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Donne in carcere: la portata del castigo

(3 Settembre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.contropiano.org

"In relazione alle perquisizioni corporali, dalle descrizioni delle donne emerge l'esposizione del corpo a vari livelli e la violenza sessuale che la suddetta esposizione comporta, come l'ispezione vaginale, oltre alla modalità più degradante e vessatoria, il nudo integrale con flessioni -il 24% delle donne intervistate riconosce come molto o abbastanza frequente l'intrusione degradante nell'intimità del proprio corpo sottoforma di ispezioni vaginali". Queste parole fanno parte di una recente ricerca sulla situazione delle donne in prigione e rivelano la chiara presenza di pratiche da dittatura militare sulle persone private della libertà. È una ricerca congiunta effettuata dalla Commissione sulle Tematiche di Genere della Procura Generale dello Stato, dalla Procura Penitenziaria dello Stato (PPN) e dal Centro di Studi Legali e Sociali (CELS), e, nella prima fase della ricerca, dal Gruppo Giustizia e Genere del Centro Interdisciplinare per lo Studio di Politiche Pubbliche (CIEPP). Qui riportiamo parte di questo corposo studio.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un notevole aumento degli indici di esclusione sociale e del trattamento violento dei settori più poveri.

Prova ne sia il continuo aumento del tasso di detenzione, che nel caso delle donne è aumentato in maniera esponenziale. Secondo il Servizio Penitenziario Federale (SPF), la popolazione femminile nelle carceri federali è passata da 298 nel 1990 a 1.039 nel 2007, cosa che implica una crescita del 350%.

La pena detentiva ha implicazioni diverse per uomini e donne. Tuttavia, gli istituti legali, le norme giuridiche e le pratiche giudiziarie e penitenziarie sono solite ignorare questo diverso impatto del carcere per ragioni di genere e nascondere le richieste specifiche delle donne.

Esiste una grande sproporzione tra il danno sociale prodotto dai principali delitti per i quali le donne sono detenute nel sistema federale e il castigo cui sono sottoposte, non solo per la durata delle condanne, ma soprattutto per le conseguenze che la privazione di libertà (preventiva o con sentenza) causa loro e alle loro famiglie.

Le detenute hanno a che fare con un luogo violento, dove sono violati quasi tutti i loro diritti (salute e integrità fisica, istruzione, lavoro, vincoli affettivi), e come se non bastasse, il loro castigo le trascende e tocca i loro familiari, poiché nella maggioranza dei casi si traduce in un aumento della vulnerabilità del loro nucleo familiare quando non nello smembramento delle famiglie e nell'abbandono dei loro figli.

Questa ricerca descrive tutte le violenze, gli abusi e le violazioni di diritti subite dalle donne recluse nelle carceri federali del paese, così come le gravissime conseguenze provocate dalla loro detenzione in quanto a smembramento dei loro nuclei familiari e abbandono dei loro figli. Questo allo scopo di aprire un dibattito che coinvolga il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, nell'ambito del quale siano valutate alternative meno dannose della reclusione carceraria. Se nonostante tutto si deciderà di non ribaltare le cose, non si potrà più far finta di non conoscere la situazione per non assumersi la responsabilità politica ed etica delle conseguenze.

Questa ricerca combina l'analisi delle informazioni di tipo qualitativo e quantitativo. La maggior parte delle informazioni è il prodotto di una ricerca effettuata su 148 donne recluse nel sistema penitenziario federale.

La sistematica violazione dei diritti fondamentali delle detenute evidenzia la non realizzabilità dei cosiddetti fini di reinserimento nella società che costituzionalmente vengono attribuiti alla pena carceraria. Il diritto all'istruzione, al lavoro, alla salute, così come il diritto a condizioni dignitose di detenzione, sono violati quotidianamente, cosa che conferma che il carcere è incapace di produrre effetti positivi e permette di definirlo come uno spazio di riproduzione di disuguaglianze, violenza ed esclusione.

Chi sono le donne incarcerate?

L'indagine ha rivelato che le recluse appartengono ai settori più vulnerabili. D'altra parte, i dati mostrano che l'86% delle donne intervistate è madre e nella stragrande maggioranza viene da famiglie monogenitoriali in cui esercita la funzione di capofamiglia.

Un dato indicativo è che nella popolazione carceraria femminile si trova un alto indice di straniere che costituiscono quasi la metà delle donne recluse (48%).

Riguardo all'età, le detenute hanno in media 36 anni, cosa che conferma la tendenza di una popolazione penitenziaria femminile più adulta di quella maschile.

È importante rilevare che la stragrande maggioranza delle recluse è al primo arresto: l'80% non ha avuto altre condanne. Nel caso delle straniere, la percentuale di primi arresti è ancora maggiore, raggiungendo il 96%.

La politica di persecuzione penale sulle donne

L'aumento della popolazione penitenziaria femminile degli ultimi decenni è il risultato dell'applicazione di una politica criminale incentrata sui delitti legati alla vendita e al traffico di stupefacenti. La maggioranza è detenuta per delitti come la vendita o il contrabbando di stupefacenti. Quasi sette donne su dieci confermano di essere processate o condannate per delitti legati alle droghe. Il 16,2% è detenuto per delitti contro la proprietà e solo il 14,2% per delitti contro le persone. Il restante 3,4% è processato o condannato per altri tipi di delitti. Va rilevato che nove donne straniere su dieci sono private della libertà per delitti legati alle droghe.

Iter processuale delle detenute

Il 55,4% delle donne intervistate è in carcerazione preventiva; una misura cautelare che, violando diritti di ordine costituzionale, va applicata con carattere di eccezionalità. L'alta percentuale di donne recluse sembra indicare un uso improprio dell'istituto che risulta eccessivo ed è incompatibile con i fini processuali se si tiene conto che ci troviamo di fronte a una popolazione penitenziaria che, in termini generali è "al primo arresto", è detenuta per delitti "non violenti" e si trova in una situazione di particolare vulnerabilità per via delle responsabilità familiari a suo carico, in contesti di estrema povertà.

La maternità in carcere

Un dato assoluto emerso da questa ricerca è quello legato alla maternità delle donne incarcerate in ambito federale. L'85,8% delle donne intervistate ha dichiarato di essere madre. In media, le recluse che sono madri hanno tre figli e l'86% ha figli minori di diciotto anni; più di un quinto è madre di bambini minori di quattro anni.

D'altro canto, l'88 % delle donne che ha figli minori di diciotto anni ha dichiarato di convivere con due o tre figli minori di diciotto anni al momento della detenzione e il 22% convive con figli maggiori di 18 anni. Ossia, queste donne occupano un ruolo centrale nella cura giornaliera e nel mantenimento economico dei loro figli, circostanze che aggravano le conseguenze della reclusione. Nei casi di donne con figli minorenni che non vivono più con loro per via della detenzione, le conseguenze dell'arresto in genere sono devastanti poiché la loro detenzione implica lo smembramento del gruppo familiare con gravissime conseguenze per i figli, sia sul piano affettivo-psicologico sia materiale.

Inoltre, le detenute che portano avanti una gravidanza o che convivono con i loro figli nel penale devono affrontare maggiori difficoltà delle altre. I pochi servizi previsti non coprono tutte le necessità specifiche che si presentano e le pone in una situazione di maggior vulnerabilità, poiché alle consuete difficoltà si aggiungono quelle date dalla condizione di gestante, in periodo di allattamento o per l'attenzione e la cura dei figli più piccoli.

L'impatto provocato dalla detenzione della madre sui figli minori di età riguarda non solo il vincolo madre-figlio, ma si estende anche a quasi tutti gli aspetti della vita dei bambini e adolescenti. Nel caso di bebè e bambini che vivono in carcere questo impatto è evidente, poiché patiscono le stesse condizioni deficitarie di detenzione delle madri. Nei figli minori di età che hanno perso la convivenza con la madre, alcune delle conseguenze più frequenti sono tra le altre: smembramento del gruppo famigliare, perdita di contatto con la madre e con i fratelli, pellegrinaggio da una famiglia all'altra, aumento delle incertezze economiche, abbandono degli studi o difficoltà di apprendimento, sfruttamento del lavoro infantile, depressione, problemi di salute.

L'assenza dello Stato di fronte alle necessità specifiche delle detenute e dei loro figli si avverte nella mancanza di consulenza, assistenza o accompagnamento nel processo seguente all'arresto per decidere del destino dei figli minori di età e per fare in modo di preservare il loro vincolo. Questa mancanza di attenzione dello Stato accentua la vulnerabilità delle donne recluse e lascia senza protezione bambini e adolescenti che, spesso, si trovano in situazione di abbandono.

Di fronte alle necessità specifiche delle madri recluse e dei loro figli, le agenzie governative non offrono l'assistenza necessaria, lasciando i bambini alla loro sorte. Tutto questo fa sì che l'adattamento al carcere e la detenzione delle donne che sono madri comportino una maggiore sofferenza, supplemento di pena non considerato né calcolato dal legislatore o dai tribunali.

Condizioni di detenzione

La salute nelle carceri federali costituisce un grave problema che ha suscitato proteste collettive da parte delle donne. Così, il 40% di chi ha richiesto cure mediche solo a volte è stato visitato. Inoltre, la metà delle donne non è d'accordo con le cure e con il trattamento del personale sanitario.

Inoltre, se si legano le condizioni materiali di alloggio, igiene e alimentazione al carente sistema sanitario, è possibile concludere che la detenzione ha conseguenze gravissime in quanto al deterioramento della salute delle donne. Il 47% delle donne con una qualche malattia l'ha contratta durante la detenzione. Riguardo all'istruzione, la ricerca ha rivelato che il 64% delle donne non segue alcun corso di studi formale, dato confermato dalla percentuale di donne che non ha portato a termine il proprio percorso scolastico -il 63%. Questo denota una situazione allarmante, considerando anche l'obbligatorietà dell'istruzione secondaria. I dati indicano che anche se il 70% delle donne lavora in carcere, più della metà svolge attività con scarso livello formativo, che non riescono a garantire risorse sufficienti e adatte alle esigenze dell'attuale mercato del lavoro, cosa che mette in discussione le reali possibilità di reinserimento delle donne dopo la detenzione.

Anche se l'85% delle donne ha figli che nella stragrande maggioranza sono minori di età, solo il 22% riceve la loro visita almeno una volta al mese e il 67% non ha mai ricevuto la visita dei figli minori di età.

D'altro canto, solo il 15% delle donne riceve abitualmente la visita del compagno/a o coniuge, nonostante più della metà ne abbia uno. Uno dei motivi è che i visitatori sono sottoposti a procedure di perquisizione che consistono in genere nell'obbligo di denudarsi e far ispezionare le cavità del corpo -bocca, vagina, ano- così come l'ispezione di vestiti e averi, cosa che si traduce in un trattamento umiliante e vessatorio.

Durante il 2008, il 38% dei visitatori delle detenute ha subito ispezioni ai genitali, nonostante siano state dichiarate illegittime dagli organismi internazionali dei diritti umani.

Supplementi di pena

La prigione detentiva implica sempre un elevato livello di violenza. Nel caso delle donne, si aggiunge la violenza di genere che, in molti casi, si traduce in aggressioni sul corpo della donna. L'esempio paradigmatico sono le perquisizioni vessatorie cui sono sottoposte e che consistono in nudità integrali e nell'esame della zona vaginale e anale, che sono ancora effettuate nonostante siano proibite dalla legislazione internazionale.

L'esercizio della violenza fisica da parte del SPF all'interno delle carceri federali femminili non sembra essere un fatto marginale né eccezionale, ma è riferito a pratiche giornaliere e sistematiche: il 32,4% delle donne conferma di aver assistito ad atti di violenza fisica in prigione -botte, calci, spinte, ecc. - esercitata direttamente dal personale carcerario su qualche detenuta e quasi una donna su dieci (l'8,1%) afferma di essere stata personalmente oggetto di queste violenze. Inoltre, i risultati indicano una focalizzazione delle suddette pratiche violente sul gruppo delle donne rinchiuse nell'unità 3 (il 13% delle detenute in quella unità è stato fisicamente aggredito in maniera diretta dal personale del SPF), così come nel gruppo delle più giovani.

Un secondo punto da rilevare è il ruolo del SPF nello sviluppo delle dinamiche di violenza nelle carceri studiate. Questo ruolo è evidente sia nella sua responsabilità diretta di esecutore delle pratiche di violenza e punizioni corporali, sia per la responsabilità indiretta. In questo ultimo caso, lo svolgimento del Servizio rende possibile l'esercizio di violenza tra detenute, decidendo quando e se intervenire e in che momento farlo.

Inoltre, la ricerca riporta che una detenuta su dieci, conferma di essere stata punita con l'isolamento e le testimonianze dicono che la sua applicazione è accompagnata da episodi di abuso, maltrattamento fisico e violazione di diritti di ogni tipo come "supplementi di pena".

Riguardo alle perquisizioni corporali, dalle descrizioni delle donne emerge l'esposizione del corpo a vari livelli e la violenza sessuale che la suddetta esposizione comporta, soprattutto la modalità più degradante e vessatoria, il nudo integrale con flessioni e l'ispezione vaginale -il 24% delle donne intervistate riconosce come molto o abbastanza frequente l'intrusione degradante nell'intimità del proprio corpo sottoforma di ispezioni vaginali.

Alcune linee di lavoro alternative alla detenzione come unica risposta punitiva dello Stato nei confronti delle donne che hanno violato la legge penale:

- per le donne, una prima alternativa alla detenzione è legata alla condizione di madri di bambini minori di età. Oltre al riconoscimento della gerarchia costituzionale di numerosi trattati internazionali sui diritti umani e l'approvazione della Legge N. 26.472, che include le donne incinte o madri di figli minori di cinque anni tra le condizioni per ottenere l'arresto domiciliare, come prassi si dovrebbe evitare l'uso della detenzione o sostituirlo, quando questo non è possibile, con gli arresti domiciliari.

- In secondo luogo, le istituzioni coinvolte in questa ricerca sostengono la proposta di una modifica legislativa e delle relative pratiche giudiziarie, che permetta di sospendere la reclusione carceraria quando si tratta di donne al primo arresto accusate di delitti non violenti, come nel caso del traffico di droghe su scala ridotta.

- In terzo luogo, anche la legislazione penale contiene modalità giuridiche di regolazione della detenzione basate sul principio di autodisciplina, come nel caso della semilibertà o dei permessi transitori, istituzioni a cui si può accedere a metà della condanna (art. 17 Legge 24.660). La semilibertà -prevista nell'art. 23 della Legge 24.660- consente alla persona condannata di andare a lavorare fuori dal carcere, rientrando alla fine della giornata lavorativa e inoltre include un permesso transitorio settimanale. Por su parte, i permessi transitori permettono di effettuare uscite dal carcere di 12, 24 o fino alle 72 ore per consolidare vincoli familiari e sociali, frequentare corsi di studio o partecipare a programmi di semilibertà. Questi istituti fanno parte del già citato regime carcerario progressivo orientato alla riabilitazione e al reinserimento nella società. Tuttavia, sono molto poco utilizzate nel sistema federale. A dicembre 2009, solo il 15% delle donne condannate aveva permessi transitori e nessuna era sottoposta al regime di semilibertà.

Si è visto che il regime progressivo e la forma in cui è implementato non sono adeguati alle condanne brevi, che sono quelle applicate alla stragrande maggioranza delle donne recluse, poiché le condanne sono concentrate nelle prime fasi del procedimento. Questo si traduce soprattutto nel fatto che le donne non hanno accesso ai permessi transitori o al regime di semilibertà.

Queste sono solo alcune delle proposte tese a produrre una drastica riduzione della quantità di donne detenute nell'ambito del Servizio Penitenziario Federale, così come la regolazione della detenzione allo scopo di ridurre l'enorme danno sociale prodotto dalla detenzione femminile, che non ha alcuna proporzione con il danno sociale prodotto dai delitti che vengono imputati.

Sulla ricerca

La ricerca è stata eseguita congiuntamente dalla Commissione sulle Tematiche di Genere della Procura Generale dello Stato, dalla Procura Penitenziaria dello Stato (PPN) e dal Centro di Studi Legali e Sociali (CELS), e, nella prima fase dell'indagine, dal Gruppo Giustizia e Genere del Centro Interdisciplinare per lo Studio di Politiche Pubbliche (CIEPP). L'idea di eseguire questo lavoro unendo le forze è tesa ad avvalersi di e a potenziare le varie esperienze, conoscenze e strumenti delle istituzioni interessate, oltre ai vantaggi di formare un gruppo multidisciplinare che ha permesso di combinare diversi approcci di analisi.

Il lavoro sul campo è stato fatto tra il 20 giugno e il 21 agosto 2008 in unità di alloggio di donne del Servizio Penitenziario Federale: Unità 3 "Istituto Correzionale Femminile" (Ezeiza); Modulo V del "Complesso Penitenziario Federale I" (Ezeiza); Unità 31 "Centro Federale di detenzione di donne Nuestra Señora del Rosario di San Nicolas" (Ezeiza); Unità 13 "Istituto Correzionale Femminile Nuestra Señora del Carmen" (La Pampa); Unità 22 "Carcere Federale di Jujuy" (Jujuy); Unità 27 "Unità Psichiatrica Moyano" (Città di Buenos Aires). Inoltre, nell'Unità 23 (Salta) è stato fatto uno studio analitico pilota, prendendo le informazioni qualitative per la bozza del progetto e degli strumenti di produzione di dati.
(AW, Argentina)

traduzione di Flavia Vendittelli

www.contropiano.org

Fonte

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