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Requerdo de Madrid

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Lo schiaffo d’Oltretevere

(12 Gennaio 2008)

Sferrare lo schiaffo e celare, ma solo parzialmente, la mano. E’ quanto papa Ratzinger ha compiuto con l’uno-due dell’incontro con le massime autorità della città di Roma: il sindaco Veltroni e i presidenti di Provincia e Regione Gasbarra e Marrazzo, tutti in quota al centrosinistra e al Partito Democratico. Ieri l’anatema "E’ gravissimo il degrado di alcune aree di Roma", oggi i portavoce della Santa Sede che riconoscono l’impegno profuso dal sindaco per la città, carezzandolo dopo lo strattone come per ricordargli d’essere sub judice. Ci sono vari risvolti della vicenda, tutti politici. Vediamoli.

Papa Ratzinger è un ossimoro vivente. Alla vocina e alle maniere aggraziate fa seguire parole-macigno e concetti antichi da altrettanto antico sovrano. Dalla sua salita al soglio di Pietro, che tanta temporalità ha segnato nella storia dello Stato Pontificio, Benedetto XVI ha più volte rilanciato un’idea assolutamente antiquata di Santa Romana Chiesa. Sia come fede, proclamando la superiorità verso le altre grandi religioni monoteiste – e creando non pochi problemi diplomatici coi mondi mussulmano ed ebraico – sia per l’invadente desiderio di controllo di alcune nazioni dove la Chiesa ha fatto per secoli da padrona. La prima naturalmente è l’Italia nel cui territorio lo Stato Vaticano ha la sua sede e la maggiore presenza spirituale e temporale. Questa smania di temporalità s’è riaffacciata intensamente proprio col trapasso del pontificato di Giovanni Paolo II.

Il papa polacco aveva vissuto il passaggio della laicizzazione della società italiana e dell’Occidente. Nei suoi primi anni a San Pietro l’Italia rafforzò quelle conquiste laiche a difesa di leggi come il diritto al divorzio e all’aborto sostenute soprattutto dal fronte d’autocoscienza delle donne. Capaci all’epoca di ridiscutere millenarie subalternità della società maschile che ancora nei Settanta ne umiliava talune condizioni con ordinamenti disumani. Cos’altro erano l’indissolubilità del matrimonio e l’impossibilità di tutela sanitaria nell’ipotesi d’interruzione della gravidanza? La Democrazia Cristiana opponendosi, in quanto partito dei cattolici, a questi diritti civili e perdendo i referendum popolari sulla difesa delle due leggi iniziava quel declino nella supremazia nel Paese. Eppure il vento del rinnovamento ha subito l’arresto degli ultimi anni. Dopo il crollo del regime Dc e del fronte consociativo e delle tangenti s’è ricreato un blocco conservatore attorno alla sedicente Casa della Libertà e la revanche d’un cattolicesimo reazionario ha trovato nuove spinte propulsive.

Oggi sulla piazza romana si giocano due partite politiche: quella immediata delle prossime amministrative con la fine del mandato Veltroni e il più generale confronto per il futuro governo nazionale. Il Centro e la Destra non reggono il Campidoglio da sedici anni, uno smacco che solo le giunte "rosse" di Argan e Petroselli avevano prodotto. Se si parla di confronto fra amministratori laici e paracattolici per i primi bisogna correre indietro agli inizi del Novecento, guardando al mazziniano Nathan. L’uomo con la fascia tricolore che - pur nella prosopopea di edificazioni di regime come il Vittoriano predisposto per il cinquantenario dell’Unità d’Italia - studiava un piano regolatore rimasto a lungo quale unico esempio urbanistico degno di questo nome per la capitale. La città nel 1909 era ancora per oltre la metà in mano a un manipolo di famiglie nobili – la famigerata aristocrazia nera – che la controllavano nepotisticamente. Barberini, Colonna, Torlonia avevano eletto un’infinità di quei papi sovrani depredatori del territorio e delle popolazioni, in perfetto stile feudale.

Anche sotto il fascismo, col Concordato del 1929 e poi negli anni dell’immensa speculazione edilizia che lanciò "la civiltà della palazzina", queste famiglie che cedevano i terreni e costruttori senza scrupoli s’arricchirono esageratamente. Era il ‘sacco di Roma’ diretto dai sindaci Rebecchini, Cioccetti, Darida. Tutti democristiani, tutti benedetti dalla Santa Sede che continuava a godere di privilegi, pensiamo alle numerosissime aree cittadine concesse al Vaticano per Istituti e Opere Pie già nel Ventennio e ipergarantite nel secondo dopoguerra. Dicevamo delle due campagne che pongono Roma nelle mire del partito cattolico al qua e di là del Tevere. La linea seguita nei confronti di giunte che si dicevano laiche come le due Rutelli, ma di concessioni agli interessi economico-speculativi di banche, istituzioni e uomini – qualche nome per tutti: Geronzi, Fazio, Gaetano Caltagirone, Luigi Abete – ne hanno fatto a bizzeffe, s’è basata su accordi sottobanco e favori ricevuti. Con tanto di genuflessioni di sindaco e consorte e benedizioni elargite.

Anche il Veltroni-uno ha seguito quest’onda. Poi è giunto il 19 aprile 2005 e già nei mesi successivi, dietro il sorriso bonario del pastore tedesco, si leggeva tutto il desiderio di rilanciare una riscossa confessionale su istituzioni amministrative e politiche. Veltroni nel traghettamento dell’Ulivo verso il Partito Democratico, che realizza in piccolo il sogno berlingueriano del compromesso storico, si ritrova a dirigere un gruppo sempre più prigioniero d’un integralismo cattolico di ritorno, pronto a riversare in politica una visione parateologica della società. E’ quel fondamentalismo che essi contestano a un certo mussulmanesimo, è la devianza di non vivere in privato il proprio credo e ritrovarsi a proporre uno Stato confessionale. La Bindi e la Binetti come Buttiglione, senza salvezza alcuna. Per non scontentare i cattolici interni al PD Veltroni cerca di far finta di nulla, ma di fatto il neonato partito ha già perso l’essenza laica reggendosi su un compromesso squilibrato verso l’Oltretevere. Succube del suo sovrano e dei potenti capitali che si muovono all’ombra del Cupolone e servono per Festival e spettacolarizzazioni politiche d’ogni genere. Ora al danno s’aggiungono beffa ed oltraggio. Però non siamo ad Anagni e lo schiaffo non lo riceve Bonifacio VIII.

11 gennaio 2008

Enrico Campofreda

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