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(No basi, no guerre)

Sull'appello per una manifestazione internazionale a Vicenza

Nota della Redazione di "sotto le bandiere del marxismo"

(15 Settembre 2007)

Negli anni sessanta, l’Italia non appariva come un paese militarista. Il ricordo della catastrofe bellica era troppo recente. C’erano, è vero, generali educati in epoca fascista con pesanti nostalgie, ma molti ufficiali giovani andavano in borghese a sentire Dario Fo, che prendeva in giro i loro superiori. Il servizio militare era sentito dai più come una perdita di tempo, e dai conservatori come un’esperienza formativa, ma chi si congedava sapeva bene di non essere preparato ad affrontare una vera guerra, soprattutto in un paese straniero. Anche allora c’era una forma di militarismo diretta verso l’interno: non solo una polizia armata fino ai denti, ma anche settori di militari di professione pronti per l’ordine pubblico, come si vide soprattutto a Genova e a Reggio Emilia nel 1960, durante le manifestazioni contro il governo Tambroni. Il timore di un colpo di stato tornava spesso, ma nessuno credeva ad un intervento delle truppe italiane all’estero.

Quando, nella prima guerra contro l’Iraq, furono mandati gli aerei italiani, ci fu un grande sconcerto, e l’opinione pubblica - compresa la sinistra, con l’eccezione dei soliti miglioristi - fu contraria. Il terribile Saddam restituì all’Italia gli aviatori catturati, con soltanto qualche livido. Circolava la foto di Cocciolone prigioniero, con la frase: “Mamma, ho perso l’aereo!”

Al tempo della guerra di Jugoslavia, D’Alema, frequentatore incallito di marce della pace in compagnia di frati di ogni religione, mandò gli aerei a bombardare la Serbia, senza neppure consultare il parlamento, e cianciando di operazioni di semplice esplorazione del territorio. Per aggiornare le carte topografiche? Rifondazione, allora, salvò l’onore, e i suoi dirigenti usarono parole forti, che contrastano in modo stridente con le recenti frasi cortigiane sulla “riduzione del danno”. In seguito il militarismo ha ingoiato anche questo partito che, obtorto collo, ha votato i crediti di guerra.

Oggi, tutto il parlamento ha accettato il militarismo, si è votata una finanziaria che assegna alle attività militari cifre enormi, che fanno impallidire quelle mussoliniane del tempo “ Burro o cannoni”.

Anche in Italia è risorta l’industria bellica, con i suoi gruppi di pressione. Il paese è cosparso di quelle metastasi che sono le basi militari, non soltanto per le pressioni di Washington, ma soprattutto perché in Italia c’è chi ci lucra. Gli antiamericani di principio, che vedono tutto il male nascere oltreoceano, e sottovalutano il movimento contro la guerra che lotta negli Stati Uniti, non tengono conto delle spinte economiche che in Italia portano allo strapotere militare. L’imperialismo italiano non è un prodotto d’importazione, non sorge dal servilismo di un paese semicoloniale, ma è autoctono, nasce dalla rete di interessi dell’industria militare privata e statale, dall’alta finanza, dall’industria di esportazione “di pace”, dai petrolieri, dai cacciatori di appalti internazionali, e così via. Si è cominciato con l’esportazioni di armi leggere, in Africa, Asia, America latina. Dicevano cinicamente: “Vogliono farsi la guerra. Se non le vendiamo noi queste armi, gliele vendono altri paesi”. Gli affari sono affari, e il denaro, affermava Vespasiano, non ha odore. Questi settori di profittatori cercano sempre più commesse statali; non solo esercitano un parassitismo su vasta scala, ma creano una situazione sempre più pericolosa, perché cercano il coinvolgimento militare del nostro paese, su scala sempre più vasta, come indica il numero delle “missioni” pacificatrici, per usare il linguaggio fratesco di oggi.

Il militarismo s’insinua con arti sottili. Le basi portano lavoro – si spergiura – la presenza dei soldati incrementa la nascita di ristoranti, dell’industria del divertimento, le esigenze delle basi fanno nascere industrie, migliorano i trasporti...” Ci si ritrova invece inquinamento, intasamento del traffico, prostituzione, violenza, distruzione di bellezze paesaggistiche, artistiche e storiche, un costante pericolo di attentati, e una crescente militarizzazione del territorio. Chi, nei paraggi delle basi, ha un telefonino in grado di fotografare, potrebbe essere arrestato e accusato di spionaggio, dato il clima paranoico che fiorisce. Si vive in un tempo di sospetti.

Non vogliamo vivere nell’oppressione e nel pericolo, per questo consideriamo preziosa ogni lotta contro le basi. Apprezziamo il lavoro degli antimilitaristi di Vicenza e di chi coopera con loro, e chiediamo ai nostri lettori di diffondere i loro comunicati. Nello scritto del Comitato di Vicenza Est manca solo una cosa importante: accanto alla richiesta del ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan , non c’è quella per la liquidazione dell’avventura in Libano. Abbiamo buone ragioni di credere che nel comunicato definitivo tale lacuna sarà colmata.

Ai militanti vicentini: Buon Lavoro

7 settembre 2007

La redazione di 'Sottolebandieredelmarxismo'

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