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BISOGNA SOGNARE! - VOL I - Il Nordafrica in rivolta e il Nordafrica da noi - appunti e spunti a partire dall'intervento di Emilio Quadrelli

(13 Aprile 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.caunapoli.org

BISOGNA SOGNARE! - VOL I - Il Nordafrica in rivolta e il Nordafrica da noi - appunti e spunti a partire dall'intervento di Emilio Quadrelli

foto: www.caunapoli.org

BISOGNA SOGNARE!

CRISIRIVOLTEORGANIZZAZIONE

I seminari si svolgeranno presso - Palazzo Giusso – Università l’Orientale – ore 16:30

vol I - venerdì 1 aprile

Il Nordafrica in rivolta e il Nordafrica da noi

Essere internazionalisti oggi

interviene Emilio Quadrelli (associazione marxista "politica e classe")

materiali utili per il seminario (in aggiornamento)

- Rabat chiama Torino, Parigi chiama Algeri - L’internazionalizzazione delle lotte e i compiti dell’avanguardia leninista (di Giulia Bausano, Emilio Quadrelli) (in pdf)

bibliografia di Emilio Quadrelli

- Quadrelli E., Autonomia Operaia - Scienza della politica e arte della guerra dal '68 ai movimenti globali, Feltrinelli, Milano, 2008.
- Quadrelli E., Evasioni e rivolte - Storie di migranti nei Cpt, Agenzia X, Milano, 2007.
- Quadrelli E., Gabbie metropolitane - Carceri, discipline, resistenze, DeriveApprodi, Roma, 2005.
- Quadrelli E., Andare ai resti - Banditi, rapinatori, guerriglieri nell'Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi, Roma, 2004.
- Dal Lago A. Quadrelli E., La città e le ombre - Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano, 2003.

presentazione del ciclo completo di seminari: cos'è BISOGNA SOGNARE! CRISI RIVOLTE ORGANIZZAZIONE

dibattito e discussione on facebook


Relazione dell'intervento di Emilio Quadrelli

Questi appunti hanno lo scopo di lasciare una traccia dei ragionamenti fatti assieme ad Emilio Quadrelli il 1 aprile: non sono la pedissequa trascrizione di quello che Emilio ci ha detto nell’incontro all’università e in quello successivo presso il centro sociale dei compagni di Banchi Nuovi, sono piuttosto il tentativo di mettere nero su bianco i punti centrali emersi nel dibattito, i più attuali ,quelli che più ci hanno fatto più riflettere e discutere, sono un modo di evidenziare le risposte, ma soprattutto le domande lasciate inevitabilmente aperte.

Prima di tutto partiamo da uno sguardo sulla situazione libica: molto di più che nel caso dell'Iraq e dell'Afghanistan, lo slancio e l’impegno bellico europeo qui appare evidente. Il protagonismo statunitense sembra quasi eclissarsi di fronte a quello francese ed inglese. Questa evidenza ci rimanda a due problematici differenti:

Qual è l’attuale relazione di forze tra i poli imperialisti e , soprattutto, all’interno stesso del blocco europeo? Quello che appare chiaro è che il processo di unificazione ed integrazione europea presenta oggi più che mai crepe visibili, che rivelano interessi contrastanti (basti pensare alla frizione Francia/Germania). Sarebbe troppo sbrigativo stabilire in questa sede se si tratti di una situazione di stallo permanente, di un vero e proprio fallimento o di una semplice defaillance. È anche possibile che il “ritorno al passato” determinato dalla crisi economica, che ha provocato, tra le altre cose, anche la ricomparsa di un colonialismo di rapina (finalizzato all’esproprio puro e semplice di materie prime e risorse energetiche), abbia anche determinato l’inasprirsi di conflitti e di interessi “nazionali” all’interno del blocco UE (si “ritorna” nei vecchi possedimenti, sia pure con finalità dettate dalla nuova fase, il caso della Libia sarebbe in questo senso paradigmatico).

La situazione nordafricana sembra preconizzare uno stato permanente di instabilità, la guerra sarà sempre meno eccezione, o meglio: lo sarà sempre più nel senso schmittiano del termine. L'eccezione come nuova normativa.

IL NORD AFRICA IN RIVOLTA
Guardando gli ultimi accadimenti nella prospettiva di chi si trova sull’altra sponda del Mediterraneo, non si può che constatare – e le rivolte in Nord africa, ognuna con le sue peculiarità e differenze, sembrano esserne la conferma – il fallimento del processo di decolonizzazione; questo processo non ha avuto infatti l’effetto di emancipare effettivamente, sia da un punto di vista strutturale che culturale, le ex-colonie sono rimaste legate de facto a doppio filo ai paesi europei che un tempo rappresentavano anche de iure la madrepatria, e lo sviluppo di una borghesia locale non ha fatto che accelerare la penetrazione del sistema neoliberista.
Questa“occidentalizzazione” dei paesi del “Sud”, intesa come portato della nuova fase dell’internazionalizzazione capitalistica, produce due effetti differenti:

a. lo sviluppo di una borghesia nazionale/internazionale che si sostiene attraverso il nuovo processo di sfruttamento della forza-lavoro “locale” e che si configura ideologicamente come una “élite” animata da “valori” liberal-democratici (parliamo evidentemente di una esigua minoranza della popolazione).
A proposito della formazione e della trasformazione della borghesia locale, facciamo due brevi excursus sul caso algerino e tunisino: Il caso della Tunisia degli ultimi anni è sintomatico di un passaggio dal “capitalismo di Stato” (borghesia di stato “redditiera”) al neoliberismo (modificazione necessaria proprio per consentire lo sfruttamento capitalistico diretto della forza-lavoro, cosa che implica il superamento del ruolo centrale della “rendita” tratta dalle materie prime). Il passaggio di “fase” si esprime anche in un diverso modo di gestire la “questione agraria”: mentre l’Algeria post-rivoluzionaria, in virtù del prevalere delle forze borghesi, non realizzò una vera e propria riforma agraria, e ciò per impedire la concentrazione industriale di una classe operaia e modellare il nuovo stato sulla base della “rendita” tratta dalle materie prime, utilizzata anche per sviluppare il pubblico impiego, ecc. Oggi si assiste ad un processo diverso che vede una crescente proletarizzazione: l’assenza di vere riforme agrarie consente di generare e gestire un flusso costante di forza-lavoro salariata a basso costo che assicura profitti impensabili nei paesi “occidentali”.

b. lo sviluppo di un proletariato supersfruttato, che però, a differenza della borghesia “locale”, non condivide i “valori” dei suoi comparti “occidentali”, poiché è egemonizzato dalle tendenze islamiche (potremmo quindi affermare che la tendenziale omogeneizzazione internazionale riguarda le condizioni materiali e non quelle ideologiche).

IL NORDAFRICA DA NOI
Vent’anni fa, all'epoca della prima ondata migratoria, si interpretava il proletariato migrante come quello che avrebbe coperto una piccola nicchia dentro il mercato del lavoro, ed il solo problema era quello che questi qui avrebbero dovuto avere uno status giuridico adeguato agli standard europei. Invece nel giro dei vent'anni il modello di lavoro sperimentato sui migranti si è rovesciato su quote non irrilevanti di proletariato europeo; il rapporto tra il trattamento riservato ai migranti e quello degli indigeni è paragonabile a quello fra formula 1 e mercato di massa della automobili: si sperimentano delle innovazioni che poi vengono allargate al proletariato locale. La completa destrutturazione del mercato di lavoro fa sì che in linea di tendenza le condizioni materiali non siano troppo dissimili, fatte salvo le possibilità di protezione familiari dei lavoratori indigeni e lo status di cittadini. Possiamo dunque guardare alla condizione degli immigrati come ad una profezia, ad una “anticipazione” del nostro futuro in materia di diritti (principalmente, ma purtroppo non esclusivamente, in ambito lavorativo), ad una sorta di laboratorio dove si sperimentano le prossime strategie di sfruttamento. Come abbiamo accennato sopra, la fase attuale del modo di produzione capitalistico segna il passaggio (o piuttosto dovremmo dire il “ritorno”) dal neocolonialismo al colonialismo, tuttavia - e questo ci sembra essere la questione centrale per analizzare quale debba essere il nostro intervento qui (nelle metropoli occidentali) ed ora (di fronte a questa trasformazione/accelerazione in materia di sfruttamento e demolizione dei diritti dei lavoratori), quest’ultimo si presenta in forme rinnovate e con articolazioni interne alla metropoli (banlieue, “colonie interne”, ecc.) il “modello” di sfruttamento sperimentato ai danni dei lavoratori della “periferia” o nelle “colonie interne”, ovvero sui lavoratori immigrati, tende inevitabilmente a riversarsi anche sui lavoratori della “metropoli” e/o sui lavoratori “indigeni”; emerge quindi la tendenza ad una “omogeneizzazione” delle condizioni di lavoro, comprovata dal processo di smantellamento del welfare nella “metropoli”.

Questo passaggio di fase modifica le condizioni “politico-sociali” dei lavoratori della “metropoli”:se all’epoca delle colonie, in virtù di una netta demarcazione “dentro/fuori” o “centro/periferia”, le potenze del “centro” distribuivano una parte dei sovraprofitti imperialistici a quote della classe operaia occidentale (la cosiddetta “aristocrazia operaia”); fu proprio questo a far dire a Fanon che gli stessi operai Renault, che rappresentavano simbolicamente l’intera classe operaia europea, non potevano dirsi fratelli di quei colonizzati con i quali non solidarizzavano affatto, ma anzi del cui sangue e sudore continuavano a nutrirsi senza alcuno scrupolo, anteponendo l’interesse nazionale a quello di classe, auto-estromettendosi, oggettivamente e soggettivamente, da quel proletariato internazionale del quale ritenevano erroneamente essere i più autorevoli rappresentanti. Soffermiamoci sull'esempio algerino che ha una sua attualità e può aiutarci ad interpretare la situazione di oggi: negli anni cinquanta la sinistra occidentale, il pcf su tutti, scelse di ignorare, se non talvolta di sabotare, la lotta anticoloniale del popolo algerino. Il governo algerino indipendente, d’altro canto, non agevolò uno sviluppo industriale proprio per evitare una concentrazione operaia, ed evitò la riforma agraria che è il postulato di ogni industrializzazione. Si sviluppò così un'élite che divenne nel suo territorio l'agente diretto delle multinazionali internazionali. (possiamo trovare delle analogie anche con quanto successo in Palestina dove Al Fatah è divenuto l'amministratore dell'imperialismo, gestisce e governa la forza lavoro palestinese.). Similmente oggi in Italia le forze cosiddette progressiste non esitano a pronunciarsi sulla necessità dell’intervento in Libia in nome dell’interesse nazionale, nel timore di vedersi soffiare sotto agli occhi quello che consideravano essere il proprio “cortile di casa”. Proprio come cento anni fa, con la prima guerra di Libia si tende a contrapporre il proletariato locale, che dalle guerre dovrebbe ricavare benefici (pensate alla campagna mediatica in atto in questi giorni a proposito dell’aumento del costo della vita nel caso l’ENI perdesse il suo monopolio in Libia), al proletariato che si va di volta in volta a sfruttare, imprigionare, bombardare.

ESSERE INTERNAZIONALISTI OGGI
Se questa biforcazione degli interessi era già falsa cento anni fa lo è ancora di più oggi: nella misura in cui la dinamica internazionale è “compenetrata” proprio grazie allo sfruttamento diretto-industriale della classe operaia (cosa che implica massicci fenomeni di proletarizzazione al “Sud”), il collegamento “centro/periferia” generato dalla valorizzazione capitalistica diretta si traduce nella impossibilità di redistribuire i sovraprofitti e – piuttosto – nella tendenziale omogeneizzazione delle condizioni di lavoro (una sorta di perequazione al ribasso). La prospettiva “offerta” dal nuovo colonialismo alla classe operaia “occidentale” è quindi unicamente un incremento dello sfruttamento.

Questa tendenza impedisce di concepire l’organizzazione di classe nei termini “classici” (prima l’organizzazione nazionale, poi l’organizzazione internazionale), poiché la disposizione-composizione
della classe è “a macchia di leopardo” (Parigi è sempre più a Rabat, e Rabat è sempre più a Parigi).
I lavoratori della Fiat, ad esempio, per contrastare Marchionne, avrebbero dovuto trovare alleanze immediatamente internazionali, superando le “mediazioni” territoriali prive di significato di classe (Torino, Piemonte, Italia), ma muovendosi individuando l’articolazione delle alleanze di classe sul piano internazionale La possibilità di incidere politicamente, di “essere maggioranza”, si può ottenere non in termini genericamente “territoriali”, ma in termini sempre “relativi”, seguendo e ricomponendo “soggettivamente” la disposizione internazionale “a macchia di leopardo” della valorizzazione capitalistica e della nuova composizione di classe (con la sua nuova dialettica “interno/esterno” che impone alleanze anche con gli immigrati delle “colonie interne”).

Solo seguendo la dinamica del capitale industriale internazionalizzato, e non continuando a giocare di rimessa, su un piano – locale – ormai superato, è possibile fondare un nuovo internazionalismo “materiale” e non “ideologico”. Questa tendenza generale, la necessità di riqualificare l’internazionalismo di classe (all’interno rispetto agli immigrati, all’esterno rispetto alle masse sfruttate del “Sud”), si scontra con una serie di problemi concreti: in particolare con i retaggi eurocentrici (ancora forti) della sinistra “occidentale” e con l’affermarsi di una “risposta religiosa” (soprattutto islamica) tra i lavoratori immigrati e del “Sud”. Bisogna innanzitutto superare e contrastare la “perimetrazione ideologica” che rinchiude l’immigrato o dell’abitante delle banlieue nella figura del “povero” animato esclusivamente da “bisogni primari”; è necessario comprendere che queste masse di immigrati e proletari esprimono già dei bisogni politici derivanti dalla loro condizione, che sono tuttavia “intercettati” dalla religione; la forza dell'Islam è di essere qualcosa di proprio, contrapposto a tutto ciò che è occidentale, socialismo compreso; di essere una produzione indigena, tutta interna a quel mondo di fronte ad un mondo ostile (dove anche Voltaire – simbolo occidentale della libertà è dell’emancipazione dei popoli – ha il volto, bianco, del nemico, ed è, simbolicamente e materialmente, partecipe della colonizzazione).

Piuttosto che rassegnarsi di fronte a questa ennesima barriera che tende a dividere il proletariato secondo linee etniche e religiose (interclassiste), può esser utile ricordare la sentenza di Marx antecedente a quella “sull'oppio dei popoli”: “in un mondo alienato la religione è il gemito degli oppressi”, cioè la religione ha un carattere ambivalente, è sì anestetico, ma anche protesta, segnale di disagio e di dissenso. Sta a noi, e questa sembra essere una sfida impossibile da rifiutare, riuscire a superare ad annullare la diffidenza dei lavoratori del “Sud” e degli immigrati nei confronti della “sinistra eurocentrica occidentale”, ma soprattutto superare la “nostra” incapacità a raccogliere, esprimere ed organizzare i nostri comuni bisogni. Il rischio, se falliremo, è che in tutto il Medioriente, il Nord Africa, e soprattutto nelle metropoli occidentali, si sviluppi una “lotta contro i crociati”, invece che una lotta contro lo sfruttamento e l'imperialismo.

Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli

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