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La Gelmini ha ragione

La Gelmini ha ragione

(26 Novembre 2010) Enzo Apicella
Manifestazioni studentesche contro la "riforma" Gelmini in tutte le città.

Tutte le vignette di Enzo Apicella

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(Capitale e lavoro)

Per difendere i salari e le pensioni contro precarizzazione e carovita

Breve storia dell’evoluzione del sistema pensionistico italiano

(8 Novembre 2003)

1. Le origini
Il sistema pensionistico italiano nasce (insieme a quelli di altri paesi europei industrializzati) verso la fine dell’800. Inizialmente è un sistema contributivo e a capitalizzazione, su base volontaria, gestito da assicurazioni private o dalla pubblica Cassa Nazionale di Previdenza. L’evoluzione del sistema è segnata da due date fondamentali: nel 1919 la previdenza obbligatoria per i lavoratori dipendenti, nel 1933 l’accentramento del sistema previdenziale sotto il controllo pubblico (nascita dell’INPS).

2. Dagli anni ’50 agli ‘80
All’uscita della seconda guerra mondiale il sistema a capitalizzazione è in piena crisi. Gli anni cinquanta e sessanta, con i crescenti tassi di sviluppo economico ed occupazionale, favoriscono l’espansione del sistema pensionistico pubblico, che viene esteso ai lavoratori agricoli, ai commercianti ed agli artigiani. I lavoratori ottengono la pensione di anzianità, il passaggio al sistema retributivo, l’indicizzazione delle pensioni a prezzi e salari.
A metà degli anni ’70 lo scenario dell’andamento dell’economia mondiale è ormai cambiato, e a partire dagli 80 gli effetti della disoccupazione cominceranno a pesare sul sistema previdenziale. In questo quadro la spesa previdenziale tende ad incrementarsi a ritmi maggiori rispetto alla crescita del pil, e alla fine degli anni 80 è già passata dal 5 al 10% di quest’ultimo. Una situazione destinata ad amplificarsi (la commissione Brambilla nel settembre 2001 prevedeva il 15% nel 2015) con i modesti andamenti di crescita delle economie occidentali: incalzato dalla crisi, il capitale italiano (e non solo) reclama interventi strutturali che riducano gli oneri sociali.

3. Gli anni ’90: iniziano le contro-riforme
Il primo attacco alle conquiste previdenziali porta la sigla del governo Amato (1992). È l’anno del Trattato di Maastricht, che impone il contenimento del rapporto spesa pubblica/pil. La ricetta è quella degli USA di Reagan: la supply side economics sostitusce l’offerta pubblica di servizi sociali con la privatizzazione e messa valore di sanità, istruzione, reti distributive, previdenza … così si riducono le tasse (alle imprese) e si alimentano i mercati finanziari. La riforma Amato blocca le pensioni di anzianità, aumenta l’età pensionabile ed i requisiti minimi contributivi per le pensioni di vecchiaia, riduce i meccanismi di indicizzazione. Inoltre allungato il periodo di riferimento per il calcolo della pensione: il primo passo che allontana dal sistema retributivo nuovamente verso il contributivo.
Un successivo tentativo (fallito) di riforma delle pensioni sarà nel 1994 un fattore primario nella caduta del primo governo Berlusconi. Il ministro del tesoro Dini propone una riduzione della spesa di circa 10 mila miliardi, da ottenersi elevando l’età pensionabile a 65 anni (entro il 1998), con un’ulteriore stretta alle pensioni di anzianità e riducendo il coefficiente di rendimento delle pensioni. La storia successiva è nota: le mobilitazioni dell’autunno 94 portano alla firma dell’accordo governo-sindacati sullo stralcio delle pensioni che rinvia il problema ad una legge da approvarsi entro metà dell’anno successivo. Berlusconi perde l’appoggio leghista, il governo cade. Il successivo governo sarà formato proprio da Dini, avrà (come il governo Amato) l’appoggio esterno del Pds.
Nel 1995 quindi il governo Dini - forte dell’accordo di fine 94 - porterà a compimento la seconda riforma previdenziale, con il passaggio al sistema contributivo (totale o pro rata) per tutti a partire dal 1996, esclusi (per ora) solo coloro che nel 95 hanno almeno 18 anni di contribuzione. Questa riforma contiene elementi da sottolineare in prospettiva: misure per ridurre il numero delle pensioni di anzianità, introduzione del contributo del 10% sul crescente numero di lavoratori precari (all’epoca, le collaborazioni coordinate), esplicita stabilizzazione della spesa pensionistica in rapporto al pil. Infine, lancio della previdenza integrativa (privata): vengono istituiti i fondi pensione suddivisi in “chiusi” (in sede di CCNL con i sindacati) e quelli “aperti” (totalmente privati e a cui si aderisce su base individuale) e si identifica il Tfr come strumento di finanziamento di questi fondi. Si tenta così di chiudere il cerchio dell’economia dell’offerta: se le pensioni pubbliche calano, ci si rivolga alle assicurazioni private, soprattutto in una fase in cui i mercati finanziari stanno cominciando la corsa speculativa della new economy. La riforma Dini, prevedendo verifiche periodiche dei risultati, lascia il terreno aperto ad ulteriori interventi dei governi che verranno sul terreno delle pensioni.
Con il 1997 la palla è passata al governo Prodi (governo di centrosinistra con appoggio esterno del PRC, alla cui affermazione elettorale non è stato estraneo il movimento - ormai rifluito - di fine 94). Questo governo, in un’atmosfera di ritrovata pace sociale, porta a casa un risultato non indifferente per la borghesia italiana in questa fase: il non scontato rientro nei parametri di Maastricht, grazie a due finanziarie “lacrime e sangue” che assommano a qualcosa come 100mila miliardi complessivi. Ovviamente anche le pensioni fanno parte del pacchetto dei tagli, ed il risultato sulla riforma previdenziale è il seguente: inasprimento ed estensione al settore pubblico delle restrizioni sulle pensioni di anzianità; spinta all’avvio della previdenza integrativa privata attraverso l’eliminazione di ostacoli normativi soprattutto nel pubblico impiego; aumento delle aliquote contributive di precari, artigiani, commercianti. Anche qui la storia è nota: proprio sul nodo delle pensioni Rifondazione arriva ad un tentativo di crisi nell’autunno del 97, rientrato il quale voterà comunque la finanziaria che prevede altri 5mila miliardi di tagli indistinti ai salari indiretti ed alla spesa sociale fra pensioni e sanità. Come è noto la crisi arriverà veramente nell’autunno del 98, con il ritiro del sostegno del PRC, la scissione dei comunisti italiani, e la formazione del governo D’Alema.

Notizie in pillole per sfatare i luoghi comuni
La truffa del contributivo: ricordate quando ci distrussero la scala mobile asserendo che creava spinte inflazionistiche? Ebbene per colpa di Cgil cisl uil perdemmo il solo strumento che adeguasse automaticamente gli stipendi al costo della vita e nello stesso tempo i contratti iniziarono ad essere firmati in base alla inflazione programmata. In dieci anni abbiamo perso oltre il 10% del potere di acquisto e nel futuro le cose andranno ancora peggio
“Il calcolo su tutta la vita risulta micidiale nel falciare il rendimento delle pensioni. È stato stimato che con 40 anni di lavoro si raggiungerà, per il solo effetto di questa manovra, una pensione inferiore al 50 % degli ultimi salari ricevuti" (fonte SPI- Cgil)

I contributi pagati per ogni lavoratore dipendente sono attualmente pari al 33% della retribuzione Il Governo sta progettando di abbassare i contributi dei nuovi assunti : la loro percentuale rispetto alla retribuzione non sarà più il 33% ma diminuirà ancora di più. Gli ultimi contratti nazionali come quello della Plastica, del Commercio e delle Poste penalizzano i nuovi assunti che nei fatti sono lavoratori di serie b con meno diritti, orari più sfavorevoli e salai di ingresso nonché una maggiore facilità di incorrere in licenziamenti e provvedimenti disciplinari. Questi contratti sono stati firmati nell’ultimo anno dalla stessa Cgil.
Andremo in pensione a quasi 70 anni e lavoreremo anche oltre perché non basteranno i soldi per pagarsi le spese mediche di una sanità nel frattempo privatizzata
La manovra Finanziaria sarà di 16 miliardi e mezzo di euro. La legge Finanziaria con gli anni è diventata da legge ragionieristica quale era uno strumento per interventi strutturali con tagli delle spese sociali .
L’economia Italiana assomiglia non ad una locomotiva, piuttosto ad una bicicletta senza cambi, la crescita PIL è pari allo 0,5%, non si intravedono spiragli per il rilancio occupazionale con la delocalizzazione di imprese e la percentuale più bassa in Europa per fondi destinati alla ricerca. Tra il 1993 e il 1998 i governi tecnici e di centrosinistra italiani hanno incassato dalle privatizzazioni 108.000 miliardi delle vecchie lire , più di ogni altro paese industrializzato,tra il 1990 e il 2000 le entrate delle privatizzazioni sono state pari a quasi 109 mila milioni di dollari. In Italia si è privatizzato più che in ogni altro paese e i proventi sono finiti ad ingrossare il capitale fittizio e la speculazione finanziaria rafforzando il grande Capitale ma non certo si sono salvaguardati i livelli occupazionali rilanciando la produzione.
In questi dati stanno le ragioni della vittoria elettorale del centrodestra che ha capitalizzato quello che il centrosinistra ha presentato su un vassoio d’oro, ossia l’indebolimento della classe lavoratrice, la fine di ogni conflittualità sociale a vantaggio unico di una classe media reazionaria e conservatrice. È proprio quest’ultima classe ad invocare ordine e tolleranza zero per delinquenza ed immigrati (invocati invece dagli imprenditori del Nord est), a chiedere meno tasse e un nuovo “decretone” per il condono edilizio puntualmente arrivato con la Legge Finanziaria.
Le privatizzazioni nazionali sono state seguite puntualmente dalla vendita o esternalizzazione dei servizi locali e comunali, create società per azioni con dirigenti catapultativi dalle Giunte e dalle segreterie di partito, una miriade di bassi stipendi (non è casuale il rilancio delle Co.co.co anche nella pubblica amministrazione) accompagnati da molteplici forme di precariato.

Per queste ragioni la ripresa di una opposizione sociale e politica non può prescindere da alcuni obiettivi
- Battaglia contro le privatizzazioni e ritiro i tutte le norme del precariato dal Pacchetto Treu alla Legge 30;
- Rilancio delle attività produttive a svantaggio delle speculazioni finanziarie;
- Salvaguardia dei servizi pubblici e della piena occupazione;
- Fine della concertazione tra Governo e sindacato. Una democrazia basata non su maggioritario e presidenzialismo federalista ma sul ritorno al proporzionale, senza concertazione e monopolio della rappresentanza sindacale che fanno solo gli interessi delle classi dominanti.

Queste e non altre sono le basi del rilancio programmatico di una alternativa sociale sindacale e politica.

IL PIANETA FUTURO
Associazione di politica e cultura comunista

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