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(12 Agosto 2010) Enzo Apicella
Dopo numerosi rinvii, sembra che gli Stati Uniti rispetteranno i tempi previsti per il ritiro delle truppe dall’Iraq

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Intervista a Jumaa Awad, presidente del sindacato dei lavoratori irakeni del petrolio

(6 Giugno 2007)

Cogliendo l’occasione della sua presenza a Roma per intervenire alla conferenza promossa dalla Campagna contro i profitti di guerra, abbiamo intervistato il presidente del sindacato iracheno dei lavoratori del petrolio: Hassan Jumaa Awad

Buon giorno Jumaa Awad.

Jumaa Awad: Buon giorno

Allora Jumaa Awad i Sindacati sono tra le realtà meno conosciute dell’associazionismo iracheno, anche se rappresentano un settore rilevante e fondamentale per lo sviluppo di una società democratica. Ma ancora di più i sindacati dei lavoratori del petrolio hanno un’enorme importanza, visto il valore strategico del settore per la ricostruzione, la ripresa economica del Paese e visti anche gli interessi in gioco e i piani di sfruttamento dell’oro nero iracheno. E proprio voi da tempo avete chiesto al ministero del Petrolio di essere coinvolti nelle discussioni sulla stesura della legge sul petrolio, insieme a tecnici ed esperti iracheni, sostenendo che una legge cosi importante per lo sviluppo del Paese non può essere discussa a porte chiuse come è più volte accaduto ( diversi incontri a porte blindate sono avvenuti, infatti, tra funzionari del ministero del petrolio e i vertici delle compagnie petrolifere occidentali). Ci sono stati in tal senso dei miglioramenti ultimamente?

Jumaa Awad: Si, questa è una richiesta vecchia per quanto concerne la federazione dei sindacati petroliferi iracheni. E’ una richiesta rinnovata anche con la comunicazione che abbiamo inviato al ministro del petrolio e al presidente del consiglio dei ministri il 2 Febbraio scorso a seguito dell’assemblea in cui abbiamo riunito moltissimi esperti del settore anche delle Università irachene. E’ una richiesta che però tutt’ora aspetta delle risposte convincenti.

Alcuni leader sindacali hanno ricevuto addirittura delle minacce di morte. Qual’è il motivo? Lei personalmente ne ha ricevute?

Jumaa Awad: Si, non solo i sindacalisti ma tutti coloro che lavorano nell’ambito della società civile irachena si trovano spesso a dover ricevere non solo minacce di morte ma anche pressioni di ogni genere spesso da parte di partiti politici e da altre organizzazioni che fanno parte a volte anche delle istituzioni irachene. E questo è dovuto essenzialmente per i grandi interessi che ruotano attorno al settore di cui noi facciamo parte o comunque al settore specifico della ong o della organizzazione che viene minacciata di volta in volta. Per quanto mi riguarda, ho ricevuto anch’io peronalmente di queste minacce.

Come avete fronteggiato la Legge Amministrativa di Transizione? Una legge (per coloro che non la conoscessero) promulgata da Paul Bremer proconsole Usa in Iraq, che non permette la formazione di sindacati ed altre organizzazioni. Una legge, l’unica legge rimasta in vigore dall’epoca del regime di Saddam. Il vostro quindi è un sindacato illegale?

Jumaa Awad: Innanzitutto il periodo peggiore per gli iracheni è stato quello in cui c’era Bremer al potere del Paese: le peggiori decisioni prese dai governi iracheni sono state quelle di Bremer durante il suo breve periodo al potere. Una delle pochissime leggi mantenuta dal regime precedente cioè il famoso decreto 150 promulgato da Saddam Hussein, è quella che, parificando la situazione degli operai a quella dei lavoratori pubblici, scioglieva tutti i sindacati esistenti facendoli confluire nell’unico sindacato statale e controllato dal regime allora presente. E la scelta di mantenere proprio questa legge tra le tante promulgate dal regime precedente è senza dubbio dovuta alla volontà da parte di Bremer e soprattutto da parte degli Usa di evitare che gli iracheni potessero strutturarsi in organizzazioni della società civile o in sindacati e questo perché la società irachena fosse il più possibile divisa e settarizzata. Noi fino ad oggi paghiamo le conseguenze delle decisioni di Bremer, e non parlo solo di quella che citava lei ma anche di altre come quelle inerenti i salari, infatti i limiti salariali imposti da Bremer sono assolutamente inadatti e non adeguati per la mole e la tipologia di lavoro che facciamo in modo particolare noi operai del settore petrolifero.

Possiamo parlare secondo lei di un fallimento della guerra condotta in Iraq dalle “forze del male”, come lei stesso ha definito gli USA, grazie anche alla vostra perseveranza e a quella dei lavoratori del petrolio nell’opporvi alle forze di occupazione e alle compagnie petrolifere straniere? Ricordiamo che siete riusciti ad espellere la Halliburton dai vostri giacimenti.

Jumaa Awad: Si, sicuramente bisogna cominciare col dire le compagnie petrolifere statunitensi che sono entrate nel nostro settore e nei nostri impianti siamo riusciti a cacciarle con molta difficoltà e non dappertutto. E sicuramente tutti i nostri scioperi, le nostre proteste e i nostri picchetti hanno in qualche modo favorito l’attività sindacale e sicuramente aiutato il popolo iracheno, tuttavia il fallimento delle politiche statunitensi volte soprattutto al controllo della sicurezza nel Paese non è un fallimento dovuto alle nostre attività bensì ad una volontà precisa di evitare una stabilizzazione della situazione per giustificare la propria presenza nel Paese.

Adesso faccio l’avvocato del diavolo: state portando avanti una campagna contro la privatizzazione del petrolio e dei settori manifatturieri, però con i Production Sharing Agreement è lo Stato, l’Iraq, a rimanere proprietario dei giacimenti. Cosa c’è, allora, che non va in questi contratti proposti dalle compagnie petrolifere straniere?

Jumaa Awad: Innanzitutto non credo che sia assolutamente vero che lo Stato mantenga tutta la sua sovranità sulle risorse petrolifere nel caso in cui si arrivasse ai Production Sharing Agreement cioè i contratti di condivisione della produzione. Questo soprattutto perché questi contratti sarebbero a lungo termine, si parla di 30 anni o più e inoltre le percentuali degli introiti che andrebbero alle aziende sarebbero ampiamente superiori alla media oltre a questo c’è da dire che le compagnie petrolifere straniere godrebbero di una sorta di impunità sul territorio iracheno anche per un altro contesto legislativo non strettamente legato alla legge sul petrolio. Noi siamo assolutamente favorevoli agli investimenti stranieri nel settore petrolifero iracheno che sono strettamente necessari anche per il rinnovamento tecnologico, tuttavia noi siamo per dei contratti che servano davvero al popolo iracheno, che mantengano nelle nostre mani il controllo di quella che è la nostra più grande ricchezza nazionale e penso ad esempio ai contratti di servizio come si faceva già ai tempi di Saddam.

L’amministrazione Usa ha fatto si che insieme alla legge sul petrolio venissero approvate una serie di norme a garanzia dei profitti delle compagnie petrolifere, invitate a “banchettare” dagli USA, fra le quali vengono previsti finanziamenti per investire in Iraq. Da dove provengono questi finanziamenti? Sono previsti in egual misura anche per gli enti statali per il petrolio?

Jumaa Awad: In realtà l’Iraq National Oil Company che sarebbe l’azienda statale irachena che gestisce le risorse petrolifere non ha ancora visto la luce perché la sua rinascita è stata posticipata a dopo l’approvazione della legge sul petrolio. E bisogna dire che, in realtà, neanche le altre aziende che lavorano nel settore petrolifero iracheno hanno ricevuto i finanziamenti da parte degli Usa per rinnovare le tecnologie o per fare manutenzione. Comunque sia tutti i finanziamenti che vengono dagli Stati Uniti per le aziende che vanno ad investire in Iraq provengono dagli stessi soldi degli iracheni che attraverso i cosiddetti Irakery Consrtuction Fund dell’Onu vengono deviati verso finanziamenti per le corporation del petrolio.

Quella in Iraq è una vera e propria guerra del petrolio lo testimonia il fatto che nel 2003 appena prima dell’invasione era già stato steso dai neo-conservatori il piano segreto per la privatizzazione: un piano che prevedeva la vendita di tutti i campi di petrolio per indebolire l’Opec, un piano poi bloccato. Ma questo era diciamo cosi un piano “ di ripiego”, il primo, infatti, quello proposto dai dirigenti delle industrie petrolifere “Big Oil” nel 2001, scartato per poi essere parzialmente ripreso, prevedeva un golpe per poi creare una compagnia petrolifera statale. Insomma sia nell’uno che nell’altro caso era il petrolio al centro degli interessi. Questo era un prologo, la domanda è ma c’è una seconda ragione per cui gli Usa hanno invaso l’Iraq?

Jumaa Awad: Abbiamo più volte detto che, secondo noi, il controllo delle risorse petrolifere è uno e probabilmente il prevalente tra i motivi che hanno spinto gli Usa all’invasione. Poi tutti sanno che l’Iraq rappresentava una grossa preoccupazione per la sicurezza dello Stato di Israele e quindi, sicuramente, indebolire l’esercito iracheno considerato uno dei più potenti dell’area rappresentava una priorità per la politica statunitense da sempre alleata con Israele. Ed è per questo che io credo che il piano per disegnare una nuova carta del Medio Oriente sia partito dall’Iraq.

Quali sono le compagnie petrolifere attualmente presenti in Iraq?

Jumaa Awad: Al momento non c’è alcuna presenza importante, ad esclusione di alcune aziende che hanno contratti di esplorazione che sono ovviamente statunitensi e che lavorano sotto la protezione militare dell’esercito statunitense. E credo la situazione di insicurezza sia uno dei motivi per cui fino ad ora non sono ancora giunti grossi gruppi di lavoro nel Paese .

Quindi l’Eni, la compagnia petrolifera italiana non è presente in questo momento?

Jumaa Awad: No, non credo che l’Eni sia presente nel Paese anche perché nella provincia in cui si trova Nassirya non mi risulta che ci siano operatori dell’Eni, tuttavia l’Eni ha dei contratti di esplorazione nel nord del Paese curdo ed aveva dei contratti firmati con Saddam Hussein proprio a Nassirya.

Ci sarà alla manifestazione contro Bush a Roma?

Jumaa Awad: Purtoppo la mia visita in Italia termina il 31 Maggio, tuttavia mi sarebbe piaciuto molto, se avessi avuto la possibilità di rimanere qui in Italia, poter esprimere per un’ulteriore volta la mia opinione personale e quello che so delle politiche di Bush e di lui come persona che, secondo me, è un criminale che oltre ad avere invaso l’Iraq l’ha anche distrutto dal punto di vista sia economico che delle infrastrutture e tutto il resto.

intervista raccolta da Gabriele Paglino - Radio Città Aperta (Roma)

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