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Libano, Hezbollah può vincere ma dovrà collaborare

(7 Giugno 2009)

Fatto salvo il tratto d’incertezza che accompagna ogni consultazione elettorale, il voto di domani in Libano può confermare talune previsioni su cui si discute da settimane. La prima è il successo, seppur di misura, delle forze d’opposizione guidate da Hezbollah, favorito da una linea di alleanze che vede al suo fianco Amal, i cristiani del generale Aoun e il partito dei cristiano-armeni Tashnaq che ha recentemente voltato le spalle ad Hariri e allo schieramento filoccidentale. Ma se ci sarà vittoria, fatto comunque storico per il movimento sciita in ascesa, non sarà amplissima perciò per governare il Paese e non farlo cadere in nuovi conflitti armati serviranno compromessi. Uno è la riedizione di governo d’unità nazionale, realizzabile però difficile da gestire per l’intero quadriennio. E’ vero che esiste un diffuso desiderio di superare quel clima di scontro perenne e accesissimo che ha dato vita al termine di ‘libanizzazione’ eppure il rischio di vederselo ricomparire per l’uso e l’abuso di colpi di mano è altrettanto reale soprattutto se le ingerenze esterne continueranno a pesare sul Paese.

Hariri junior nel discorso di chiusura della campagna elettorale ha esortato il rispetto delle scelte dei cittadini, forse temendo che nel caso fosse lui a primeggiare le milizie armate del Partito di Dio potrebbero scorrazzare per le vie di Beirut come nella crisi d’un anno fa. In queste ore per far scivolare le elezioni lontano da tentazioni di colpi di mano sono stati mobilitati cinquantamila fra militari e poliziotti, mentre le Forze dell’Unifil (quattromila elementi) restano vigili ma non ingerenti. Eppure le ingerenze, o attenzioni particolari, più destabilizzanti vengono dall’esterno; nelle due ultime settimane le ha offerte la politica internazionale con figure tutt’altro che marginali. Incipit statunitense col viaggio di Biden e i suoi discorsi per un voto “utile” agli scopi di pace che l’americano ha coniugato a senso unico con l’appoggio alla coalizione del ‘14 marzo’ che riunisce i seguaci sunniti di Hariri, una parte dei cristiano-maroniti di Gemayel e dei drusi di Jumblat. Un po’ partito delle famiglie, sicuramente partito degli affari che sulle orme di Hariri padre (ucciso in un attentato nel 2005) ripropone come unica soluzione la svolta filocapitalista dello Stato.

A dire di votare per il costoro ci si è messo anche Barack, il ministro israeliano della guerra, l’uomo che da altra sponda politica ha seguìto le orme criminali di Sharon dando vita al micro conflitto del 2006 diventato un boomerang per i confinanti invasori. Ennesima voce ingombrante sull’urna, stavolta pro Hezbollah, l’immancabile Ahmadinejad chiamato nei giorni seguenti a difendere il proprio scranno presidenziale dall’assalto del riformista Moussavi. Certo nulla di nuovo, se non fosse che il Paese dei cedri è palesemente tornato nelle attenzioni della politica internazionale come crocevia strategico sulle sorti regionali. Sul suo panorama c’è chi pone maggiormente l’accento sulla buona condizione del sistema finanziario interno che non ha risentito granché della crisi globale, seppure non si sa per quanto la fase favorevole potrà durare, e chi al contrario sottolinea la palese arretratezza d’un popolo diviso ancora in maniera tribale, con dinastie familiari, sette religiose, un quadro sociale ha ben poco di moderno.

Però la modernità che il Paese ha conosciuto svilisce alquanto la tradizione, la subordina a modelli occidentali, a un mercantilismo che troppo sa d’imperialismo per quanto mascherato da uno sviluppo che non è progresso. E nei ruoli statali mancanti, perché da decenni si segue la spirale distruzione-ricostruzione e investimenti esteri specchio di pesanti ingerenze politiche, hanno preso corpo quelle strutture di “Stato nello Stato” che sono l’Hezbollah di cui abbiamo parlato e altre componenti come gli armeni anch’essi organizzati con propri centri, scuole servizi. Ma quel che ha pagato parecchio negli ultimi tempi è la ricerca dell’identità di popolo e nazione che Hezbollah ha lanciato in opposizione agli invasori israeliani. Impegno che ha avuto crescita di credibilità del partito oltre le fila della comunità sciita e che ora può valere il primato elettorale e scelte di rapporti istituzionali anche con gli avversari.

Come dev’essere accaduto nella rottura della rete collaborazionista filo israeliana, notizia recente che fa intuire un’apertura fra tutte le componenti del governo d’unità nazionale. Per quanto obiettivo dello Shin Bet sia stato per anni il gran capo Nassrallah, oggetto di ben cinque tentativi di eliminazione. Probabilmente i rappresentanti del Movimento per il Futuro s’aspettano uno scambio di favori e che casi alla Rafiq Hariri (ucciso si vocifera dai Servizi siriani) non tornino a ripetersi. Ciò che può mandare in tilt il rilancio d’un senso comune di Stato e collettività è l’autoproclamazione d’un singolo partito, gruppo etnico o religioso come depositario di questa identità. Chiunque vinca a Beirut e dintorni sarà obbligato a dialogare con gli avversari, il Libano avrà futuro se vedrà affermarsi regole condivise e pluralismo. Le forze filoccidentali affermano di saperlo e anche il sayyid Nassrallah pare averlo compreso, occorrerà vedere se amici e nemici d’oltre confine lo permetteranno.

6 giugno 2009

Enrico Campofreda

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