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Libertà è partecipazione

A proposito di primarie e voglia di leadership

(17 Ottobre 2007)

Se c’è una nota stonata in un successo così sonante, seppur annunciato, come l’elezione di Veltroni a segretario del Partito Democratico sta proprio nella voglia di leadership che dilaga anche nel centrosinistra. Lo si discute da anni e in questo la Destra ha sicuramente vinto, imponendo un’ossessione prima che un sistema e un uomo. L’uomo della provvidenza e il partito leaderistico e personalizzato, pur in quel rinnovamento auspicabile in una Sinistra che voglia scrollarsi di dosso le ragnatele di burocrazie d’apparato, sono geni mica tanto coniugati con la democrazia. Perché nel voto di tremilioni e fischia d’italiani come li definisce Fassino c’è sicuramente un’esigenza sana del Paese che desidera camminare e costruire, ma c’è pure un meccanismo di delega che dovrebbe preoccupare. Sgombriamo il terreno da fraintendimenti: non s’afferma che avere un capo sia faccenda riprovevole, né si rimpiange la nomina del segretario in fumose assise di Comitati Centrali o in corridoi borgiani, però pensare che col voto e con l’euro di ieri si sia messa nelle sante mani d’un salvatore la sorte della nazione è cosa quantomeno bizzarra e infantile.

C’è stata un’epoca in cui i soggetti vivi della società, i lavoratori nelle fabbriche, i cittadini nei quartieri ponevano problemi e cercavano soluzioni che Parlamento e partiti non gli offrivano. Usavano le strutture esistenti – consigli, comitati – o le creavano ex novo. I loro desideri di realizzare, decidere, cambiare erano espliciti non si facevano necessariamente impastoiare da leader, che esistevano anche allora, ma erano proposti e imposti dal basso e suscettibili di sostegno o bocciature dirette. Ovviamente non parliamo dei segretari di partito ovattati nel mondo dei propri apparati, diciamo che quell’epoca conobbe però una parentesi di democrazia diretta. “La libertà è partecipazione” cantava Gaber e credo che la riflessione valga sempre. Ora i tremilioni e fischia rappresentano una splendida partecipazione che però ha un programma e seguirà una strada già scritte: delegare al grande capo (un altro!) e al suo entourage la propria parte attiva. Poiché il Partito nascente, al di là delle fusioni da brivido fra Diesse e Margherita, si prefigge un modello leggero, un po’ radicale, popolar-chic, smaccatamente americano, opinionistico, assolutamente interclassista, partecipativo solo per eleggere i professionisti che s’occuperanno di politica mentre a milioni rimarranno davanti al televisore o potranno recarsi verso urne preconfezionate, convention e feste organizzate.

Se fossi stato – e non lo sono stato – uno dei tremilioni, con tutto il rispetto per il loro voto, mi sentirei un poco parco buoi. Si viene invitati a indicare un capo e a riporre in lui speranze per le sorti migliori e progressive e amen. Finisce lì? Si spererebbe di no, si spererebbe in un partito nuovo che facesse politica vecchia, quella buona non da ladri craxiani, quella che s’occupava dei bisogni: scuole, case, lavoro, sanità, stato sociale. Forse Veltroni in qualche talk show fra le cento altre cose parlerà anche di queste ma un po’ così, en passant perché la politica postmoderna e l’odierno vivere impongono altre lustrini. E il cittadino che deve delegare e consumare necessita di stordirsi davanti a mille offerte per delegare di più e meglio. Se il popolo italiano è quello che nell’Occidente ha più introiettato il modo di pensare americano non poteva ricevere regalo migliore dell’ American party veltroniano. Che ha sempre inseguito il kennedysmo più del berlinguerismo ma che oggi si presenta in tutto il suo ingombrante orientamento antipolitico. L’American party, il partito-festa, è l’antipolitica come lo è stato il partito-azienda berlusconiano. A forza di cancellare ideologie, rinnegare origini, fare tabula rasa di com’eravamo restano un presente e un passato prossimo fra i peggiori. Restano certi “ismi”. Il presenzialismo, la voglia di presidenzialismo, l’individualismo, una real politik che odora d’opportunismo, l’affarismo, il piacionismo, l’edonismo, il buonismo e quell’ipocrisia che fa l’elemosina alla povertà del mondo anziché emanciparla, liberarla, sradicarla. Come faceva l’idolo JFK poi vittima del sistema che l’aveva generato e che lui difendeva. Meditino i tremilioni e fischia se questa è la via.

15 ottobre 2007

Enrico Campofreda

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