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(24 Luglio 2006)

Nella speranza di non annoiare troppo provo, brevemente, a ritornare nel merito del dibattito che si sta sviluppando in questi giorni, attorno al nodo del rapporto tra pace e guerra: un nodo emblematizzato dal voto parlamentare sul rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan.

Voto ancor più drammatizzato dalla precaria situazione di equilibrio della maggioranza parlamentare e dalla necessità, resa urgente dall'esplosione di nuovi focolai di guerra in Medio Oriente, di definire la politica estera del governo di centrosinistra.

Il dibattito si è così particolarmente incentrato sul ruolo dei cosiddetti “dissidenti”: quei parlamentari appartenenti alla cosiddetta “sinistra radicale” che hanno espresso contrarietà a votare favorevolmente il rifinanziamento della missione italiana a Kabul, mandando così automaticamente in crisi il “castello di carte” costruito con l'alleanza di centrosinistra che, nello scorso mese di Aprile, ha vinto le elezioni soltanto sulla base di una mozione “contro” e non certo sulla base di un “progetto per” effettivamente alternativo al centrodestra.

Fin qui cose note, riassunte soltanto per una semplice esigenza di economia del discorso.

Maggiore interesse potrà destare una analisi più approfondita sulla qualità delle reazioni che si stanno avendo, all'interno del mondo politico e sui mezzi di comunicazione di massa, a questo stato di cose.

Reazioni che si possono riassumere classificandole in tre “categorie”:

quella di attribuire la posizione di dissenso al voto sulle missioni militari, a qualche “anima bella” che antepone la candidezza della propria coscienza al duro lavoro della politica, che cerca compromessi ma salvaguarda l'interesse generale. Il gesto delle dimissioni di Paolo Cacciari da deputato ha rappresentato, davvero, il cacio sui maccheroni per questo tipo di posizione;

quella, da parte dei partiti di appartenenza dei parlamentari “dissidenti” – nella fattispecie Rifondazione Comunista non soltanto di minacciare provvedimenti disciplinari (fin qui tutto rientrerebbe in un certo tipo di logica), ma di considerarli “fuori dalla politica”, quasi come se lo stare dentro o fuori la politica fosse deciso da qualche Comitato Centrale o Collegio dei Probiviri;

quella di considerare la posizione di cosiddetto “dissenso” quale espressione della punta più radicale dei “movimenti”, cui questi parlamentari dovrebbero adeguarsi al fine di non disperdere la propria base di consenso.

Tutte e tre ci paiono posizioni sbagliate che necessitano il ristabilimento di una minimo di analisi concreta, tale da porci in condizione di leggere la realtà della situazione in atto.

In realtà il punto vero sul quale soffermarci è l'emergere di un grave deficit di politica e di una crisi profonda del movimento pacifista.

Allora, andando per ordine:

a) esiste una profonda tensione pacifista e antimilitarista nel Paese. La maggioranza dei cittadini considera le avventure belliche in quanto tali e si pone, in questo, anche un problema di politica estera;

b) non c'è nessuna “anima bella”. Anche se emergono questioni di riflessione individuale è evidente che riemerga un tema propriamente politico, ed è quello dell'esigenza di una articolazione della dialettica politica che alla fine sfoci anche in un pronunciamento parlamentare;

non si ravvede alcuna “punta estrema dei movimenti più radicali”. I movimenti, per loro definizione, non possono istituzionalizzarsi. In realtà, in questo momento, un gruppo di burocrati delle associazioni, alcuni dei quali hanno anche fatto carriera politica, stanno tentando una mediazione tra diverse realtà, proponendo il solito “spostamento in avanti” tipico della politica dei due tempi, in un ambito ristretto. Un difficile equilibrismo tra Governo, Parlamento, realtà associative (perché di questo si deve parlare, non di “movimento”) svolto all'insegna di parole d'ordine ambigue come discontinuità e “riduzione del danno”. La valutazione della “discontinuità”, in più, diventa l'elemento fondativo dell'appartenenza filogovernativa di questi presunti movimentisti , capaci anche di discettare se i confini del pacifismo stanno tutti dentro alla “sinistra radicale” o oltre.

Insomma ci troviamo di fronte ad una forte “impasse” della politica che ha ceduto il campo ad un movimentismo che, davvero, non si pone il problema ed è ormai oggettivamente subalterno alle logiche di tipo governista.

Questo è il punto di scontro, vero, con il quale si trovano a fare i conti quei senatori che non intendono votare le missioni militari, quale elemento emblematico dell'assenza di una reale dialettica politica democratica in questo Paese (fossi in loro, inoltre, querelerei coloro che li appellano come “dissidenti”. Un vecchio modo per etichettare le presunte ,ripeto presunte, minoranze che deve essere seccamente respinto, in nome del banale principio democraticista della pari dignità di tutte le opinioni politiche)

Inoltre, nel rapporto tra Parlamento e movimenti (un tipico rapporto di natura populista, se andiamo a ben vedere, modellato sull'idea del sistema maggioritario e del decisionismo, che concede partecipazione fino al punto della semplice innocuità dimostrativa) manca del tutto una riflessa sul concetto di delega e di rappresentanza.

Ecco: è sul recupero e l'aggiornamento del concetto di rappresentanza che si gioca, in gran parte, il futuro di una possibilità concreta di allargamento democratico.

Alla fine, però, la lezione che ci viene dalle vicende di questi giorni è duplice: manca una dialettica politica che nasca autonoma e non vincolabile dal voto di fiducia al “governo amico” che non fa ritornare le destre al potere; è carente, gravemente carente, una proposta di soggettività politica tale da consentire il riavvio di quella dialettica politica, fuori e dentro le istituzioni, che ci appare come assolutamente urgente e necessaria.

Savona, li 22 Luglio 2006

Franco Astengo

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