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Economia, finanza, crisi del '29

(13 Agosto 2007)

Molti commentatori ed analisti (non ultimo Eugenio Scalfari su “Repubblica” del 12 Agosto) stanno azzardando paragoni con la crisi in corso sui mercati finanziari (dovuta al fenomeno dei fondi basati sui “mutui in dissesto”, che accomuna molte situazioni a livello internazionale, dagli USA, epicentro del sisma, alla Germania, fino a nazioni periferiche come il Portogallo, lambendo l'Italia) al “grande crollo” del 1929.

In effetti elementi di analogia tra i due fatti se ne ravvedono, anche se dal nostro osservatorio non abbiamo elementi per tracciare un parallelo dal punto di vista degli effetti (ricordiamo che dalla crisi del '29 si uscì, in tempi completamente diversi, con una forte iniezione di keynesismo, per quel che riguardò gli USA, mentre nell'URSS si sviluppava il gigantesco sforzo della pianificazione e in Germania, alla vigilia dell'ascesa del nazismo, si verificò una fase di fortissimo interventismo statale fondato sul riarmo incontrollato).

La vera diversità tra allora ed adesso risiede, però, nel peso del rapporto tra produzione e finanza.

Quella che, impropriamente, è stata definita “globalizzazione”, infatti, è stata rappresentata soprattutto da una crescita del fenomeno della finanziarizzazione dell'economia (nulla di nuovo sotto il sole, ovviamente, almeno a partire dalla Borsa di Parigi negli anni di Napoleone III: quando i vari Rotschild & C – magnificamente interpretati a livello letterario da Dumas nella figura del barone Danglars del Conte di Montecristo – trasformarono in mera speculazione finanziaria tutto il prodotto del neocolonialismo francese, dall'Algeria all'Indocina).

Un processo di finanziarizzazione imponente, al cui interno finora gli elementi di crisi erano stati relegati in situazioni periferiche come quelle dei paesi dell'Est europeo di recente assunzione liberista o dell'Argentina del bond e della rivolta delle pentole.

Oggi, invece, la crisi minaccia il cuore dell'Impero, anche perché arriva al pettine un nodo assolutamente decisivo legato a due fattori: la delocalizzazione della produzione verso Oriente e la trasformazione, in Occidente su larga scala, delle sedi di attività produttiva in una crescita esponenziale della speculazione edilizia.

Non a caso l'elemento di maggior rilievo, in questa bufera, è quello della trasformazione in fondi d'investimento dei “mutui in sofferenza”, attraverso i quali era stato surrettiziamente finanziato un forte flusso di crescita del consumismo individualistico, rivolto in particolare verso la proprietà delle abitazioni.

Tanto per fermarsi ad una esemplificazione di casa nostra, quindi in una sede assolutamente periferica, leggiamo oggi del congelamento dei fondi legati a Paribas: la banca francese che, insieme a BNL, aveva lanciato qualche tempo fa e con grande clamore pubblicitario, la possibilità di accendere mutui quarantennali per il 100% dell'acquisto della prima casa (mutui reclamizzati come rivolti ai giovani precari, in realtà fattore indiscriminato di indebitamento su cui realizzare iniziative di pesantissima speculazione).

La speculazione edilizia va dunque combattuta, sul piano generale ed anche in sede locale (come meritoriamente si sta facendo in molte situazioni, anche nel nostro paese) non tanto e non solo per i fattori urbanistici ed ambientali, assolutamente importanti e significativi: ma soprattutto perché favoriscono la concentrazione della ricchezza in poche mani, distruggendo la possibilità di una economia diversa fondata sull'estensione dei servizi collettivi, sulla produzione destinata a soddisfare i bisogni sociali, sull'innovazione tecnologica.

L'Italia, tanto per restare a casa nostra, appare particolarmente esposta ai rischi di una situazione del genere, per la fragilità oggettiva del suo tessuto economico all'interno del quadro europeo: priva di settori portanti sul piano della produzione industriale, come quello della chimica, sacrificato fin dagli anni'70 sull'altare della “questione morale” in seguito al prezzo esagerato pagato ai padroni privati al momento della nazionalizzazione dell'energia elettrica (ricordate: Montedison, madre di tutte le tangenti?), siderurgia e meccanica, sulla base di scelte strategiche sbagliate compiute nel decennio '80-'90, elettronica, agro – alimentare (anche in questo caso decisiva la “questione morale” e l'accodamento alla logica della finanziarizzazione già ampiamente descritta fin qui).

Insomma: sta emergendo una situazione che reclama un modo diverso del passato nel prenderne atto, nell'analizzarla lucidamente, nell'avanzare una capacità di rivendicazione sociale non posta ai margini dei fenomeni reali.

Si impone, in definitiva, e cito soltanto il titolo, una ripresa di ragionamento sulla necessità dell'intervento pubblico, strategico di programmazione e di gestione dei settori decisivi, in economia, ripensando la realtà degli accordi internazionali, a partire da quelli europei: questo sarebbe il compito di una realtà di sinistra, non adagiata supinamente a considerare il liberismo l'unica frontiera possibile in questa fase della storia.

Savona, li 12 Agosto 2007

Franco Astengo

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