inteso milioni e milioni di proletari e di militanti in tutto il mondo; ed è per questa stessa ragione che deve ulteriormente svilupparsi e radicalizzarsi.

(**) https://pungolorosso.wordpress.com/2023/11/25/i-due-pilastri-di-israele-e-il-loro-collasso-ilan-pappe/

(***) https://pungolorosso.wordpress.com/2023/11/25/il-pesante-tributo-della-guerra-di-gaza-alla-economia-israeliana-kit-klarenberg/

Il pungolo rosso

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