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L’autunno del capitale

(24 Novembre 2008)

Facciamo circolare questa anticipazione di alcuni stralci del saggio di Maurizio Donato sulla crisi. In larga parte coincide con la relazione presentata da Maurizio Donato alla tavola rotonda "La crisi economica nell'epoca della competzione globale" tenutasi a Roma il 17 novembre scorso. Nell'originale (assai più ampio) ci sono mumerosi grafici. Il testo integrale sarà disponbile su www.contropiano.org da martedi mattina.

Facciamo circolare questa anticipazione di alcuni stralci del saggio di Maurizio Donato sulla crisi. In larga parte coincide con la relazione presentata da Maurizio Donato alla tavola rotonda "La crisi economica nell'epoca della competzione globale" tenutasi a Roma il 17 novembre scorso. Nell'originale (assai più ampio) ci sono mumerosi grafici. Il testo integrale sarà disponbile su www.contropiano.org da martedi mattina.

Per cercare di analizzare la fase attuale della crisi economica del capitalismo è possibile utilizzare un approccio capace di andare oltre una visione di breve periodo che tende a ridurre tutto agli avvenimenti degli ultimi mesi, evitando al contempo un giudizio parziale che circoscriva la crisi ai suoi epifenomeni finanziari o monetari.

Credo che ci si possa accordare su – almeno – un paio di punti di partenza che potrebbero essere accettati senza sforzo da tutti quelli che guardano alle vicende del capitalismo con uno sguardo non abbagliato dalle ideologie dominanti. In primo luogo, il capitalismo è una formazione economico-sociale, un modo di produzione storicamente determinato; ha avuto inizio, ovviamente non in un anno esattamente determinabile, ha conosciuto indubbiamente un periodo di espansione, sebbene non “spalmato” uniformemente su tutto il pianeta terra, ed è dunque altrettanto plausibile che, oltre alle sue crisi “congiunturali”, conosca un periodo di declino che può rappresentare la sua fine. Se ci si intende sul carattere storico del capitalismo, resta da chiedersi quali categorie siano utilizzabili per cercare di interpretare i “segnali” che la crisi ci rimanda e che ovviamente si presentano – per quanto riguarda la dimensione economica della crisi - sotto forma di variabili statistiche che, impregnate come sono di ideologia borghese, in nessun caso corrispondono esattamente alle categorie marxiane.

Eventi eccezionali e fragilità strutturale

Da un punto di vista generale, sembra che la teoria economica ortodossa assuma, nei confronti delle crisi, un atteggiamento che tende a presentare i suoi fenomeni come eventi eccezionali, ossia accadimenti rari che, almeno dal punto di vista della frequenza con cui si manifestano, non rappresentano altro che scostamenti occasionali da una modalità di funzionamento del macrosistema economico contrassegnato nella maggior parte dei casi da regolarità e prevedibilità nel comportamento dei soggetti.

Quando poi le crisi scoppiano, si rimane spesso vittime di un “errore di prospettiva”, ossia quello di giudicare gli avvenimenti avendo in mente un orizzonte temporale di breve periodo. Si tratta a mio avviso di un errore di prospettiva perché, concentrando l’attenzione sulla dimensione ciclica delle variabili economiche, si rischia di perdere di vista le tendenze di lungo periodo, strutturali.

Per avere un’idea delle conseguenze di questo modo di considerare l’orizzonte temporale dei fenomeni da analizzare, possiamo considerare come il Fondo monetario internazionale giudicava, a settembre 2006, la situazione economica internazionale.

Per il Fmi, l’andamento della produzione industriale, del commercio internazionale, dei consumi e degli investimenti suggerivano il giudizio secondo cui l’economia mondiale stesse conoscendo, meno di due anni fa, un ritmo di espansione “well sustained” E come si fa a “sostenerlo”? Per esempio prendendo come orizzonte temporale di riferimento un periodo scelto “a caso”, in questo gli ultimi cinque anni in cui, a partire dal 2001, si osserva una ripresa di alcuni indicatori e, come conseguenza, della fiducia dei soggetti economici. Ma è sensato azzardare previsioni sulla sostenibilità dello sviluppo del capitalismo guardando a che cosa succede nell’ultimo ciclo breve e non invece in un arco di tempo più lungo?

Effettivamente, a distanza di poche pagine dello stesso rapporto, un qualche dubbio deve avere assalito gli economisti del Fondo, quando affermano che la crescita “very strong” del 2006 avrebbe potuto subire una “modest deceleration” nel 2007. Strano, ma vero; è bastato aggiungere tre o quattro anni alle figure, prendere in considerazione un arco di tempo anche solo leggermente più esteso, che già l’ottimismo senza dubbi si stempera, aprendo il fianco a qualche indizio di preoccupazione.

In realtà motivi di preoccupazione potevano e dovevano manifestarsi, dal momento che tutti gli anni ’90 sono stati contrassegnati da episodi di crisi, dall’economia messicana all’insolvenza russa, dalla crisi est-asiatica al fallimento argentino, dal crack della Enron a quello della Parmalat, ma si trattava in ogni caso di crisi che non toccavano direttamente il “cuore” del sistema, sicché la narrazione ideologica rassicurante aveva ancora frecce da lanciare.

Tipicamente, in quasi tutte le occasioni si era cercato di attribuire le cause della crisi ai paesi cosiddetti “emergenti”, a voler significare che, se esistono problemi nel capitalismo, questi – in ogni caso eventi eccezionali - hanno (avevano?) origine e causa in sistemi ancora “primitivi” rispetto al ristretto club dei paesi a capitalismo “maturo” che riuscirebbe a tenere efficacemente sotto controllo le dinamiche potenzialmente perniciose dell’economia, in virtù della sua lunga storia e – va da sé – della superiore abilità della sua classe dirigente. I mercati funzionano bene, l’economia cresce e prospera, tranne che non si verifichino eventi eccezionali, come la caduta delle borse.

Per quanto riguarda la nozione di evento eccezionale, Benoit Mandelbrot, pioniere della teoria dei frattali, ha fatto argutamente notare[1] come “dal punto di vista convenzionale, gli eventi di agosto 1998 [citiamo da un suo libro scritto prima degli ultimi avvenimenti, ma a maggior ragione a questi applicabile] semplicemente non avrebbero potuto verificarsi .. Le previsioni basate sulla teoria standard stimavano il collasso [dell’economia russa e del fondo di investimenti LTCM] del 31 agosto con una probabilità di 1 su 20 milioni, un evento che, facendo scambi di mercato ogni giorno per 100.000 anni, non ci si sarebbe aspettato si verificasse mai. Le possibilità di osservare tre eventi del genere in un solo mese sono 1 su 500 miliardi .. Un indice di borsa che diminuisce più del 7% in un giorno è un evento che secondo la statistica normale accade una volta ogni 300.000 anni; nei fatti il ventesimo secolo ha conosciuto 48 eventi di questo genere

L’ipotesi di Mandelbrot è che la teoria ortodossa (economica, ma non solo) sottostimi sistematicamente l’importanza dei cosiddetti eventi eccezionali, ipotizzando che la distribuzione statistica tipica delle variabili economiche sia rappresentata dalla classica forma a U, detta “normale”, il che è fortemente dubbio. Se si ipotizzano altre distribuzioni, meno “normali”, gli eventi eccezionali appaiono sotto un’altra veste e il sistema rivela la sua intrinseca fragilità strutturale (....)

Quello della crisi è un problema finanziario, si dice. La crisi è finanziaria, da attribuire a una finanza “speculativa” da separare – non si capisce esattamente come – da una economia reale che, di contro, si suppone essere “sana” e che sarebbe colpita di rimbalzo da “errori” o “eccessi” originati dalla finanza speculativa.

Quello che viceversa credo sia necessario sostenere, e che cercherò di argomentare, è che non è possibile separare nettamente il capitalismo finanziario da quello produttivo per la semplice ragione che queste due funzioni del capitale sono l’una necessariamente collegata all’altra, spesso convivono addirittura nello stesso soggetto, tipicamente rappresentato da una holding, che opera sia nel campo degli investimenti produttivi che in quello della speculazione, attraverso strumenti operativi diversi che non possono nascondere l’unitarietà della categoria capitale[1].

Naturalmente è possibile e ragionevole, anche utile, considerare separatamente le diverse funzioni del capitale e in questo senso appare corretto sostenere che siamo in presenza di una tendenza a una progressiva autonomizzazione delle funzioni meramente speculative del capitale, a patto di tenere bene a mente che tale fenomeno avviene proprio a causa dei meccanismi su cui si fonda l’accumulazione di capitale, che rendono ciclicamente e strutturalmente insufficiente la produzione di plusvalore in rapporto al tasso di profitto medio e all’eccesso di capitale in circolazione. La finanza e il credito intervengono proprio per cercare di tamponare e rimandare una crisi che ha le sue radici nel cuore dell’economia capitalistica, nel suo modo di produzione, che si esprime come sovrapproduzione di capitale nelle sue diverse forme funzionali, di capitale merce, di capitale monetario, di capitale variabile.

Ora, se la crisi è da sovrapproduzione[2], sembra evidente che nessuna delle due proposte di uscita dalla crisi è efficace e praticabile, né quella dal versante dell’offerta (quella confindustriale, potremmo dire schematicamente), né quella neo-keynesiana. Non ha senso dire che occorre aumentare la produttività, o detassare gli straordinari che ne è un corollario, dal momento che l’aumento della produttività, in una situazione in cui le imprese denunciano una riduzione degli ordini, hanno i magazzini pieni di merce invenduta, riducono la produzione, è un evidente controsenso, perché non farebbe altro che accelerare e rendere ancora più pesante la crisi. Altrettanto illusoria appare l’idea regolazionista secondo cui occorrerebbe “ritornare alla produzione”, farla finita con o almeno ridurre drasticamente la speculazione finanziaria, dal momento che se pure per incanto tutto il capitale in eccesso rispetto alle normali opportunità di profitto e attualmente impegnato in operazioni finanziarie si riversasse nella produzione reale, avremmo ancora una volta raggiunto il risultato di accelerare e non ricomporre la crisi del sistema[3].

Da questo punto di vista, il fallimento cui stiamo assistendo in questo autunno del capitale non è solo relativo a banche, istituzioni finanziarie e imprese; a fallire è proprio il tentativo di gestione della crisi attraverso la finanza e la parziale marcia indietro di Paulson sul piano di “salvataggio” dei tossici rappresenta una ulteriore testimonianza di come sia estremamente difficile ogni operazione di rimessa in equilibrio di un sistema caratterizzato da una evidente instabilità strutturale, di cui la finanza rappresenta solo un elemento, nonché estremamente importante.

Riassumendo, le due operazioni che andrebbero fatte per tentare di costruire un giudizio sulla natura della crisi riguardano sia l’orizzonte temporale di riferimento, analizzando la crisi su un piano storico, di medio e lungo periodo, sia l’utilizzo di categorie appropriate – quelle marxiane, per chi ancora pensa che siano utilizzabili – pur nella dovuta cautela necessaria quando si cerca di adoperarle per leggere dati costruiti secondo una logica affatto diversa da quella marxista (....)

Note
[1] Benoit Mandelbrot e Richard H. Hudson, Il disordine dei mercati. Una visione frattale di rischio, rovina e redditività; Einaudi, 2005
[1] In più di un caso, le funzioni diverse sono incarnate dalla stessa persona fisica che può essere, ad esempio, amministratore delegato della FIAT e vicepresidente della UBS. Secondo questa stessa persona, d’altro canto, un marchio industriale tedesco concorrente rappresenterebbe una istituzione finanziaria che fabbrica merci.
[2] Presupposto teorico che i marxisti dovrebbero dare per scontato, e che in ogni caso non costituisce l’oggetto di questo scritto
[3] Beninteso, questo non vuol dire che non si possano sostenere proposte di maggior tassazione degli investimenti speculativi, sui capital gains o qualsiasi altra proposta che vada nella direzione di un aumento del salario sociale reale, come la diminuzione della pressione fiscale sul lavoro salariato. Si tratta di lotta di classe, non di antidoti alla crisi.

Maurizio Donato
http://www.contropiano.org

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