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(29 Gennaio 2011) Enzo Apicella
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Gli anti-gheddafi formano governo alternativo

I rivoltosi affermano che la vittoria finale è vicina ma è difficile avere un quadro preciso della situazione sul terreno. In questi giorni vari organi d’informazione hanno diffuso notizie di massacri e bombardamenti che in non pochi casi non sono mai avvenuti

(27 Febbraio 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.nena-news.com

Gli anti-gheddafi formano governo alternativo

foto: www.nena-news.com

Roma, 27 febbraio 2011, Nena News - Si conoscerà oggi la composizione del governo ad interim che nelle intenzioni dei rivoltosi anti-Gheddafi prenderà il posto dell’esecutivo che fa ancora capo al colonnello libico. La sede di questo governo alternativo sarà Bengasi la seconda città del paese da una settimana nelle mani dell’opposizione. Della nuova amministrazione faranno parte rappresentanti di città come Misurata e Zawiyah e altri centri che, stando alle notizie imprecise che arrivano dalla Libia, non sono più sotto il controllo del potere centrale. I rivoltosi perciò vanno avanti, in attesa, spiegano, della «liberazione di Tripoli», che potrebbe diventare il campo dell’ultima decisiva battaglia per il controllo della Libia. È durata poche ore la calma apparente che ha regnato ieri nella capitale. In serata si sono uditi di nuovo colpi di armi a conferma che gli insorti hanno respinto l’appello al dialogo lanciato venerdì sera da Seif al Islam, figlio e delfino di Gheddafi. Ma è davvero difficile avere un quadro preciso della situazione sul terreno. In questi giorni vari organi d’informazione, d’opposizione locali ma anche media internazionali, hanno diffuso notizie di massacri e bombardamenti aerei, che in non pochi casi non sono mai avvenuti come successivamente è stato dimostrato. Ma la guerra della disinformazione la combatte il regime. Ieri le autorità hanno deciso di trasferire tutti i giornalisti stranieri in un hotel alla periferia sud di Tripoli e permettono loro di girare solo con un accompagnatore per verificare quelle che definiscono, «le menzogne» diffuse dalle tv satellitari panarabe Al Jazira e Al Arabiya. Prosegue anche l'esodo degli stranieri con i traghetti in partenza per Malta e sugli ultimi voli dall'aeroporto di Tripoli, ormai al limite di una emergenza sanitaria.

Intanto Barack Obama ha "chiesto" al colonnello Muammar Gheddafi di lasciare il potere «per il bene del suo Paese» e, certamente, anche per il bene degli interessi strategici americani nella regione. Mattere le mani sul petrolio libico e piazzare basi militari sulle coste libiche sarebbe un bel colpo per Washington (e non solo). Nello stesso tempo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all'unanimità sanzioni contro il regime libico e i membri della famiglia Gheddafi. I quindici del Consiglio di Sicurezza, in linea con l'Unione Europea, si preparano ad imporre un embargo sulle armi, il blocco dei beni del colonnello e dei suoi familiari, oltre al divieto di viaggiare nell'Ue. La risoluzione prevede in particolare sanzioni dirette contro il leader, Muammar Gheddafi, otto dei suoi figli, due cugini e undici esponenti del regime di Tripoli, 22 persone in tutto. Ma dietro l’angolo c’è anche l’intervento armato. Come ha indicato l'ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’Onu, Susan Rice, le risoluzione fa riferimento all'articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, che non esclude un «intervento internazionale», ossia un attacco militare contro la Libia.

Nena News offre alla vostra attenzione il servizio sulla giornata di ieri in Libia di Maurizio Matteuzzi, pubblicato oggi dal quotidiano Il Manifesto

TRIPOLI

Ieri sera il governo inglese ha deciso di evacuare la sua ambasciata qui a Tripoli. Lo stesso ha fatto la Francia: ambasciata chiusa, personale già evacuato. Poche ore prima il figlio «moderato» di Gheddafi, Salif Al-Islam, aveva dichiarato alla tv araba Al Arabiya: «Siamo pronti a tutto, anche alla guerra civile». Il messaggio è chiaro: la situazione è al limite, e oltre.

Ma anche la risposta dei libici è chiara: far venire a Tripoli giornalisti stranieri, tenerli il più possibile al riparo da brutte avventure o schegge impazzite (come quella che accolse noi, i nove giornalisti italiani arrivati giovedì scorso, maltrattati e uno malmenato da un gruppo di civili armati di kalashnikov a un posto di blocco lungo la strada dall'aeroporto), portarli in giro per la città ovunque chiedano di andare, farli parlare con la gente perché tocchino con mano «la normalità» della situazione. Nel tentativo disperato di contrastare una campagna mediatica sistematica e massiccia di informazione drogata, o di disinfomazione, proveniente dall'estero, che non esita a ricorrere a bufale a volte spudorate, per screditare sempre di più un leader ormai bruciato da 42 anni di regno assoluto (a meno che non si voglia credere alla favoletta che Muammar Gheddafi, non avendo più da molto tempo cariche formali, sia solo un nonno un po' sui generis privo di potere reale). Per portare a compimento un «regime change» deciso altrove, in nome di una «democrazia» che vedremo «dopo» di che stampo sarà fatta, per rimettere in riga un paese come la Libia troppo ricco e troppo vicino all'Europa per poter essere ancora lasciato nelle mani di un tipo estemporaneo e imprevedibile come il Colonnello.

Così ieri i nostri angeli custodi libici, dopo un venerdì islamico difficile nelle strade, un'inquietante apparizione di Gheddafi in colbacco sulla Piazza verde e una conferenza stampa notturna di Saif al-Islam, il figlio che sta cercando di salvare il salvabile (e la dinastia), ci hanno fatto cambiare albergo, invitando tutti o quasi i giornalisti stranieri su piazza in un lussuoso hotel di costruzione turca più lontano dalla Piazza verde, dove si tengono conferenze stampa (come quella di Saif) e briefing quotidiani, si parte per i tour in piccoli gruppi, si ricevono tutte le attenzioni possibili (i libici sono straordinariamente gentili, al contrario di molti altri arabi, senza essere mai servili).

Dopo il cambio di hotel, dove volete andare? In giro per Tripoli blindata che, come scrive la Bbc, «si prepara per nuove battaglie»? A Tajoura, il quartiere delle «fosse comuni» e dell'aeroporto militare di Mantiga «espugnato» dai rivoltosi (due bufale colossali), dove la notte scorsa sembra ci sia stata una battaglia cruenta con un numero imprecisato di morti? A Falashoum, il quartiere che Gheddafi ha ordinato ai caccia di bombardare? Per il vecchio centro con le vestigia italiane per vedere «la città militarizzata» e percorsa dai «camion di civili pro-Gheddafi che pattugliano le strade» (notizia dell'Ap che l'ha avuta «da residenti» che gliel'hanno raccontata «per telefono»)? Per il lungomare e le vie di Andalous, il quartiere upper-class, dove la Bbc dice che «la Ap dice che le è stato detto» che «il governo sta armando supporters civili per organizzare check-points»? Volete fare due passi per la Piazza verde e per le viuzze del suq subito dietro, che, come tutti i suq, mostra la temperatura emotiva di una città araba?

Ok. Tripoli appariva ieri tranquilla, più tranquilla di venerdì e dei giorni scorsi. Traffico normale, gente per le strade, pochi poliziotti e miliziani dal bracciale verde in giro, parecchi negozi chiusi e qualche fila per il pane. A Tajoura non troviamo né i morti (ma potrebbero averli velocemente evacuati) né i bossoli sparati nella notte (ma le tv, arrivate prima, li hanno visti e filmati). A Falashoun non c'è traccia di case colpite dalle bombe. Il vecchio centro, moderatamente animato, e il lungomare non mostrano né camion né check-points di civili armati (come quelli che hanno fermato noi giornalisti italiani giovedì). La Piazza verde è presidiata da una piccola folla di fan che fermano i giornalisti stranieri chiedendo loro, «please» di scrivere «la verità» (parola impegnativa) e sbugiardare «le menzogne» di al-Jazeera e al-Arabiya, ribadire l'«amore» per il leader e gridare come ossessi quello che è diventato il loro mantra: «Allah/Libia/Muammar/w'bas», che vuol dire «e basta». Nelle stradine del suq, i negozi e i banchi sono tutti chiusi. Salah Karoui, che vende oggetti d'oro e che parla bene l'italiano, dice che lui e gli altri sono chiusi, almeno da una settimana, solo per «lavori in corso» e non certo perché si oppongono a Gheddafi. Tutti chiusi per lavori in corso sembra un po' troppo anche a lui, per cui poi confessa che il suq «ha paura» (e questo non è un buon segnale per Gheddafi), ma paura dei «diavoli» come definisce quelli che si ribellano, «mandati qui da altri diavoli anche peggiori». Quali diavoli? «Voi lo sapete benissimo. Ma state attenti perché quelli con la barba devono fare paura anche a voi, perché se arrivano da noi poi arriveranno anche da voi» i maledetti fondamentalisti, conclude e saluta con un stentoreo e italianissimo «cazzo!».

Tutto questo non vuol dire che a Tripoli (e addirittura «nel paese») stiano tornando «la calma e la pace», come si è azzardato a sostenere venerdì sera Saif al-Islam parlando con i giornalisti stranieri, né che sia falsa l'affermazione di ieri della Bbc che «Tripoli si prepara a nuove battaglie», che ci saranno e saranno quelle decisive. Né vuol essere una difesa di Gheddafi che, dopo più di quattro decenni al comando, ha evidentemente perso la cognizione del tempo e delle proporzioni, e avrebbe dovuto andarsene prima che tutto questo dramma (o tragedia) si scatenasse in Libia e che il vento del Maghreb cominciasse a soffiare (se non altro per non essere inevitabilmente accomunato a tipi come Mubarak e Ben Ali).

Solo che, ancora una volta, appare insopportabile la campagna mediatica di cui la Libia (la Libia, prima di Gheddafi) è vittima. Diceva l'altro giorno un imprenditore tripolino che ha studiato in Italia e parla un italiano forbitissimo: «Quello che noi stiamo vivendo qui è una situazione che contrasta in modo paradossale con quello che si racconta stia accadendo». E a raccontarlo sono soprattutto al Jazeera e al Arabiya, le più seguite se non altro per ragioni di lingua. E le più odiate dalla parte gheddafiana della Libia, quelle che si fanno portavoce dei «diavoli anche peggiori» di cui parlava il commerciante d'oro del suq. Singolare destino quello di al Jazeera, che qui a Tripoli non ha nemmeno un ufficio di corrispondenza ma solo una corrispondente che, si legge, «non può essere indicata per nome per ragioni di sicurezza»: quando seguiva la guerra americana in Iraq, Bush e i suoi la definivano «il portavoce di al Qaeda», ora che segue la crisi cruenta della Libia Gheddafi a i suoi la definiscono «il portavoce di al Qaeda». Forse è l'unica volta che il Colonnello si trova in sintonia con gli Usa.

A Tripoli il fuoco cova sotto la cenere. Questo è il resoconto di quanto si è potuto vedere nella Tripoli di ieri. Oggi può essere tutt'altra storia. O già nella notte perché quando cala il buio la città, già difficile da decifrare alla luce del giorno, diventa un mistero. Un mistero fatto di improvvise raffiche di kalashnikov che si sentono distintamente (in questo stesso momento) anche negli alberghi ovattati da cui seguiamo questa tragedia.

Saif al-Islam, venerdì, ha ribadito la linea intransigente del padre - resisteremo fino alla morte - ma allo stesso tempo l'ha aggirata - stiamo avviando negoziati con l'opposizione. Ma negoziati con chi? Su cosa? Con quali margini di manovra? La Libia, con la sua struttura tribale forte e il suo esercito debole, non è né la Tunisia né l'Egitto. Gheddafi, a meno di imprevedibili e improbabili coup de theatre finali, ha perso la partita. E le possibilità che il suo figlio «riformatore» ce la faccia a salvare la barca contro venti e maree, almeno fino a ieri

Nena News

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