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Merito e eguaglianza

(29 Settembre 2007)

Il dibattito in corso attorno alla costruzione del partito Democratico si è soffermato, negli ultimi giorni, sul concetto di “merito” considerato basilare nella visione teorica che dovrebbe ispirare la nuova formazione politica.

L'accezione di “merito” che appare prevalere nel corso della discussione non è nuova all'interno della vicenda politica italiana: di ispirazione contrattualistica, da Rawls in avanti, pare assumere, infatti, più i tratti della “meritocrazia” molto simile, insomma, a quella idea avanzata nell'ambito del PSI craxiano da Claudio Martelli, in un congresso che – mi pare – si svolse a Rimini nel 1982.

Del resto il nuovo PD pare sempre di più assumere i caratteri del craxismo, piuttosto che quelli della vecchia DC: ma queste sono considerazioni un po' “politiciste” sulle quali non intendo accennare più di tanto.

Ritorno invece al nocciolo della questione, ricordando come la meritocrazia, sin dall'illuminismo, presupponesse la legittimazione della decisione discrezionale di un “governante”(qui la tentazione di tornare a Craxi ed al decisionismo è forte, ma sorvoliamo..).
Insomma il “merito” ha bisogno di essere stabilito “ad libitum” da qualcuno che detiene il potere: in fabbrica, all'Università, nella politica..
Già Rousseau e Condercet riconoscevano la meritocrazia come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio..

Questa concezione del “merito” , che riaffiora pericolosamente nel patrimonio teorico del nuovo PD, presuppone una cultura del potere (tipica della cultura d'impresa: come del resto risultava evidente nel saggio di Sergio Marchionne, pubblicato da “Repubblica”) e dell'autorità sancita dal padrone o dal governante privilegiando i fattori della fedeltà nei confronti del superiore come determinanti.
Quasi una sorta di novello feudalesimo,.
Il concetto di merito, insomma, utilizzato come correttivo rispetto alla reale competenza e qualificazione.

Furono le lotte dei lavoratori (come ricorda anche, in uno dei suoi ultimi scritti, un teorico del passaggio da “sfruttati e produttori” come Bruno Trentin) a cancellare questa idea di “merito”, attraverso l'affermazione dei diritti collettivi fondati sull'eguaglianza.
Adesso registriamo, invece, un passo indietro.
Così come appare arretrata l'idea del rapporto tra meriti e bisogni: arretrata perché nega alla fine che questo tipo di rapporto si trasformi, davvero, nella richiesta di diritti universali, limitandosi alla sola idea individualistica del bisogno di consumo (come già faceva notare un grande studioso marxista come Paul Sweezy).

Ci troviamo, dunque, di fronte ad un altra importante discriminante tra un Partito Democratico che salpa irrimediabilmente dall'approdo storico della sinistra, e la necessità di ricostruire una identità del movimento di lotta e di liberazione delle classi oppresse.

All'idea della meritocrazia è necessario opporre l'idea di eguaglianza: e, fin qui, forse nulla di nuovo.
Anche l'idea di eguaglianza ha, però, la necessità di essere innovata: non possiamo pensare ad una “eguaglianza chiusa” dentro il recinto di un collettivismo governato dall'alto, che determina bisogni e diritti.
Abbiamo necessità di una “eguaglianza aperta” che ispiri la realtà collettiva e la rete di rapporti da persona a persona, del soggetto verso un altro soggetto e del soggetto verso lo Stato: forse, su questo terreno, si potrebbe tornare indietro ai grandi classici prendendo ispirazione dell'Aristotele dell'Etica Nicomachea.

Troppo indietro nel tempo? Una società diversa? Ebbene: non sarebbe il caso di ritornare a considerarci nani issati sulle spalle di giganti e guardarci alle spalle con maggiore attenzione?

Savona, li 28 Settembre 2007

Franco Astengo

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