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(28 Luglio 2012) Enzo Apicella

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(Il nuovo ordine mondiale è guerra)

Sulla grande manifestazione del 24 febbraio a Milano, e ciò che resta da fare

(29 Febbraio 2024)

Un contributo della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria (anche in versione in lingua inglese)

Lotta di classe internazionale

La manifestazione di Milano del 24 febbraio “con la resistenza palestinese, blocchiamo le guerre coloniali e imperialiste” ha avuto una partecipazione molto superiore a tutte le aspettative. Anche alle nostre, di noi che abbiamo lavorato come bestie da soma (con un po’ di sale in zucca) per farla riuscire. Come al solito, non staremo a questionare sui numeri, che pure hanno il loro peso. Del resto gli stessi velinari della questura si sono auto-corretti in sequenza arrivando a dire, ufficialmente: erano più di 20.000. E tanto basta. Eravamo in effetti decine di migliaia.

In ogni caso, è stata la più partecipata e forte manifestazione politica avvenuta negli ultimi tempi in Italia a sostegno della causa palestinese e contro le guerre del capitale. Abbiamo sentito compagni palestinesi che molto stimiamo anche per la loro misura, definirla perfino storica. Quel che più conta, per noi, in fatto di numeri, è che il corteo si sia andato continuamente ingrossando strada facendo, nonostante la questura ci avesse imposto di passare per zone (salvo la stazione centrale) poco frequentate. E che la piazza Cairoli abbia continuato a restare piena anche a corteo finito.

La manifestazione ha visto una forte, animatissima presenza di giovani palestinesi e arabi/e di seconda generazione, ed anche di giovani italiani/e di nascita, con una molto nutrita e viva partecipazione di proletari immigrati, per lo più organizzati con il SI Cobas. Maledettamente ridotta, ancora, la presenza di gruppi operai di fabbrica italiani. Sebbene con numeri modesti rispetto alla massa del corteo, c’erano pressoché tutte le componenti del sindacalismo di base, comprese quelle che avevano deciso di disertare lo sciopero del 23 febbraio. Presenti anche delle pizzicate di pacifisti più coerentemente militanti, di giovani ecologisti, di donne appartenenti al movimento femminista maggioritario – giustamente criticato per il suo sentire filo-colonialista.

Grande è la nostra soddisfazione per avere concorso con tutte le nostre forze – come compagni/e della Tendenza internazionalista rivoluzionaria e del SI Cobas – a preparare questa manifestazione. Per quello che ci riguarda, la consideriamo il punto di arrivo di un cammino partito dall’assemblea dell’11 giugno dello scorso anno a Milano (che fu il seguito, a sua volta, del convegno del 16 ottobre 2022 a Roma), proseguito con la manifestazione di Ghedi del 21 ottobre, con lo sciopero della logistica del 17 novembre a sostegno del popolo e della resistenza palestinese e la successiva dimostrazione a Bologna, e poi ancora con il nuovo sciopero del 23 febbraio contro il genocidio sionista-occidentale a Gaza, la guerra, l’economia di guerra e il governo Meloni, che finalmente è riuscito ad aprirsi qualche varco anche al di fuori della logistica. Un tassello fondamentale di questo percorso è stata l’indizione della giornata del 24 febbraio come prima giornata internazionale e internazionalista di lotta contro tutte le guerre del capitale in corso, a cominciare dal massacro in Ucraina, e in accelerata preparazione, che ha visto scendere in piazza in decine di città del mondo, da Buenos Aires a Tokio passando per le principali città della Germania e dell’India, organizzazioni politiche, sindacali, sociali unite da un comune appello alla lotta proposto dalla nostra organizzazione

Si tratta, ora, di non appagarsi del risultato raggiunto, pianificando i passi ulteriori di iniziativa. Proprio per questo ci sembra utile ragionare sul percorso che ha preparato la manifestazione di Milano, sulle difficoltà e gli intralci che abbiamo dovuto superare, dal momento che niente potrebbe essere più lontano dal vero dell’idea di una eruzione spontanea di questa manifestazione, e della supposizione di una sua facile, lineare riedizione. [Il nostro ragionamento qui è concentrato sulla situazione italiana, verremo nei prossimi giorni sull’iniziativa a scala internazionale.]

E’ vero il contrario.

Nella fase che ha preceduto il corteo di sabato a Milano c’è stato un intenso confronto-scontro politico intorno a tre alternative: 1) fare una manifestazione solo contro il genocidio a Gaza, o una manifestazione contro tutte le guerre del capitale (“colonialiste e imperialiste”)? 2) organizzare una semplice dimostrazione di piazza, o una mobilitazione poggiante su uno sciopero e su azioni collettive di denuncia contro specifici legami economici e istituzionali di Israele con imprese e istituzioni culturali italiane, o presenti in Italia? 3) tenere un’unica manifestazione nazionale o due manifestazioni nello stesso giorno, a Milano e a Roma (come proposto nella riunione del 28 gennaio a Roma alla seconda Assemblea nazionale sul boicottaggio dello stato di Israele)? In tutti e tre i casi i nodi sono stati sciolti con la netta prevalenza della linea politica internazionalista, combattiva e unitaria sostenuta dalla Tendenza internazionalista rivoluzionaria e dal SI Cobas su quella in varia misura kampista, rinunciataria rispetto allo sciopero, e divisiva (le due manifestazioni, una a Milano, l’altra a Roma) sostenuta da Rete dei comunisti /Pap/ Usb.

Uno degli aspetti di maggior significato è che questa prevalenza è stata ottenuta anche attraverso la cooperazione con i Giovani palestinesi d’Italia, che hanno svolto un prezioso ruolo di raccordo con quelle componenti dell’associazionismo palestinese (l’Api in primo luogo) che, inutile nasconderlo, non sono ideologicamente vicine a noi. Si ha voglia, e molti comprensibilmente ce l’hanno, di presentare la manifestazione di sabato 24 come la semplice prosecuzione dei diciotto sabati precedenti. Non è stato così, né sul piano numerico, né tanto meno su quello politico. Sul primo aspetto è inutile sprecare parole. Sull’altro basta osservare che lo striscione di apertura della manifestazione e almeno un ampio settore del corteo con dentro i lavoratori del SI Cobas hanno legato, in modo non formale, la lotta contro la guerra coloniale sionista lunga un intero secolo in Palestina alla lotta contro la più generale tendenza ad una nuova apocalittica guerra inter-imperialista, che ha avuto il suo prologo in Ucraina. Questa caratterizzazione della manifestazione è stata anch’essa oggetto di contrasto perché la guerra in Ucraina ha visto una parte del sindacalismo di base simpatizzare per la falsa auto-determinazione dell’Ucraina, e un’altra sezione di esso schierarsi con l’altrettanto falsa missione anti-nazista della Russia, nel quadro del sostegno al multipolarismo, visto come un fattore oggettivamente progressista. Nel corteo, soprattutto nel settore SI Cobas / Tendenza internazionalista rivoluzionaria / Iskra, a cui si è unito il Fronte della gioventù comunista, tanti gli striscioni, le parole d’ordine gridate, i cartelli contro tutte le guerre di sfruttamento e di dominio, a cui appartiene di diritto la guerra tra NATO e Russia in Ucraina.

Lo sottolineiamo perché ci ritroveremo davanti questi stessi nodi politici come altrettanti ostacoli nei prossimi mesi, quando peserà senza dubbio in negativo l’ambizione delle forze semi-istituzionali presenti a Milano di trarre un lucro elettorale alle europee dalla loro sbandierata simpatia per il popolo palestinese (salvo poi avere solidi legami con quella Anp che la stessa massa del popolo palestinese della Palestina disconosce da tempo come sua rappresentante). Per loro, ogni occasione sarà buona per prospettare un “diverso” ruolo dell’Unione Europea o dell’Italia, fuori o dentro l’Unione europea, che sarebbe più favorevole per i palestinesi e i lavoratori – due prospettive, per noi, inesistenti e inesistibili, e certamente smobilitanti.

Ma non saranno soltanto le ambizioni elettorali della galassia Unione popolare / Potere al popolo / Rete dei comunisti a mettersi di traverso all’ulteriore prosecuzione e all’ampliamento della lotta contro il genocidio sionista a Gaza e contro la più generale tendenza alla guerra. C’è un’ombra assai più pesante e minacciosa che si profila all’orizzonte: è il tentativo degli stati falsi amici del popolo palestinese di avanzare una loro “soluzione” della questione palestinese “alternativa” alla continuazione del genocidio. Pare certo che il giorno 29 febbraio si riuniranno a Mosca tutte le fazioni dell’Anp e Hamas per una riconciliazione in vista del varo di un nuovo “governo” palestinese, definito “tecnocratico”, probabilmente presieduto dal capo del Palestinian Investment Fund, in sostituzione del dimissionario Shtayyeh – il termine “tecnocratico” fa venire i brividi nei paesi ricchi, figurarsi cosa può significare per la popolazione di Gaza decimata, martoriata, alla fame e dispersa, o per quella della Cisgiordania, già da tempo costretta a sopravvivere in un insieme di carceri a cielo aperto.

Il fatto è questo: dopo aver assistito impassibili alla mattanza sionista per cinque mesi, i paesi arabi del Golfo tentano una “mediazione” con lo stato di Israele e il suo soprastante di Washington proponendo una sorta di amministrazione collettiva araba sulla ricostruzione della striscia di Gaza, con il totale rientro di Hamas dentro una nuova “unità nazionale” vincolata ad obiettivi fissati esternamente ad essa, tra i quali la progressiva pacificazione con Israele. Una “unità nazionale” destinata, quindi, a produrre divisioni dentro la resistenza, e a forzarla comunque alla capitolazione con la falsa prospettiva, forse, di uno mini-“stato” palestinese accanto all’intatto stato sionista. La Mosca di Putin, tradizionalmente ottima amica delle destre israeliane (come di quelle europee e statunitensi), può essere il luogo adatto per dialogare a distanza, da vecchi amici per l’appunto, con il governo sempre più fascistizzato di Netanyahu, e liquidare così la resistenza palestinese in modo meno sanguinario che con il totale sterminio della popolazione di Gaza e/o la sua fuga in Egitto. Diversi sono i segnali di fitte manovre diplomatiche in questa direzione – anche se non è affatto scontato che questa “soluzione” appaghi le iene ultra-sioniste.

Invece è, per noi, fuori discussione che ove avanzasse questa ipotesi, ci sarebbe un pesante contraccolpo sul moto internazionale di solidarietà con la resistenza palestinese. E si creerebbero inesorabilmente delle linee di frattura sia all’interno della resistenza palestinese, sia all’interno del mondo della diaspora palestinese, anche qui in Italia. Dobbiamo prepararci a questa eventualità, per evitare di rifluire anche noi con il movimento di solidarietà al popolo palestinese e alla resistenza palestinese. E prepararci, invece, a rilanciare la nostra prospettiva nel momento della sua più clamorosa conferma: “nella sua eroica difesa dalla macchina dello sterminio sionista il popolo palestinese ha come suoi soli, autentici alleati le decine di milioni di dimostranti che in questi due mesi hanno riempito le piazze di tutto il mondo, a cominciare dal mondo arabo, per gridare la propria rabbia contro i macellai sionisti e i loro protettori e complici, e per testimoniare, in certi casi giurare, che ci sentiamo tutti palestinesi, e lo saremo fino alla fine di questa guerra di liberazione, insieme inseparabilmente nazionale e sociale”. [Anche l’attivissima solidarietà degli Ansar Allah (Houthi) e l’aiuto fornito da Hezbollah e da altri gruppi della resistenza armata in Iraq noi li inquadriamo in questo contesto, piuttosto che come il risultato di ordini alle proprie “marionette” provenienti da Teheran.]

L’operazione genocida di Netanyahu-Biden sostenuta incondizionatamente dall’Italia di Meloni-Mattarella non è un caso a sé: è parte integrante di un’offensiva bellica scatenata dall’Occidente per cercare di frenare il proprio inesorabile declino. Per questa ragione è al quadro generale dello sfaldamento del vecchio ordine mondiale che dobbiamo volgerci per comprendere entro quale contesto si collocherà nei prossimi mesi la nostra azione politica. E il quadro generale ci mostra un’evidente intensificazione della corsa alla guerra. Nelle ultime settimane l’Unione europea e i suoi singoli paesi hanno scelto di fare tutto il possibile per evitare il tracollo non lontano dell’Ucraina di Zelensky spedita a suicidarsi contro la Russia per conto terzi (NATO e UE): ingentissimi finanziamenti, non meno ingenti forniture di armi, rilancio frenetico della russofobia, accordi inter-statali per altri dieci anni di guerra, il miraggio di un 2024 di riscossa. All’altro capo del mondo i compagni giapponesi ci invitano ad aprire bene gli occhi sui preparativi di guerra contro la Cina che coinvolgono in pieno il Giappone, ormai determinato nella sua classe dirigente a modificare la vecchia costituzione “pacifista”. E se appena volgiamo lo sguardo ai Balcani, vediamo movimenti inquietanti in Kosovo e un attivismo anti-serbo dell’Unione europea e dello stato italiano che promettono altri eventi drammatici.

Questa evoluzione del quadro internazionale fa sì che la politica del governo Meloni e dello stato italiano – guai a vederli distinti, l’uno fascisteggiante, l’altro invece garante delle libertà democratiche – evolva in direzione di un maggior impegno bellico e della moltiplicazione delle bastonature ai dimostranti e agli oppositori (anche a quelli blandi). L’economia dell’intera Europa occidentale annaspa, colpita duramente dalle decisioni di Washington che l’hanno costretta a tagliare gran parte dei suoi fruttuosi legami economici con la Russia e ora minacciano di farlo anche per quelli con la Cina. In tali condizioni un maggior impegno bellico significa accentuare i tratti da economia di guerra, imporre sacrifici a catena ai lavoratori/lavoratrici e ai disoccupati – con il complesso militare industriale unico settore in forte espansione: nella sua ‘partita doppia’ ogni proletario ucciso sul fronte ucraino come a Gaza corrisponde ad un fatturato di centinaia di migliaia di euro in munizioni, missili, droni. Nei prossimi tempi è questo il filo da afferrare con forza e tirare: che cosa sta già comportando per la vita quotidiana dei milioni di persone che vivono del proprio lavoro, o costretti a cercare lavoro, la tendenza alla guerra che si incarna in una economia di guerra. E su tali basi rilanciare la lotta contro il governo Meloni, governo della guerra e dell’economia di guerra.

In questa direzione dobbiamo insistere con metodo per rompere il cordone sanitario con cui i sindacati di stato e i mass media sono comunque riusciti a isolare lo sciopero del 23 febbraio e la manifestazione del 24. Qualche fessura si è aperta sia il 23 che il 24. Non a caso le iniziative di maggior impatto sociale e politico sono stati, oltre gli scioperi delle imprese della logistica, che fanno certamente male, il blocco del porto di Genova, il presidio contro Leonardo a Napoli, l’azione collettiva contro Carrefour a Torino (qualcosa di un po’ più pregnante del semplice sasso contro una vetrina), l’occupazione della facoltà di ingegneria a Modena – tutte iniziative di carattere cittadino, esterne ai singoli luoghi di lavoro, frutto della stretta collaborazione tra i compagni della TIR e il SI Cobas. Ma è tanto il lavoro che resta da fare per quanti, come noi, non si accontentano di essere un’opposizione di classe minoritaria.

L’altro tema su cui insistere senza tregua è il contrasto alla militarizzazione della vita nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro. Non illudiamoci che le manganellate sotto le sedi della Rai a Napoli, Torino, Bologna, o quelle contro gli studenti a Pisa e Firenze, siano casuali. Può ben essere che qualche agente o qualche graduato particolarmente zelanti siano andati avanti per proprio conto, senza un preciso ordine centrale: ma questa è la linea di marcia del potere borghese per i prossimi anni. E aspettiamoci, prepariamoci a “salti di qualità”, magari con l’ingresso in campo di mazzieri privati. Né illudiamoci che possano avere un qualche effetto reale i periodici lamenti delle istituzioni statali e dei vertici confederali sulle “troppe” morti sul lavoro, perché l’intensificazione dello sfruttamento e della precarietà, con crescenti danni alla salute e alla vita stessa dei lavoratori, è scritta nelle cose.

Queste linee di evoluzione della politica borghese e dell’organizzazione del lavoro non sono solo italiane o europee, sono internazionali. E si presentano con modalità più estreme man mano che dal centro del processo dell’accumulazione si va verso le “periferie” o le “semi-periferie”. Basta pensare all’assalto selvaggio che il governo Milei sta cercando di scatenare contro il proletariato di quel paese, cominciando con i piqueteros del Polo Obrero. O – ed è un salto di qualità drammatico – alle mattanze in corso in Congo o in Sudan per conto terzi. Non esistono questioni nazionali isolate – dovrebbero rendersene conto, prima o poi, i compagni che incentrano tutta la loro azione su obiettivi nazionali, su un’Italia “diversa” che “esce” da qui ed “esce” da lì, restando comunque e sempre dentro il capitalismo globale e il suo crescente caos. Tutto si tiene con tutto. E l’internazionalismo, lungi dall’essere un mera insegna ideologica, è invece l’asse politico fondamentale a cui deve necessariamente rapportarsi la stessa dinamica dei movimenti.

Le giornate di lotta del 23 e del 24 febbraio, che hanno visto la partecipazione di migliaia di lavoratori e di giovani, molti dei quali alla loro prima esperienza politica, hanno suscitato entusiasmo. Se non vogliamo sprecare questo entusiasmo in fuochi fatui, in un movimentismo/unitarismo retorico e inconcludente, è di questi elementi che bisogna discutere a fondo per fissare e affinare la nostra attività. L’obiettivo è quello di accompagnare nella loro esperienza ulteriore queste migliaia di giovani per far loro superare lo stadio della sacrosanta e umana indignazione di fronte a tanti massacri e sofferenze, e contribuire a che raggiungano una consapevolezza anticapitalista e internazionalista. Come ci suggeriva a Milano un compagno argentino, essenziale per svolgere al meglio questo lavoro è l’organizzazione politica rivoluzionaria, non sostituibile da alcun escamotage. Dobbiamo rendere manifesto che è necessario organizzare le forze più avanzate, le più coscienti dei tempi che ci aspettano, pena la dispersione del potenziale che si è espresso, o – peggio ancora – il rafforzamento della convinzione che tutto ciò si sia creato spontaneamente, e che non sia necessario fare altro. Dopo decenni di spontaneismo deteriore, con un quadro internazionale e nazionale che annuncia tempeste di ogni tipo, non capire l’urgenza di questo compito sarebbe imperdonabile.

Ciò è tanto più evidente se si considera che sabato 24 febbraio è stato possibile tenere molte iniziative coordinate a livello internazionale contro tutte le guerre “coloniali e imperialiste” in corso e contro la tendenza ad una nuova guerra mondiale, solo sulla base di un lavoro di ricucitura delle fila dei rivoluzionari condotto alla stessa scala. La spontaneità del movimento è essenziale; ma più forte è (tale è stata la solidarietà con la causa palestinese), più richiede organizzazione, strategia e indirizzi di azione non occasionali.

27 febbraio – Tendenza internazionalista rivoluzionaria

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On the great demonstration of February 24 in Milan, and what is left to be done


The demonstration in Milan on February 24 “with the Palestinian resistance, let’s stop the colonial and imperialist wars” was well attended beyond all expectations. Even ours, of us who have worked like beasts of burden (with a little salt in the pumpkin) to make it successful. As usual, we are not going to question the numbers, which however do have their weight. Moreover, the police officers themselves self-corrected in sequence, arriving to say, officially: there were more than 20,000. And that’s enough. We were in fact tens of thousands.

In any case, it was the most participatory and strongest political demonstration that has taken place in Italy in recent times against the wars of capital and in support of the Palestinian cause. We have heard Palestinian comrades whom we highly respect also for their measure, even define it as historic. What matters most to us, in terms of numbers, is that the procession continually swelled along the way, despite the fact that the police had forced us to pass through areas (except for the central station) that were not very busy. And that Piazza Cairoli, the final location of the demonstration, continued to remain full even after the procession was over.

The demonstration saw a strong, lively presence of young Palestinians and second generation Arabs, and also of young Italians by birth, with a very large and lively participation of immigrant proletarians, mostly organized with SI Cobas. The presence of groups of Italian factory workers was unfortunately very, very limited. Although with modest numbers compared to the mass of the demonstration, almost all the components of the grassroot trade unionism were present, including those who had decided to desert the strike of 23 February. Also present were groups of more consistently militant pacifists, young ecologists, women belonging to the mainstream feminist movement – rightly criticized for its pro-colonialist sentiment.

We – as comrades of the Revolutionary Internationalist Tendency and SI Cobas – are deeply satisfied for having contributed with all our strength to prepare this demonstration. As far as we are concerned, we consider it the arrival point of a journey that started from the assembly of 11 June last year in Milan (which was the sequel, in turn, to the conference of 16 October 2022 in Rome), continued with the demonstration in Ghedi on 21 October, with the logistics strike on 17 November in support of the Palestinian people and the Palestinian resistance and the subsequent demonstration in Bologna, and then again with the new strike on 23 February against the zionist genocide in Gaza and against war, war economy, the Meloni government, which finally managed to open up some gleams even outside of logistics. A fundamental piece of this path was the calling of February 24th as the first international and internationalist day of struggle against all the ongoing wars of capital, starting with the massacre in Ukraine, and in accelerated preparation, which saw in dozens of cities around the world, from Buenos Aires to Tokyo passing through the main cities of Germany and India, political, inititives organized by trade union and social organizations united by a common call to fight proposed by our organization.

It is now a question of not being satisfied with the result achieved, planning the further steps of struggle. Precisely for this reason it seems useful to us to reason about the path that the Milan demonstration prepared, the difficulties and obstacles that we had to overcome, since nothing could be further from the truth than the idea of a spontaneous eruption of this demonstration, and of the supposition of its easy, linear re-edition.

The opposite is true.

In the phase that preceded Saturday’s march in Milan there was an intense political discussion-clash around three alternatives: 1) holding a demonstration only against the genocide in Gaza, or a demonstration against all the wars of capital (“colonialist and imperialist”)?; ? 2) organize a simple street demonstration, or a mobilization based on a strike and collective actions to denounce specific economic and institutional ties between Israel and Italian companies and cultural institutions, or those present in Italy? 3) hold a single national demonstration or two demonstrations on the same day, in Milan and Rome (as proposed at the meeting of 28 October in Rome at the second National Assembly on the boycott of the state of Israel)? In all three cases the issues were resolved with the clear prevalence of the internationalist, combative and unitary political line supported by the Revolutionary Internationalist Tendency and by SI Cobas over the variously kampist, renouncement of the strike, and divisive one (the two demonstrations, one in Milan, the other in Rome) supported by Rete dei Comunisti /Potere al popolo/ Usb.

One of the most significant aspects is that this prevalence was also obtained through cooperation with the Young Palestinians of Italy, who played a valuable role in connecting with those components of Palestinian associations (primarily the API) which are not ideologically close to us. There is a desire to present the event on Saturday 24th as the simple continuation of the eighteen previous Saturdays in Milan. This was not the case, neither on a numerical level nor on a political level. On the first aspect it is useless to waste words. On the other hand, it is sufficient to observe that the opening banner of the event linked, in a non-formal way, the fight against the century-long Zionist colonial war in Palestine to the fight against the more general tendency towards a new apocalyptic inter-imperialist war, which had its prologue in Ukraine. And it too has been the subject of controversy because the war in Ukraine has seen a section of grassroot trade unionism sympathize with Ukraine’s false self-determination, and another section of it side with the equally false anti-Nazi mission of Russia, in the framework of support for multipolarism, seen as an objectively progressive factor. In the procession, especially in the SI Cobas / Revolutionary Internationalist Tendency / Iskra sector, which was joined by the Youth Communist Front, there were many banners, slogans shouted, placards against all wars of exploitation and domination, to which the war between NATO and Russia in Ukraine rightfully belongs.

We underline this because we will find ourselves faced with these same political issues as obstacles in the coming months, when the ambition of the semi-institutional forces present in Milan to make electoral profit in the European elections from their vaunted sympathy for the Palestinian people will undoubtedly have a negative impact ( only to then have solid ties with that PNA which the mass of the Palestinian people of Palestine have long denied as its representative). For them, every opportunity will be a good one to propose a “different” role for the European Union or Italy, outside or inside the European Union, which would be more favorable for the Palestinians and the workers – two perspectives, for us, non-existent and inexistent, and certainly demobilizing.

But it will not only be the electoral ambitions of the Unione popolare / Potere al popolo / Rete dei comunisti galaxy that will stand in the way of the further continuation and expansion of the fight against the Zionist genocide in Gaza and against the more general tendency towards war. There is a much heavier and more menacing shadow looming on the horizon: it is the attempt by states that are false friends of the Palestinian people to advance their own “solution” to the Palestinian question as an “alternative” to the continuation of the genocide. It seems certain that on February 29th all the factions of the PNA and Hamas will meet in Moscow for reconciliation in view of the launch of a new Palestinian “government”, defined as “technocratic”, probably presided over by the head of the Palestinian Investment Fund, replacing that of the resigning Shtayyeh – the term “technocratic” sends shudders through the backs in rich countries, imagine what it can mean for the decimated, tortured, starving and dispersed population of Gaza, or for that of the West Bank, already forced for decades to survive in a lot of small open-air prisons.

The fact is this: after having watched the Zionist massacre impassively for five months, the Arab countries of the Gulf are attempting a “mediation” with the state of Israel and its masters in Washington by proposing a sort of collective Arab administration on the reconstruction of the Gaza strip, with the total return of Hamas within a new “national unity” bound to objectives set externally to it, including progressive pacification with Israel. A “national unity” destined, therefore, to produce divisions within the resistance, and to force it to capitulate with the false prospect, perhaps, of a Palestinian mini-“state” alongside the intact Zionist state. Putin’s Moscow, traditionally an excellent friend of the Israeli right (as well as the European and American ones), may be the right place to dialogue remotely, as old friends precisely, with Netanyahu’s increasingly fascist government, and thus liquidate the Palestinian resistance in a less bloody way than with the total extermination of the population of Gaza and/or their flight to Egypt. There are several signs that there are intense diplomatic maneuvers in this direction – even if it is not at all obvious that this “solution” will satisfy the ultra-Zionist hyenas.

Instead, for us, there is no question that if this hypothesis were put forward, there would be a heavy backlash on the international movement of solidarity with the Palestinian resistance. And fault lines would inexorably be created both within the Palestinian resistance and within the world of the Palestinian diaspora, even here in Italy. We must prepare for this eventuality, to avoid passively suffering the ebb of solidarity with the Palestinian people and the Palestinian resistance. And prepare ourselves, instead, to relaunch our perspective at the moment of its most clear confirmation: “in its heroic defense from the Zionist extermination machine, the Palestinian people have as their only, authentic allies the tens of millions of demonstrators who in these two months have filled the squares all over the world, starting with the Arab world, to shout their anger against the Zionist butchers and their protectors and accomplices, and to testify, in some cases swear, that we all feel like Palestinians, and we will be so until the end of this war of liberation, both inseparably national and social”. [We also frame the very active solidarity of the Ansar Allah (Houthis) and the help provided by Hezbollah and other armed resistance groups in Iraq in this context, rather than as the result of orders to their “puppets” coming from Tehran].

The Netanyahu-Biden genocidal operation supported unconditionally by Meloni-Mattarella’s Italy is not a case in itself: it is an integral part of an unleashed war offensive by the West to try to slow down its own inexorable decline. For this reason, we must turn to the general picture of the disintegration of the old world order to understand the context within which our political action will be placed in the coming months. And the general picture shows us a clear intensification of the rush to war. In recent weeks the European Union and its individual countries have chosen to do everything possible to avoid the immediate collapse of Zelensky’s Ukraine, which was sent to commit suicide against Russia on behalf of third parties (NATO and EU): huge amounts of funding, no less huge supplies of weapons, inter-state agreements for another ten years of war, the mirage of a 2024 recovery, unleashed revival of Russophobia. On the other side of the world, the Japanese comrades invite us to open our eyes wide to the war preparations against China which fully involve Japan, now determined in its ruling class to modify the old “pacifist” constitution. And if we just turn our gaze to the Balkans, we see disturbing movements in Kosovo and anti-Serbian activism from the European Union and the Italian state that promise other dramatic events.

This evolution of the international situation means that the policy of the Meloni government and the Italian state – woe betide them if they are distinct, one a fascist supporter, the other instead a guarantor of democratic freedoms – evolves in the direction of a greater war commitment and the multiplication of beatings to demonstrators and opponents (even the mild ones). The economy of the entire Western Europe is reeling, hit hard by Washington’s decisions that have forced it to cut much of its fruitful economic ties with Russia and now threaten to do so for those with China too. In such conditions, a greater war commitment means accentuating the features of a war economy, imposing chain sacrifices on workers and the unemployed – with the military industrial complex being the only rapidly expanding sector: in its ‘double entry’ every proletarian killed on the front Ukrainian as in Gaza corresponds to a turnover of hundreds of thousands of euros in ammunition, missiles, drones. In the coming times this is the thread that must be grasped forcefully and pulled: what are the effects of the tendency towards war that is increasingly embodied in a war economy. And on this basis, relaunch the fight against the Meloni government, the government of war and the war economy.

In this direction we must insist methodically to break the cordon sanitaire with which the state unions and the mass media managed to isolate the strike of February 23rd and the demonstration of the 24th. Some small cracks opened on both the 23rd and 24th. Coincidentally, the initiatives with the greatest social and political impact were, in addition to the strikes by logistics companies, which certainly hurt, the blockade of the port of Genoa, the protest against Leonardo in Naples, the collective action against Carrefour in Turin (something a little more significant than the simple stone against a shop window), the occupation of the engineering faculty in Modena – all initiatives external to the individual workplaces, the result of the close collaboration between the TIR comrades and the SI Cobas. But there is a lot of work that remains to be done for those, like us, who are not satisfied with being a minority class opposition.

The other theme on which to insist relentlessly is the fight against the militarization of life in schools, universities and workplaces. Let us not delude ourselves that the beatings under the RAI offices in Naples, Turin, Bologna, or those against students in Pisa and Florence, are random. It may well be that some particularly zealous agents or graduates have moved forward on their own, without a precise central order: but this is the line of march of bourgeois power for the next few years. And let’s expect, let’s prepare for “leaps in quality”, perhaps with the entry into the field of private dealers. Nor should we delude ourselves that the periodic complaints of state institutions and confederal leaders about the “too many” deaths at work can have any real effect, because the intensification of exploitation and precariousness with growing damage to the health and life itself of workers, is written in things.

These lines of evolution of bourgeois politics and work organization are not just Italian or European, they are international. And they present themselves in more extreme ways as we move from the center of the accumulation process towards the “peripheries” or “semi-peripheries”. Just think of the savage assault that the Milei government is trying to unleash against the proletariat of that country, starting with the piqueteros of the Polo Obrero. Or – and it is a dramatic leap in quality – to the slaughters underway in Congo or Sudan on behalf of third parties. There are no isolated national issues – the comrades who focus all their action on national objectives, on a “different” Italy that “leaves” from here and goes out from there in any case remaining within global capitalism and its growing chaos, should realize this, sooner or later. Everything is held with everything. And internationalism, far from being a mere ideological sign, is instead the fundamental political axis to which the very dynamics of the movements must necessarily relate.

The days of struggle on 23 and 24 February, which saw the participation of thousands of workers and young people, many of whom were in their first political experience, aroused enthusiasm. If we do not want to waste this enthusiasm on will-o’-the-wisps, on rhetorical and inconclusive movement/unitarism, it is these elements that need to be discussed in depth to establish and refine our activity. The objective is to accompany these thousands of young people in their further experience to help them overcome the stage of sacrosanct and human indignation in the face of so many massacres and suffering, and to help them reach an anti-capitalist and internationalist awareness. As an Argentine comrade suggested to us in Milan, revolutionary political organization is essential to carrying out this work as best as possible, and it cannot be replaced by any trick.

We must make it clear that it is necessary to organize the most advanced and most conscious forces of the times that await us, under penalty of dispersing the potential that has been expressed, or – even worse – strengthening the belief that all this was created spontaneously, and that it was not something else needs to be done. After decades of deteriorated spontaneism, with an international and national framework announcing storms of all kinds, not understanding the urgency of this task would be unforgivable.

This is all the more evident if we consider that on Saturday 24 February it was possible to hold many coordinated initiatives at an international level against all the ongoing “colonial and imperialist” wars and against the tendency towards a new world war, only on the basis of a work of mending of the ranks of the revolutionaries conducted on the same scale. Spontaneity of movement is essential; but the stronger it is (such has been the solidarity with the Palestinian cause), the more it requires organization, strategy and non-occasional directions of action.

February 27 – Revolutionary Internationalist Tendency

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