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(24 Novembre 2011) Enzo Apicella

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(3 Luglio 2010)

Il ricatto di Pomigliano non è passato.

Fiat e Confindustria volevano dimostrare che in cambio di un salario di mera sussistenza i lavoratori e le lavoratrici di Pomigliano sarebbero stati disposti ad accettare orari da schiavi, salari da fame e privazione dei diritti sindacali.

Per farlo hanno convocato arbitrariamente un referendum tra i lavoratori senza rispettare i termini previsti per legge (almeno 15 giorni dalla convocazione) e senza che vi fosse una Rappresentanza Sindacale Unitaria in carica (la RSU di Pomigliano è decaduta da oltre un anno).

Ma nonostante tutto il plebiscito richiesto da Marchionne a favore del suo piano industriale per Pomigliano non c'è stato.
I sì all'accordo sono stati solo 2888 su 4881 aventi diritto, neppure il 60%.
Se si tiene conto che gli impiegati (circa 400) hanno votato sì al 90%, la percentuale degli operai favorevoli all'accordo è solo del 55%.
Una percentuale molto distante da quell'80% richiesto da Marchionne per non chiudere anche Pomigliano dopo Termini Imerese.

Un parte rilevante dei lavoratori di Pomigliano ha respinto al mittente l'accordo firmato dai sindacati gialli Cisl Uil, Fismic e Ugl, ha messo a nudo il doppio gioco della Cgil che aveva comunque appoggiato il voto favorevole e i tentennamenti della Fiom che, pur non avendo firmato l'accordo, non ha fatto campagna per il no.

I lavoratori di Pomigliano hanno sconfessato le previsioni dei politici di centrodestra e centrosinistra e hanno mostrato come le loro "preoccupazioni" e i loro "auspici" fossero quelli della Fiat e del padronato e non quelli dei lavoratori e delle lavoratrici.

Un piano di restaurazione contro tutti i lavoratori

Cancellazione o svuotamento del contratto collettivo di lavoro, allungamento degli orari, imposizione di turni senza riposo, straordinari obbligatori.
Abolizione dei diritti sindacali, divieto di sciopero, con sanzioni e blocco delle trattenute per i sindacati che ne convocassero uno, provvedimenti disciplinari, tagli al salario e licenziamento per i lavoratori che osassero parteciparvi.

L'accordo di Pomigliano vuole restaurare la dittatura padronale, vuole una fabbrica di lavoratori sottomessi e totalmente subalterni ai ritmi, ai tempi, alle esigenze dell’azienda.

Una restaurazione fascista che da Pomigliano, nella intenzioni padronali, dovrebbe dilagare in tutto il tessuto produttivo italiano: lo dimostrano le dichiarazioni entusiaste di Confindustria che si è subito mobilitata a fianco della Fiat.

"Sopravvivere da schiavi o morire di fame", questo è il ricatto rivolto a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici e non solo a quelli di Pomigliano. Quello di Pomigliano, nelle intenzioni dei padroni, dovrebbe diventare il nuovo modello di relazioni tra capitale e lavoro per tutto il Paese, un modello basato sulla paura.

La strategia padronale nella crisi

I padroni stanno utilizzando la crisi che loro stessi hanno creato per azzerare le conquiste di due secoli di lotta dei lavoratori, per costruire un mercato del lavoro selvaggio e senza regole così come è selvaggio e senza regole il mercato delle merci e dei capitali.

La strategia padronale per affrontare la crisi e la competizione globale si va delineando con sempre maggiore chiarezza.

Il piano Marchionne e la manovra Tremonti hanno l'obiettivo esplicito di trovare un sbocco all'eccesso di produzione verso i nuovi mercati della periferia (Cina, Brasile, India...), ma per affrontare questa guerra commerciale il loro obiettivo è quello di ridurre il costo delle merci prodotte in Italia agli stessi livelli di quelle realizzate in quei mercati.

Quindi tagli ai salari, ma anche tagli allo stato sociale, e tagli ai diritti per rendere competitivo il capitalismo italiano in questa nuova guerra commerciale.

La strategia padronale per l'uscita dalla crisi è quella di ridurre i lavoratori in schiavitù, di condannarli all'ergastolo del lavoro salariato in attesa del miraggio di una pensione che si allontana sempre di più... fine pena mai!

E' un attacco che non fa differenza tra i lavoratori del sud e quelli del nord, così come non fa differenza tra lavoratori del pubblico e lavoratori del privato. E' un attacco generale contro il lavoro salariato in nome del mercato e del profitto.

La truffa di Marchionne

Ma l'accordo di Pomigliano oltre ad essere un ricatto è anche una truffa spudorata.
Marchionne non ha nessuna possibilità di garantire il rilancio di Pomigliano.

Già prima della crisi la produzione dell'industria automobilistica soffriva di una sovrapproduzione strutturale: si producevano più autoveicoli di quanti ne potessero essere acquistati, soprattutto in Europa.

Con la crisi la produzione automobilistica si è ridotta, nel 2008/2009, del 16.7% nel mondo, del 25.6% in Europa, del 34.4% negli Usa, del 33.9% in Italia.

Il risultato è che se la capacità produttiva a livello mondiale sarebbe di 94 milioni ai automezzi all'anno, la produzione effettiva è invece di "soli" 61 milioni di mezzi (2009).

Ma anche questi 61 milioni di mezzi prodotti sono troppi per un mercato che è in continua decrescita praticamente in tutto il mondo tranne che in Russia, Cina, India e Brasile, che, anche se dovessero raddoppiare percentualmente il loro mercato (una ipotesi più che ottimistica), assorbirebbero al massimo altri dieci di milioni di automezzi all'anno.
Allo stesso tempo la Cina è diventato il principale produttore globale nel 2009 aumentando la propria produzione del 48% e producendo oltre 13 milioni di mezzi, pari al 22,5% del totale.

In questo contesto di crisi di sovrapproduzione strutturale il Piano Marchionne prevede di aumentare la produzione Fiat fino a quasi quattro milioni di mezzi all'anno (contro i due milioni e mezzo del 2008), e allo stesso tempo di portare la produzione Chrysler a oltre due milioni di autoveicoli.
Inoltre l'aumento di produzione della Fiat in Italia dovrebbe, sempre secondo Marchionne, raggiungere un milione e 400 mila automezzi, contro gli 880.00 prodotti nel 2008.

Tutto questo in previsione di un aumento della richiesta del mercato europeo che dovrebbe assorbire un milione di auto in più della sola Fiat, e si suppone anche qualche altro milione di auto prodotte della altre industrie europee. (!!!)

Dal momento che è evidente che la Fiat non è in grado di stabilire i tempi e le modalità di una ripresa dei mercati dalla crisi, è altrettanto evidente che Marchionne chiede agli operai sacrifici salariali e rinunce ai diritti per combattere una guerra all'ultimo sangue contro i lavoratori degli altri paesi.
Una guerra che sarà combattuta con l'arma di una ulteriore sovrapproduzione di merci, e che alla fine avrà come risultato altri fallimenti, milioni di disoccupati, piazzali pieni di auto invendute, in Italia o in qualche altro paese del mondo.

Una guerra in cui Marchionne e i padroni hanno la sicurezza di guadagnare comunque i loro profitti, mentre ai lavoratori verrà riservato lo stesso ruolo dei soldati italiani durante la prima guerra mondiale: quello della carne da macello.

Perché Pomigliano e non la Polonia

La produzione Fiat è delocalizzata in tutto il mondo. Considerate tutte le attività (automobili, componenti, autocarri, macchine agricole, macchine da cantiere) il gruppo Fiat produce in 203 stabilimenti in 50 paesi (di cui 70 in Italia e 62 in Europa).

Nel 2008 la Fiat ha prodotto 2 milioni e mezzo di autoveicoli (auto e camion) di cui 880.000 in Italia, 738.000 in Brasile, 470.000 in Polonia, 184.000 in Turchia, 60.000 in Cina 55.000 in Spagna, 45.000 in Francia e quote minori in Argentina, Germania, Ungheria, India e Australia (dati OICA).

Quindi la domanda da porsi è perché Marchionne preferisca rilanciare lo stabilimento di Pomigliano piuttosto di quello di Tychy in Polonia, o di un altro in uno dei tanti paesi in cui la multinazionale Fiat produce.

In Polonia i salari sono più bassi che in Italia, ma non esistono ammortizzatori sociali paragonabili a quelli Italiani. Questo significa che se nel corso della guerra per il mercato dell'auto Fiat fosse costretta a ridurre la produzione (e non sarebbe un caso strano) in Polonia la Fiat dovrebbe licenziare i lavoratori e chiudere lo stabilimento.
In Italia invece può ricorrere alla cassa integrazione ordinaria e lasciare gli operai a casa, mantenendo comunque inalterata la propria capacità produttiva in attesa di tempi migliori.

L'unico vantaggio di Pomigliano per la Fiat è quello di poter accollare le proprie perdite alla collettività, prosciugando a proprio esclusivo vantaggio i fondi della Cassa Integrazione accantonati da tutti i lavoratori e le lavoratrici.

Nessuno dei politici di centrodestra e di centrosinistra che hanno mostrato tanto entusiasmo per il piano Marchionne sembra essersi accorto di questo particolare.

Socialismo o barbarie

Mentre le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra riformista si sono rese complici di questo stato di cose, mettendo al centro della loro azione la salvaguardia del sistema di sfruttamento e delle sue compatibilità invece che l'interesse degli operai, i lavoratori di Pomigliano, o almeno una buona parte dei lavoratori di Pomigliano, boicottando il plebiscito di Marchionne, ha affermato la necessità di costruire una prospettiva operaia realmente autonoma dal capitale, dalle sue esigenze di profitto, dalle sue guerre economiche.

La crisi economica mette in discussione un capitalismo che non riesce più a dare né sviluppo, né benessere, ma solo crisi, miseria e guerra anche se apparentemente domina incontrastato su di un mondo che ormai da decenni è interamente sottomesso alle leggi del mercato e della concorrenza.

Mette in discussione il ruolo della oligarchia capitalista che in questi ultimi trent'anni è riuscita ad impadronirsi del mondo intero mettendo al lavoro miliardi di uomini e donne e saccheggiando tutte le risorse naturali in cambio della promessa di un futuro di prosperità, che puntualmente non arriva mai.
Mette in discussione il modo di produzione capitalista che è in crisi per le proprie contraddizioni senza che sia possibile addebitarne la responsabilità a nessuna causa esterna.

L'unica via di uscita dalla crisi che il padronato è in grado di concepire è quella che è già sotto gli occhi di tutti: licenziamenti, disoccupazione di massa, un attacco ancora più violento ai salari e ai diritti, per costringere i lavoratori a combattere nella guerra commerciale dei capitalisti.

Una guerra mondiale che si combatterà costringendo altre industrie alla chiusura e privando del lavoro milioni di operai.

In questa prospettiva quello di cui i lavoratori e le lavoratrici hanno bisogno non sono altre mediazioni, ma di proprie organizzazione politiche e sindacali in grado di difendere salari e diritti a prescindere.

La classe operaia non ha più bisogno di quei soggetti politici e sindacali che da sempre promettono inutilmente di "riformare" e "migliorare" questo sistema di sfruttamento, lasciando sempre e comunque i mezzi di produzione nelle mani di pochi privilegiati.

La denuncia degli effetti della crisi sui lavoratori rimane un lamento inutile se non si pone al centro la necessità del superamento di questo sistema di cose basato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Occorre ripartire ripartire da una analisi materialistica della crisi come annuncio della limitatezza del capitalismo, per riaffermare l'inimmaginabile, cioè un mondo senza profitto.
Occorre avere il coraggio di affermare che l'unica possibile uscita dalla crisi è quella dell'eliminazione dello sfruttamento e del profitto.

E' necessario riaffermare con forza che non sono i lavoratori ad avere bisogno del capitale, ma che invece è vero l'esatto contrario, e che da questo sistema di miseria e di sfruttamento se ne esce solo mettendo al centro il lavoro come unica fonte di sviluppo e progresso sociale.

Non c'è bisogno di nessun sacrificio, la crisi non è nata perché le merci sono rimaste invendute, ma al contrario perché si sono prodotte merci che non potevano essere vendute perché non rispondevano a nessun bisogno reale ma solo a quelli fittizi creati dalla guerra di concorrenza tra gruppi capitalisti, alimentata dalla globalizzazione, dal liberismo e dalle privatizzazioni.

I capitalisti hanno creato la crisi tentando di imporsi uno sull'altro, producendo di più per impadronirsi di fette maggiori di mercato, salvo poi disinvestire e chiudere le fabbriche, per salvare i propri capitali dalla guerra di mercato che loro stessi avevano scatenato.

Questa crisi non significa carestia, non significa "privazione", ma il suo esatto contrario e cioè "sovrabbondanza" di merci, di macchinari, di capitale, di ricchezza che non vengono più utilizzati.

Occorre ripartire dal basso, dai lavoratori, dalla ricostruzione dei consigli, dal processo di formazione collettivo e di autogoverno della classe.

Il progresso, lo sviluppo, la conquista di una vita dignitosa per tutte e tutti potranno essere raggiunti solo quando le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, che sono la maggioranza dell'umanità, decideranno che si può fare a meno della borghesia.

Solo quando le operaie e gli operai, in quanto attori principali della produzione, la prenderanno nelle proprie mani, decideranno lo scopo del lavoro e il modo della sua organizzazione, costruiranno il proprio ordine nuovo e il proprio sistema di autogoverno, il socialismo.

Licenziamo il fascista Marchionne, mandiamo a casa i suoi lacchè politici di centrodestra e di centrsinistra.
Appoggiamo la resistenza operaia contro la dittatura padronale
Per una prospettiva di liberazione dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Il pane e le rose - collettivo redazionale di Padova

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