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Salvate la Sanità

Salvate la Sanità

(28 Novembre 2012) Enzo Apicella
Secondo Monti il sistema sanitario nazionale è a rischio se non si trovano nuove risorse

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Dossier Sanità: la verità sul deficit

(7 Giugno 2006)

In questi giorni i giornali hanno scatenato una vera e propria campagna stampa sulla cosiddetta emergenza sanità. 4,4 mld di euro che ci sarebbero stati lasciati interamente in eredità dal centrodestra e che oggi imporrebbero misure draconiane a base di tagli ai posti letto e all’occupazione in nome del “rigore” e di Maastricht. Il Lavoro-Repubblica è arrivato a pubblicare una tabella dal titolo “così nasce il crac” in cui si evidenziano per ciascun ospedale e Asl della Liguria i punti di eccellenza e di criticità nel rapporto “costi/produzione” della sanità ligure. Il titolo dell’articolo esprime la logica conseguenza: “Il duro verdetto dei conti. Troppi ospedali, troppi reparti”. Ma se scaviamo sotto la propaganda troviamo una realtà ben diversa da quella che ci viene suggerita. Innanzitutto è falso che il deficit sanitario sia ascrivibile esclusivamente alle politiche del centrodestra. La regione che ha in assoluto il disavanzo più alto - più di un miliardo di euro - è infatti la Campania, che è governata da anni da una giunta targata Bassolino. E’ vero poi che il governo Berlusconi ha contribuito a tagliare i finanziamenti statali alla Sanità, ma è altrettanto vero che ciò si inscrive in una strategia, ormai di lunga data, di riduzione dei trasferimenti dello Stato alle Regioni e agli Enti Locali, a cui il centrosinistra ha dato un forte contributo nelle passate legislature (si pensi alla modifica del titolo V della Costituzione, che di fatto introduce il principio del federalismo fiscale e della sussidiarietà). La riduzione del finanziamento alla Sanità pubblica è una tendenza che caratterizza la politica economica dei principali paesi europei, perseguita con continuità da entrambe gli schieramenti dell’alternanza bipolare. I fatti di oggi ne sono la migliore conferma. Nelle sei regioni “spendaccione” l’alternativa che si presenta è tra una politica concertata di ulteriori tagli ai posti letto e all’occupazione e l’applicazione da parte del governo in carica di un articolo della Finanziaria di Tremonti che prevede che le aliquote regionali Ire (ex Irpef) e Irap scattino al massimo livello (rispettivamente 1,4% e 1%). Col risultato che in Liguria - dove l’ultima finanziaria aveva assunto una fisionomia molto blandamente progressiva attraverso la distribuzione degli aumenti su classi di reddito - anche tale blanda progressività verrebbe annullata. Infatti chi ha redditi più alti si vede già applicata l’aliquota dell’1,4% e non avrà ulteriore aggravio. Chi invece è stato graziato totalmente (coloro che hanno un imponibile al di sotto dei 13000 euro) o parzialmente dall’aumento dello 0,5% di competenza della Regione (lo 0,9% era già stabilito dal Governo) pagherà il fio. Insomma abbiamo votato Unione per vedere il governo intervenire cancellando le finanziarie “troppo di sinistra” delle giunte regionali!

La spesa sanitaria è fuori controllo?

Innanzitutto diciamo che è assolutamente fisiologico che la spesa sanitaria di un paese come il nostro cresca. A tale crescita contribuisce non solo la rivalutazione dei contratti di lavoro del personale ma anche l’evoluzione del quadro sanitario ed epidemiologico. Il fatto che oggi siano state scoperte terapie per malattie che fino a qualche anno fa erano considerate incurabili e che da malattie mortali si sono trasformate in croniche - per fare solo un esempio - determina automaticamente una lievitazione della spesa. Un effetto analogo ha l’allungamento della vita, che peraltro incide meno di quanto non si dia a intendere (perché è vero che gli anziani hanno bisogno di cure maggiori ma è anche vero che, all’aumentare dell’età, la soglia oltre la quale è richiesto un intervento sanitario legato alla vecchiaia si sposta costantemente in là negli anni). E’ forse un male?

Detto questo e visto che la politica dei tagli è giustificata prevalentemente in nome di Maastricht vale la pena di vedere quale sia il rapporto tra la spesa sanitaria italiana e quella degli altri paesi, in particolare nell'Ue. I dati dell’Oecd (Organizzazione per lo Sviluppo Economico e la Cooperazione) sull’andamento della spesa sanitaria nel mondo nel decennio 1993/2003 (http://dx.doi.org/10.1787/530538806724) ci danno un quadro assolutamente diverso da quello della vulgata politico-giornalistica.

La quota di Pil assorbita dalla spesa sanitaria nel nostro paese dal ’93 al 2003 è passata dall’8% all’8,4% (a fronte di un aumento del Pil dell’1,6% dal ’94 al 2004). Nello stesso periodo in Francia si passa dal 9,4% al 10,1% (Pil +2,3%), in Germania dal 9,9% all’11,1% (Pil +1,5%). Quindi non solo in Italia la spesa sanitaria è più bassa ma aumenta in misura minore agli altri paesi a parità di variazione del Pil. In Europa, oltre ai tre paesi citati, Belgio (9,6%), Danimarca (9%), Grecia (9,9%), Islanda (10,5%), Olanda (9,8%), Norvegia (10,3%), Portogallo (9,6%), Svezia (9,2%9) e Svizzera (11,5%) impegnano nella sanità una quota maggiore del Pil. Anche confrontando la sola quota pubblica della spesa sanitaria (6,33%) risultiamo essere dietro a Germania (8,65), Francia (7,73), Danimarca (7,46), Portogallo (6,69) e Regno Unito (6,44).

Il tasso di crescita della spesa sanitaria nel quinquennio 1998-2003 in Italia è del 3,1% a fronte del 3,5% della Francia e del 5,7% della Gran Bretagna (solo l’1,8% invece in Germania).

Il numero dei posti letto per acuti (per 1000 abitanti) in Italia scende in 10 anni da 5,8 a 3,9 (-1,9). In Francia da 4,9 a 3,8 (-1,1); in Germania da 7,7% a 6,6% (-1,1); in Gran Bretagna da 3,9 a 3,7 (-0,2). Una diminuzione inferiore sia in termini assoluti che percentuali e che ci colloca in posizione intermedia nella graduatoria europea del numero di posti letto per abitante.

Ben diversa è la situazione per quanto riguarda la spesa farmaceutica e la dotazione di scanner per risonanza magnetica. Il nostro paese è ai vertici della classifica mondiale per quanto riguarda la quota della spesa sanitaria assorbita dai farmaci (il 22,1%). Soltanto Ungheria, Corea, Portogallo, Slovacchia e Turchia ci superano. Il dato assoluto è ancora più significativo. La Turchia ad esempio destina il 24,8% della sua spesa sanitaria ai farmaci. Poiché la sua spesa pro capite è di 452 dollari all’anno si tratta di circa 112 dollari. L’Italia ha una spesa pro capite di 2258 dollari all’anno. Il 22,1% di tale cifra equivale a 499 dollari, quindi quasi 5 volte tanto. Analogamente siamo tra i primi paesi al mondo per quanto riguarda la dotazione di scanner RMI. Preceduti in Europa soltanto da paesi come Austria, Finlandia, Islanda e Svizzera. Dal ’93 al 2003 il numero di macchine si è quasi quintuplicato passando da 2,5 a 11,6 (per milione di abitanti). Di per sé questo potrebbe anche non essere un male. Tuttavia due dati saltano all’occhio. Innanzitutto ci si chiede come sia possibile che paesi non certamente sottosviluppati come Germania, Francia e Gran Bretagna possano andare avanti con dotazioni significativamente inferiori (rispettivamente 6; 2,8 e 5,2). In secondo luogo ci si chiede come si concili questa situazione col fatto che i tempi d’attesa per una risonanza magnetica da noi siano significativamente più lunghi che negli altri paesi (in Francia ad esempio non esistono praticamente liste d'attesa). Il sospetto è che così come per quanto riguarda la spesa farmaceutica ci si scordi anche in questo caso della parsimonia.

Gli effetti dell'aziendalizzazione

Ciò che emerge da questi dati è che l’Italia ha dei dati di spesa assolutamente nella norma per quanto riguarda le voci fondamentali (personale, posti letto e prestazioni sanitarie) e dati invece “fuori controllo” per quanto invece concerne la spesa in farmaci e macchinari, cioè le due voci di entrata principali dell’industria legata alla sanità. E tuttavia ci si propone di colpire non queste ultime ma le prime ovvero i pilastri del servizio sanitario pubblico. Il che fa pensare che abbia ragione Nerina Dirindin, docente di economia sanitaria ex Direttore generale del Dipartimento della Programmazione del Ministero della Sanità, quando dice che “il grido di allarme sulla spesa sanitaria risponde quindi a esigenze perlopiù estranee alle dinamiche della sanità, funzionali più a favorire un progressivo ridimensionamento dell’intervento pubblico nel settore sanitario che a contenerne i costi e a migliorarne l’efficacia” (La spesa sanitaria in Italia (e all’estero), http://www.lavoce.info/news/view.php?id=22&cms_pk=143&from=index) ovvero - considerata la cosa da un altro versante - che “i motivi che inducono molti osservatori ad affermare che la spesa sanitaria tende inesorabilmente a essere sempre meno sostenibile hanno a che vedere non tanto con le difficoltà della finanza pubblica (peraltro reali), ma piuttosto con i rischi di un rallentamento dello sviluppo dell’industria della salute” (Paolo Vineis-Nerina Dirindin, In buona salute. Dieci argomenti per difendere la sanità pubblica, Einaudi, 2004). Il che significa che se si vogliono risolvere i problemi della sanità bisogna mettere mano ai rapporti tra questa e l’industria. Tanto più se - come cercherò di dimostrare - gran parte delle diseconomie derivano esattamente dai processi di aziendalizzazione e di privatizzazione del settore che portano al pieno dispiegarsi dei meccanismi di mercato al suo interno travolgendo uno dei più elementari diritti formalmente garantiti a tutti dalla nostra Costituzione, quello alla salute. Ma è un tabù che nessuno ha il coraggio di infrangere.

Prima questione. Quanto i farmaci contribuiscono al miglioramento delle condizioni di salute e di benessere nella nostra società? Numerosi studi dimostrano che in realtà tale miglioramento è legato più ad un innalzamento del livello qualitativo della condizione sociale che non all’introduzione e alla diffusione di nuovi farmaci. In particolare un demografo inglese, Thomas Mc Keown, ha dimostrato che la mortalità dovuta a malattie infettive come tubercolosi e morbillo, al momento dell’introduzione di farmaci specifici come vaccini e antibiotici, si era già ridotta dell’80-90%. E questo perché nel frattempo si erano diffusi alimenti più sani, si costruivano abitazioni più igieniche, era aumentato il tasso di scolarità e soprattutto, grazie alla costruzione di acquedotti e fogne pubbliche, vi era la disponibilità di acqua pulita per gli usi domestici. Quindi un miglioramento complessivo delle condizioni di vita è molto più decisivo di quanto non sia l’intervento farmaceutico. Pure su questo si decuplicano gli investimenti (dal ’95 al 2002 la spesa in farmaci a carico del servizio sanitario nazionale è passata da 5 a 11,7 mld di euro), mentre si tagliano risorse alle politiche sociali. Si pensi soltanto a quanto si risparmierebbe attraverso la prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni di lavoro (causati spesso dalla violazione delle norme di sicurezza da parte delle aziende private ma a carico delle finanze pubbliche).

Anzi si assiste a un processo di medicalizzazione forzata della nostra esistenza. Si pensi alla tendenza ad affrontare gli aspetti legati al disagio attraverso un’intensificazione della somministrazione di psicofarmaci, peraltro in un’ottica di semplice riduzione dei sintomi (dal 2000 al 2001 la spesa in ansiolitici è aumentata del 49%). In alcuni casi poi - ad esempio negli Stati Uniti - prescrivendoli in età sempre più precoce. Oppure a come la maternità stia diventando sempre più un vero e proprio percorso a ostacoli fatto di esami, test, somministrazione di farmaci e interventi fino a pochi anni fa inusitati, in una vera e propria ondata di terrorismo psicologico funzionale alla realizzazione di tutta una serie di prescrizioni che partono dalla diagnostica e si concludono coi pigiamini firmati, con la spada di Damocle che sennò il pupo viene su male.

La conclusione che se ne trae è che non soltanto questo fenomeno porta a dilapidare risorse ma anche a prescrivere cure inefficaci o inappropriate che incidono (queste sì) in modo negativo sia sulla salute dei cittadini (negli Usa vi sono circa 100000 decessi l’anno a seguito della somministrazione di farmaci, una parte dei quali certamente evitabili) sia sulla spesa sanitaria. Cito un esempio - ancora dal volume In buona salute - abbastanza significativo. Una ricerca condotta presso il San Giovanni Battista di Torino ha dimostrato che nel 1999 sono stati prescritti 29082 marker tumorali per un costo di circa 400mila euro a pazienti di cui soltanto il 30% denunciava una patologia oncologica pregressa, attuale o sospetta. Cioè senza neppure un generico sintomo di una patologia che avrebbe consigliato quel genere di esami. C’è di più. Un’analisi delle prescrizioni degli interventi e dei ricoveri scorporati per regione porta a evidenziare tali livelli di scostamento, non imputabili a patologie legate ai diversi territori (per fare un esempio a Bolzano 19% di parti cesarei contro il 53% del Campania), da ipotizzare che vi siano ogni anno una grande quantità di interventi/ricoveri inappropriati. Il dato si fa ancora più significativo se si considera che la quantità di tali inappropriatezze aumenta nelle regioni in cui la presenza di strutture sanitarie private è più alta.

In altre parole l’aziendalizzazione e la privatizzazione trasformano la sanità in terreno di caccia delle imprese e in particolare delle grandi case farmaceutiche e ciò determina un aumento dell’inappropriatezza delle cure che va a detrimento della salute dei cittadini e del bilancio dello Stato. L’introduzione dei Drg (raggruppamenti omogenei di diagnosi) come forma di forfettizzazione del rimborso da parte delle regioni all’azienda sanitaria di una tipologia d’intervento sulla base del suo costo medio è all’origine di una serie di evidenti storture. Perché in questo modo ciò che viene rimborsato non corrisponde mai alla spesa effettiva (e quindi le tabelle costi/produzione come quella pubblicata da Repubblica hanno un valore puramente teorico). Con tutte le conseguenze del caso. E cioè che da una parte si tenderà a far rientrare gli interventi in Drg con rimborsi più alti (e se negli ospedali pubblici ciò può determinare una iniqua distribuzione interna di risorse, nelle cliniche private - dove per di più è difficile controllare - ciò comporta un travaso di denaro dal pubblico al privato). E d'altra parte, per risparmiare (dato che il rimborso è legato alla tipologia e non alla quantità della prestazione), si tenderà a dare meno servizio al paziente.

Case farmaceutiche all’assalto della sanità

Tutto ciò rende necessario analizzare la posizione di potere che alcuni soggetti economici assumono in questo contesto e in particolare il conflitto di interesse di cui sono l’espressione materiale. Che è poi il conflitto d’interesse tra profitto e diritto alla salute per tutti (e in particolare per i ceti che si vedono quel diritto garantito precipuamente dalle strutture pubbliche). Le forme in cui tale conflitto si estrinseca sono numerose e non tutte conosciute. Ne fa un elenco interessante Marco Bobbio (Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza. Medici e industria, Einaudi, 2004).

1) Un medico che prescrive un farmaco, compila una relazione affinché un medicinale venga inserito nel prontuario farmaceutico di un ospedale, delinea le caratteristiche del materiale che deve essere acquistato da un ospedale mediante gara d’appalto oppure tiene una relazione a un convegno medico in merito a un determinato farmaco, espleta queste attività dopo che ogni giorno viene bombardato da emissari di aziende farmaceutiche che gli illustrano in modo assolutamente parziale (vi sono studi in proposito) le caratteristiche dei medicinali di propria produzione e lo circuiscono attraverso una serie di attenzioni che vanno dal comune gadget fino al pagamento delle spese di partecipazione a convegni alle Bahamas con soggiorno in alberghi lusso estesi alla famiglia. Si calcola che le multinazionale del settore investano ogni anno cifre astronomiche in marketing e - cosa che dà un’idea di come funzioni il settore - ben più di ciò che spendono in ricerca e sperimentazione. Se ne deduce che quell’investimento dà un buon rendimento (nei primi 300 posti della classifica Global 500 di Fortune si trovano ben 9 case farmaceutiche guidate dalla Pfizer con un fatturato di 53 mld di dollari). E dunque che i farmaci vengono prescritti sulla base di motivazioni di mercato piuttosto che sulla base della loro reale efficacia e utilità.

2) Uno studioso che effettui una ricerca sull’efficacia di un farmaco è quasi sempre sovvenzionato da aziende farmaceutiche e sottoposto a contratti per cui il committente è proprietario dei dati ricavati dalla ricerca. Di conseguenza se essa non depone a favore dell’efficacia del farmaco o della terapia che ha ad oggetto, la casa farmaceutica ha il diritto di impedire la divulgazione dei risultati della ricerca.

3) Una rivista di medicina in particolare ma anche un qualsiasi rotocalco che contenga al suo interno una rubrica medica devono una parte più o meno cospicua delle proprie entrate alla sponsorizzazione e alle pagine pubblicitarie dedicate a prodotti farmaceutici. Un questionario inviato qualche anno fa a 121 giornalisti medico-scientifici italiani ha evidenziato che circa la metà di loro ha riconosciuto di avere partecipato, nei 5 anni precedenti, a convegni completamente spesati da aziende del settore. Il 38% ammette che questa circostanza ha influito sulla stesura dell’articolo scritto in merito. Il 13% dichiara che c’è una relazione tra la qualità dell’ospitalità ricevuta e il contenuto dell’articolo. Infine il 30% ammette di essere stato sottoposto a pressioni per divulgare questa o quella notizia una volta ritornato dal convegno.

Questa situazione di conflitto di interesse a volte si trascina sul filo del rasoio tra legalità e illegalità. A volte sconfina pesantemente nel crimine. Il 4 novembre de 2002 a Torino vengono arrestati due primari della cardiochirurgia universitaria, accusati di avere chiesto tangenti per un miliardo di lire in cambio del sostegno all’acquisto di circa 700 protesi valvolari prodotte da un’azienda brasiliana, che in alcuni casi dovettero essere sostituite dopo l’impianto, in altri provocarono la morte dei pazienti. Il 15 febbraio del 2003 la Guardia di Finanza denuncia decine di dirigenti della GlaxoSmithKline, 32 primari e migliaia di medici. L’accusa è comparaggio: denaro o regali in cambio di prescrizioni di farmaci prodotti dalla stessa Glaxo.

Si potrebbe pensare che tali problemi, così drammaticamente presenti nel nostro paese, siano invece assenti nella nostra regione. Purtroppo non è così.

Nell'ambito di uno dei processi per lo scandalo Glaxo il Pm genovese Di Gennari chiede la condanna per 61 medici genovesi. L’ospedale San Martino e il Galliera compaiono nell’elenco di strutture pubbliche presso cui operano i 121 medici inquisiti nell’ambito di quest’inchiesta che lavorano per il servizio sanitario nazionale. C’è di più. Nel 2001 Rai Report trasmette un servizio, “Il marketing del farmaco”, in cui tra l’altro viene intervistato un informatore scientifico che mostra un documento. Ecco un breve stralcio dell’intervista.

INFORMATORE
Provare l'esistenza del comparaggio è difficile, ma qui ci andiamo vicini... cosa abbiamo qui ?
Questo documento ufficiale di una Usl parla di una donazione di 5 milioni (lire) fatta da me per conto di una nota casa farmaceutica a un grosso ospedale di Genova, divisione di cardiologia, finalizzata allo sviluppo di un farmaco ipertensivo, donazione fatta con una motivazione assurda.


VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTORE
E questo altro documento cosa ci dice ?

INFORMATORE
Questo dimostra che nel periodo immediatamente successivo alla donazione le vendite di quel farmaco sono triplicate nelle farmacie di quella zona.

Nel servizio si documenta anche la prescrizione (a un bambino) e l’importazione illegale dal Canada di un’anfetamina non autorizzata dal Ministero della Sanità, il Ritalin, da parte di un medico genovese, che viene anche intervistato insieme al direttore della Dogana. Lo stesso anno una casa editrice genovese aveva pubblicato il volume di un informatore scientifico, Franco Bellè, dedicato proprio alla sua personale esperienza di comparaggio.

Ma il comparaggio non è l’unico reato che entra in gioco. Non molto tempo fa a La Spezia è stata scoperta una truffa da parte di medici e farmacisti consistente nell’utilizzo di ricette false e nel trasferimento arbitrario di mutuati verso un gruppo di medici beneficiari. Il tutto è costato all’erario circa un milione e mezzo di euro. A Genova un episodio analogo è costato circa 400mila euro.

La domanda di prammatica è: “Come mai questi aspetti non vengono minimamente toccati nel dibattito di questi giorni sulla spesa sanitaria?” I paragrafi che seguono forse contribuiranno a rispondere a questa domanda.

Il capitale finanziario all'assalto della sanità

Come abbiamo detto le multinazionali del farmaco sono ai vertici della classifica delle maggiori imprese globali. Al contempo si trovano ai vertici delle borse internazionali. Proprio in questi giorni è in atto un'operazione importante. La Glaxo sta cercando di acquistare la divisione della Pfizer che si occupa dei cosidetti farmaci da banco, cioè quelli vendibili senza ricetta medica. E' uno dei grandi business del futuro. Tanto da portare al lancio di una vera e propria campagna a favore della vendita delle medicine nei supermercati. Le stesse associazioni dei consumatori la sostengono affermando che in questo modo si determinerebbe un calo dei prezzi. A parte il fatto che è tutto da dimostrare, ammesso anche che una dilatazione del mercato potrebbe produrre per qualche tempo una diminuzione dei prezzi, il risultato sarebbe quello di rendere ancor più un fenomeno di massa il consumo dei farmaci. Siamo proprio sicuri che sia un bene?

A proposito di quell'operazione di borsa Hugo Dixon, in Breaking views, rubrica economica di Repubblica, afferma: "GlaxoSmithKline sta commettendo un grave errore strategico e finanziario offrendo addirittura più di 15 mld di dollari per acquistare la divisione di farmaci senza ricetta di Pfizer. (...) Per giustificare un esborso simile Glaxo dovrebbe scovare sinergie pari al 15% del fatturato della divisione." Quindi l'offerta di Glaxo come si spiega? Col fatto che i suoi manager non sanno fare i calcoli o sulla base di una fiducia nella loro capacità di condizionare il mercato. E a spese di chi?

C'è un altro aspetto che riguarda i rapporti tra sanità e borsa e riguarda proprio la gestione del disavanzo sanitario da parte delle regioni. Lo strumento principe si chiama cartolarizzazione ed evidentemente non è un'esclusiva di Tremonti dato che se ne serviranno anche Bassolino e Del Turco. Il tutto funziona in questo modo. Una banca compra dai creditori della sanità regionale i loro crediti ed emette titoli obbligazionari a copertura della somma erogata. Le obbligazioni vengono acquistate dai risparmiatori. Risultato: il rischio viene trasferito dalle aziende creditrici (in gran parte farmacie e case farmaceutiche) ai risparmiatori, la banca guadagna laute commissioni e migliora la propria posizione nel mercato attraverso un'operazione che le permette di raggiungere investitori istituzionali (fondi opensione e d'investimento) e mercati internazionali particolarmente sofisticati (e sofisticati).

Politica e case farmaceutiche

I giornali non sono i soli poteri che ricevono finanziamenti dalle case farmaceutiche. Anche il mondo della politica naturalmente non è indenne. Sergio Dompé, presidente di Farmindustria e titolare della Dompè Farmaceutici nel 2005 risulta aver finanziato l’Unione e in particolare l’Udeur di Clemente Mastella. Mesi fa fa annunciava ai due schieramenti elettorali che gli industriali del settore erano pronti a investire um miliardo di euro e oggi tratta con Livia Turco. Ancora: la Fondazione Italianieuropei, che è nata su impulso degli attuali ministri degli Esteri D’Alema e dell’Interno (Amato) annovera tra i suoi soci benemeriti la Glaxo Wellcome e la Pharmacia & Upjohn (fusa con la Monsanto e diventata Pharmacia, poi confluita nella Pfizer). E' noto che la Lega delle Cooperative è notoriamente promotrice di una campagna per la vendita dei farmaci all’interno e i centri commerciali. Ed è altrettanto noto che dopo lo scoppio del caso aviaria l'ex ministro Storace ha fatto acquistare allo Stato milioni di dosi di vaccino prodotte dalla Roche e, tanto per cambiare, dalla Glaxo. Non per essere sospettosi ma credo che se si andasse a mettere il naso nella questione verrebbero fuori particolari interessanti. Siamo proprio sicuri che era necessario?

Tutti questi legami materiali autorizzano - mi sembra - a pensare che qui emerga un ulteriore e altrettanto grave conflitto d’interesse. Nei mesi immediatamente successivi alle inchieste sulle valvole cardiache e su Glaxo l’allora ministro per la Salute Sirchia emanò un decreto soprannominato "antitruffe", che introduceva un’aggravante dell’articolo 640 del Codice Penale, decuplicava la pena pecuniaria e rendeva obbligatoria la confisca dei beni connessi col reato. Non entro nel merito di una valutazione tecnica del merito di tale provvedimento, né sarei in grado di farlo. Mi limito a sottolineare come la reazione indignata e bipartisan di rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione, delle associazioni di categoria dei medici e perfino di settori dell’associazionismo “impegnato” (Cittadinanzattiva) e della stampa medica straniera (il British Medical Journal) abbia impedito che il decreto venisse convertito in legge.

Marco Veruggio
Resp. Politiche Economiche Prc Liguria

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